The Rabbi is in


In cammino


di Miriam Camerini

Tutte le foto di Gerusalemme qui presenti sono tratte da commons.wikimedia.org


Sono di nuovo a Gerusalemme, è il II giorno di Pesach, la domenica di Pasqua e la metà del mese di Ramadan; è un anno esatto da che ho iniziato a scrivere questa rubrica.

Anche allora, un anno fa, ero a Gerusalemme, e la sera prima che il direttore del Giornale di Rodafà mi proponesse questa sorta di “diario spirituale”, a una cena barbecue sul tetto di una bella casa a Gerusalemme, alla fine della Festa dell’Indipendenza, avevo in cuor mio chiesto all’Eterno che mi fornisse una ragione, una cornice per descrivere tutte le possenti cose che mi capitavano, un appuntamento “pubblico” per ripensare a tutte le emozioni, gli insegnamenti, le riflessioni che una settimana in questa terra d’intensità fornisce in (sovra)abbondanza.

L’indomani mattina - un venerdì, vigilia di Shabbat – avevo ricevuta la proposta, il pomeriggio, prima del tramonto, avevo già mandato il primo pezzo di The Rabbi is in, da un autobus lanciato nel deserto del Negev, verso casa dei miei cugini, ad Arad.

Camminare e raccontare sono due verbi che ben descrivono la settimana di Pesach, quel racconto di strada e quella marcia nella Storia, nel suo tramandarsi.

Uno dei canti più amati della cena di Pesach, il sèder, invita le e i più giovani a tavola a domandare: “Ma nishtanà”, che cosa è cambiato? In che cosa è diversa questa dalle altre notti, perché mangiamo cibi diversi dal solito e in maniera differente, sdraiati invece che seduti, intingendo le verdure in vari condimenti, dall’impasto di frutta che deve ricordare la malta dei mattoni fabbricati dai Figli d’Israele in Egitto all’acqua e sale delle lacrime da essi versate nell’amarezza della schiavitù?

Come ogni appuntamento fisso, però, anche questo - soprattutto questo, con la sua domanda precisa e aperta assieme - ci invita, forse ci obbliga perfino, a domandarci che cosa è cambiato dall’anno scorso, quanto siamo cresciuti, che cosa in noi è diverso ora. Se ripenso allo scorso Pesach, ricordo che ero molto felice, venivo da un periodo di grande concentrazione e creatività, immersa nella bellezza di Parigi, con amici, soprattutto amiche, come si dice poche ma buonissime, rapporti profondi, intensi, di grande cura.

Arrivata in Israele alla luna nuova del mese di primavera, Nisan, avevo passato le due settimane che conducono alla notte dell’uscita dall’Egitto in trepida preparazione, la quarantena obbligatoria assumeva tratti mitologici, spogliata dalla durezza burocratica, e tutto si mescolava nella primavera in fiore, nel Cantico dei Cantici che si legge a Pesach, in tanto lavoro di scrittura e studio, insegnamento e creatività.

Era stato un Pesach molto bello, con un seder significativo, bei pasti festivi e grandi conversazioni, tre gite nella natura di Israele a primavera, a nord, al centro e al sud del Paese.

E poi ero tornata in Yeshiva, alla mia scuola rabbinica, pronta finalmente a studiare dal vivo con insegnanti, amiche e amici per troppo tempo visti solo via zoom, dall’inizio della pandemia. Era stato un periodo di rinascita.

Quest’anno no. Quest’anno è stato molto più difficile, le Pasque sono venute più tardi, l’anno è embolismico, ossia “bisestile”, cioè ha un mese in più.

Pesach è più avanti, ma la natura sembra essersi adeguata a questa tarda primavera.

Due settimane fa ero a Zurigo e guardavo la neve cadere e posarsi su fiori bellissimi e carnosi, già sbocciati e “a tradimento” coperti da quelle nevi tardive e pesanti che preoccupavano mia nipote Alisa, sette anni ancora da compiere, che li guardava pensosa e diceva: “Non so se reggono finché si scioglie!”... A me invece quell’insieme di stagioni, quel tornare della neve come a finire un lavoro incompiuto su petali già maturi, su colori e tessuti già adulti pareva bello, uno scherzo al tempo che non va sempre e solo avanti ma a volte torna indietro, sosta, riguarda, ci ripensa, riavvolge, completa, migliora.

Sono venuta in Israele con grande fatica questa Pasqua, dopo giorni difficili, di spaesamento e stanchezza, di incertezza e tristezza.

La vita che ho condotto da quando è iniziata la pandemia a oggi temo sia finita, quel vivere “nel momento”, nel posto in cui sono, senza preoccuparmi di quanto a lungo ci saprò potrò o vorrò stare è - temo - giunto al suo termine.

Immagino che dovesse accadere prima o poi, e in fondo posso essere grata per quanto è durata, questa euforia del vivere solo di una piccola valigia per mesi e mesi, senza una casa.

Oggi sento che è ora di incamminarmi verso una qualche Terra Promessa, una qualunque, purché mi dia una direzione.

Forse più che ai 40 anni dei Figli di Israele nel Sinai del libro dell’Esodo assomiglierà, questo mio andare, al “Lech Lechà”, vai verso te stesso, impartito ad Abramo in Genesi 12. È un andare “...verso una terra che ti indicherò”, è un mettersi in cammino verso una meta che non c’è ancora, ma che si capirà strada facendo.

L’importante, forse, per oggi, è sapere che c’è una strada e c’è un cammino e c’è una meta. Voglio iniziare a cercare di capire qual è, e cercherò di tenere aperti gli occhi e il cuore perché mi venga mostrata.

Foto di Paola Cazzaniga