Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

Leonardo Boff, 7 giugno 2012 - Foto di Valter Campanato (Agência Brasil), tratta da commons.wikimedia.org


L’opzione per i poveri

di Dario Culot



Pensate a quanta gente va in chiesa, fa la comunione e poi si sente a posto[1]. Ma “Guai a chi si alimenta di Te”, diceva il vescovo brasiliano dom Câmara “e poi non avrà occhi per scoprirti mentre cerchi del cibo nella spazzatura, scacciato sempre, mentre vivi in condizione sub-umana sotto il segno di una totale insicurezza”[2]. In altre parole, il luogo preferenziale dove Dio abita non è la chiesa, ma il cuore del singolo uomo. Se si vuol dare un senso al fatto di entrare in chiesa, dobbiamo ricordarci che Dio ci aspetta fuori, e lì fuori dobbiamo darci da fare.

Non basta l’adorazione dell’ostia in chiesa: ogni esperienza autentica di Dio non si risolve in un godimento estatico. Mosè si accosta per curiosità al roveto, ma il contatto di Dio gli brucia il cuore. Lo stesso succede agli apostoli dopo la Trasfigurazione sul Tabor, anche se non capiscono subito. Dio si rivela non per soddisfare la nostra curiosità o per farci chissà quali rivelazioni religiose gratuite, bensì per informarci di ciò che attende da noi. Mosè va per vedere e si ritrova qualcosa da fare: liberare il suo popolo dal faraone. Anche Pietro, Giacomo e Giovanni, che pensavano di seguire Gesù per ottenere posti di comando, si troveranno a dover fare tutt’altro.

Per di più si finisce col fare non seguendo i criteri che noi riteniamo i più saggi. Quando si vuole erigere una costruzione solida, di pietre, si soppesano con cura queste pietre: si scelgono quello buone e si scartano quelle che non servono. Siamo abituati a valutare: ciò che serve lo tengo, lo valorizzo; ciò che non serve lo emargino, lo scarto. Ma tanto per cambiare i progetti di Dio sono diversi da quelli degli uomini (Is 55, 8). Infatti Dio, quando si pone a costruire il mondo, sceglie quanti sono stati scartati. «La pietra scartata è diventa la pietra d’angolo. Questo ha fatto il Signore ed è meraviglioso ai nostri occhi» (Mt 21, 42; 1Pt 2, 4-9).

Noi, che scartiamo con facilità coloro che riteniamo inutili, pensiamo poi di onorare degnamente Dio erigendogli grandi chiese e facendo grandi cerimonie. Allora capiamo perché invece dom Câmara ci ha sbattuto in faccia una profonda verità: se per religione intendiamo un insieme di credenze, regole, riti e cerimonie che ci servono per tranquillizzare la nostra coscienza e ci aiutano a farci sentire soddisfatti e persone rispettabili, la cosa migliore che può accadere è che quel modello di religione scompaia quanto prima[3]. L’ho già scritto più volte ma lo ripeto: il difficile del cristianesimo non è andare a messa e credere ai dogmi; il difficile è praticare in concreto, giorno per giorno, l’avvicinamento all’altro, all’immigrato, al povero, al debole, perché questo richiede di interrompere il nostro cammino, il programma che ci eravamo preparati per quel giorno, e dedicarci ai bisogni dell’altro nel quale c’imbattiamo senza averlo minimamente cercato. E magari quell’altro istintivamente lo rifiutiamo. Ma allora, l’amore servizievole di cui ci riempiamo la bocca? Sono solo parole, di cui ci dimentichiamo presto. Amare è dare all’altro la possibilità di fiorire,[4] e quindi richiede tempo e impegno da parte nostra. Possiamo perciò essere certi che Dio non è presente là dove la parte debole della società viene trascurata (cfr. At 6, 1-5).

Sicuramente è facile vedere le contraddizioni negli altri, più difficile vederle in noi stessi. Anche perché la coerenza si presta facilmente a tante distorsioni, quante sono le possibilità di falsificare e sfigurare l’amore. Quante volte infatti chiamiamo “amore”, un comportamento che amore proprio non è?

Come ha ben scritto don Franco Caserta: “mi sembra che la ‘coerenza’ dica condivisione con gli altri, condivisione delle loro gioie e dei loro dolori, nel cammino di un peregrino. Proprio perché la fedeltà alla vita dice un legame di fraternità. Possiamo anche affermare che, se non siamo coerenti nell’amore, sfiguriamo il rapporto con l’altro, e quindi sfiguriamo la nostra stessa immagine di persona”. Di nuovo siamo davanti alla richiesta di uno sforzo titanico quotidiano, che nulla ha a che vedere col seguire certi riti o credere a certe verità dottrinali insegnateci al catechismo. Invece è successo, nella nostra pratica religiosa, che i riti si sono costituiti come un fine in sé, a causa del rigore imposto nell’osservanza delle norme. Così l’elemento primario del cristianesimo è il rituale religioso, è il rito stesso, e non il comportamento verso gli altri uomini.

Se guardiamo al passato, è indubbio che pensieri profondamente umani e pensieri disumani hanno convissuto sia nella Chiesa[5] sia nel mondo secolare. Gli odierni argomenti contro la Chiesa si basano ancora sui mali che storicamente hanno commesso le religioni,[6] incluso il cristianesimo. Ma non si può negare che le religioni hanno apportato all’umanità anche del bene. Basti dire che la cultura è stata tramandata per secoli principalmente grazie ai monasteri e alla Chiesa. Biblioteche e ospedali sono stati creati e sono giunti fino a noi grazie alla Chiesa. Né si può sostenere che il secolarismo, a differenza della religione, abbia portato esclusivamente del bene nel mondo. Senza risalire troppo lontano nel passato, pensiamo alla tragedia della Prima Guerra Mondiale (giustamente chiamata ‘inutile strage’ da papa Benedetto XV) o al periodo nazista e stalinista del secolo scorso, o a Pol Pot in Cambogia. Bene e male si trovano dappertutto e sempre mescolati.

Varie volte ho detto che Gesù accoglie tutti, ma ha una predilezione per gli emarginati, i sofferenti, i poveracci. Da dove si ricava questa convinzione? Chi ci dice che Dio preferisce i poveri, gli esclusi? Che Dio si identifichi con gli affamati, gli assetati, i pezzenti lo dice, ad esempio, il fondamentale racconto del giudizio finale di Matteo capitolo 25. Dal racconto si ricava che nessuno di noi ha mai conosciuto Dio ma, senza saperlo, il vangelo ci dice che tutti lo abbiamo incontrato, e certamente non in chiesa durante la messa.

Se solo facciamo mente locale alla lavanda dei piedi (Gv 13, 1ss.) e alla chiara affermazione di Gesù di essere venuto per servire e non per essere servito (Mt 20, 28; Lc 22, 27), è piuttosto evidente che egli, intenzionalmente, si è collocato fra quelli che stanno sotto. Con quel gesto Gesù stava indicando che Dio (il Dio che egli è venuto a rivelare) non si può associare con forme o rappresentazioni di potere e autorità, per quanto si tratti di autorità o poteri religiosi. Invece Gesù si è fatto ultimo per amore dell’ultimo, non per finta umiltà. Se al primo posto ci sono le insegne religiose, le celebrazioni solenni, lì non c’è il Dio di Gesù. Il servizio serve per liberare le persone, non per far pesare il proprio servizio. Il servizio esercitato per amore mette in comunione con Gesù e con Dio.

Non si tratta neanche di sostituire l’eucaristia con l’amore fraterno. Ma deve essere ben chiaro che mangiare il pane dell’eucaristia senza quello che rappresenta il comandamento nuovo dell’amore reciproco equivale non solo a falsare l’eucaristia, ma a distorcere la condizione del discepolo di Gesù, quello per cui si vede e si sa che una persona è discepolo e seguace di Gesù. Il vangelo di Giovanni fa poi un passo ulteriore, un passo decisivo: non è vero che l’amore di Dio e del prossimo devono camminare inseparabilmente uniti. Il IV vangelo neanche menziona Dio (Gv 13, 34-35). Ne consegue che il comandamento nuovo, che sostituisce o ingloba in sé tutti gli altri, consiste nel dovere di amare gli altri. Se si riesce a fare così, amando il prossimo (chiunque esso sia) è come se amassimo Dio[7].

Per riuscire a fare questo occorre passare dalla categoria dell’interesse egoistico al dono altruistico, e nel dare gratis sta la felicità. L’invito a cingere i fianchi (Lc 12, 35; Is 12) è poi un atteggiamento permanente e costante riconoscibile del credente, non un’attività occasionale. Dio nessuno l’ha mai visto, nessuno sa chi è, nessuno sa com’è. Il Dio rivelatoci da Gesù si manifesta in noi quando siamo veramente umani. Dio non è né lontano, né vicino, però ci può essere intimo. Gesù non ha portato gli uomini verso Dio, ma Dio verso gli uomini, attraverso la tenerezza e la misericordia rivolta a tutte le persone che ha incontrato. Invece nella Chiesa è successo che, affascinati dall’attrazione verso il divino, il clero si è votato sempre di più alla divinizzazione, soprattutto di sé stesso[8]. Se domani tornasse Gesù, i vescovi e i cardinali oserebbero presentarsi davanti a lui travestiti da principi medievali o rinascimentali? Io credo che si vergognerebbero. La Chiesa che si trova a suo agio con una religione di devozioni, di sicurezze, con una spiritualità interiore che guarda solo a sé stessa, necessariamente rifiuta i continui richiami che papa Francesco fa al Vangelo, e non è disposta facilmente a cambiare tradizioni secolari.

Se Gesù sceglie l’ultimo posto, i ricchi sono in difficoltà, sono come stranieri nella chiesa, e possono acquistarvi diritto di cittadinanza soltanto attraverso il servizio ai poveri (frase attribuita, se ben ricordo, al vescovo francese Jacques Bossuet già nel 1600). In effetti Gesù ha detto che un ricco[9] difficilmente entrerà nel regno di Dio (tant’è che la Buona Novella è diretta sostanzialmente ai poveri[10]), perché il ricco fa fatica a condividere i suoi beni con gli altri, a mettersi al servizio degli altri, mentre Gesù afferma che la cosa fondamentale è il comportamento dell’uomo verso l’uomo[11].

Ecco perché la teologia della liberazione – bocciata dal Vaticano - aveva avuto il pregio innovativo di mettersi a pensare la fede a partire da quelli che nella storia stanno sotto; non da quelli stanno in alto, non a partire dal potere di quelli che contano e comandano; è stata pensata da persone entrate in sintonia con la vita, le preoccupazioni, le speranze di quelli che stanno sotto[12].

Papa Francesco, fin dall’inizio del suo pontificato, ha detto che ancora: «Non si comprende che l’amore per i poveri è al centro del Vangelo»[13]. Conseguentemente non ci ha esortato a custodire la Chiesa, la sua sacra dottrina, i valori non negoziabili, ma a custodirci gli uni con gli altri, a custodire le persone, soprattutto quelle affamate, assetate, ammalate, carcerate, straniere, spostando il baricentro dalla dottrina al vangelo[14].  E questo ha fatto storcere il naso a molti cristiani, ma nel dire questo si è ovviamente appoggiato al Vangelo.

Gesù inizia la sua missione in Galilea (Mt 4, 12), terra di ignoranti, mezzi eretici perché influenzati dai pagani, terra di poveri sfruttati e quindi arrabbiati e violenti: come destinatari della sua parola non sceglie l’istruita Gerusalemme, la città santa e pura,[15] ma la terra degli esclusi ed emarginati. Il messaggio che egli voleva comunicare si doveva allora portare non nel territorio dei sapienti, degli influenti, dei privilegiati e di quelli che gestivano il potere, bensì al contrario, dove vivevano gli emarginati, quelli considerati gente indegna, impura ed equivoca. Joachim Jeremias ha fatto giustamente notare che: «i seguaci di Gesù erano dunque prevalentemente gente senza buona fama: gli 'amme haarets', gli incolti, gli ignoranti, la cui ignoranza religiosa e il cui comportamento morale, secondo le convinzioni del tempo, sbarrava l’accesso alla salvezza»[16]. Nella santa Gerusalemme gli scribi si sentivano superiori per il loro sapere, i farisei per la loro condotta. Inoltre erano convinti di avere il diritto di imporre agli altri il sapere che essi monopolizzavano, e la condotta della quale si vantavano; sapere e condotta che si incentravano in un solo aspetto: la più esatta osservanza della Legge[17]. Come ben risulta dalla parabola del figliol prodigo, il Dio dei farisei si definisce partendo dalla retribuzione, essendo indissolubilmente legato al concetto di merito: è l’immagine di Dio che ha in testa il figlio maggiore. Gesù invece dice che Dio è quello che corre incontro al figlio impuro e peccatore.

Isaiah Berlin, il grande filosofo e politologo del secolo scorso, ha osservato che, quando si infligge una ferita profonda al sentimento collettivo di una società, come reazione a questo atteggiamento di disprezzo e umiliazione nei confronti dei suoi valori tradizionali, emerge l’orgoglio ferito che sfocia facilmente in rabbia, autoaffermazione e spesso in violenza. Non è un caso, allora, se proprio in Galilea aveva trovato terreno fertile la setta degli zeloti, terroristi secondo i romani di allora, che tentavano di sovvertire quelle realtà sociali da cui si sentivano disprezzati, e comunque, con la loro utopia rivoluzionaria, cercavano di dare identità alle comunità galilee umiliate. Senza prendere la strada degli zeloti, è stato proprio nell'insignificante Galilea che Gesù ha cominciato la sua missione, spinto colà dalla forza dello Spirito (Lc 4, 14). Dunque, secondo l’evangelista, se è stato lo Spirito a spingere in quella direzione, significa che Dio stesso voleva si cominciasse lì, dal basso, dai reietti, dagli esclusi, ed è quindi dagli ultimi il da-dove ci si poteva e ci si può ancora sintonizzare meglio con Gesù. Si deve allora tener ben presente che è solo da dove si era posizionato Gesù che possiamo incontrare più facilmente quel Dio che si è fatto conoscere in Gesù. In altre parole, questo vuol dire che possiamo sapere qualcosa di Dio non attraverso i nostri dotti discorsi teologici, non attraverso la metafisica dei teologi, non attraverso l’insegnamento di chi ha studiato Gesù sui libri di teologia nelle aule universitarie, ma attraverso la vita di Gesù, perché la vita e il comportamento di Gesù sono l’unica rivelazione di Dio. Ecco perché cristiano è chi segue il comportamento di Gesù, non chi crede a una determinata dottrina teologica. Si è cristiani non per quello che si afferma, ma per quello che si fa.

E a prescindere da ciò che è realmente accaduto con gli ammalati e gli indemoniati di cui parlano i vangeli, una delle cose più chiare è che, mediante questi racconti vari, si informano i cristiani che per Gesù, fondamentale nella vita è la salute delle persone. Col che Gesù ci sta dicendo che una delle cose che più interessano al suo (e nostro) Dio-Padre è la salute, la vita, la dignità e quindi la felicità degli esseri umani. Si tratta pertanto di un messaggio che modifica radicalmente la religione tradizionale insegnataci[18]. Perché Gesù viene a dirci che la religiosità si deve intendere e praticare in modo tale che, prima del culto religioso, prime delle cerimonie sacre, prima delle preghiere, prima delle chiese (templi) con tutte le loro sacre liturgie, sta la vita delle persone, la salute delle persone, la dignità e la felicità degli esseri umani. Detto in altro modo, per Gesù, e per il Dio di Gesù, l’umano sta prima del sacro, prima del religioso e perfino prima del presunto divino[19]. E – come ricorda Leonardo Boff nel suo libro Soffia dove vuole -, per “umano” s’intende ogni persona umana concreta, indipendentemente dal fatto che sia credente o meno.

I nodi vengono al pettine per chi è convinto di essere vero credente, o per chi spera di diventare credente, nel momento in cui il nostro astratto amore per Dio (o per Gesù) si deve tradurre in amore concreto per il prossimo. Allora dobbiamo avere il coraggio di chiederci se nello straniero vediamo un intruso o un fratello. Basta di solito questa semplice domanda per scoprire che non siamo capaci di seguire il Vangelo, per cui non siamo seguaci di Gesù e non siamo nemmeno credibili. Perché vogliamo che questi stranieri restino fuori da una casa ricca che deve essere soltanto nostra e chiusa agli altri? Perché vorremmo che gli altri restassero lontani da un tavolo abbondantemente imbandito dove solo noi abbiamo diritto di sederci perché siamo i migliori, e se ci sono quegli altri, preferiamo non sederci? “Prima gli italiani!” (o come diceva Trump in America, “Prima gli americani”) significa appunto questo, anche se poi chi lo sostiene sventola il rosario o la Bibbia[20]. È stato allora giustamente detto che la presenza viva di Cristo nella nostra società non è assicurata dalla presenza dei crocifissi o di altri simboli religiosi, ma dallo spazio che facciamo a coloro con cui lui ha voluto identificarsi: abbracciare o respingere il forestiero, la persona vulnerabile, significa abbracciare o respingere Cristo, perché questo dice il Vangelo[21]. Il difficile del cristianesimo sta proprio in questo: la parabola del samaritano (Lc 10, 30ss.), che occupa un punto chiave anche nel testo dell’ultima enciclica di papa Francesco (Fratelli tutti), non si limita a parlare astrattamente dell’amore per il prossimo, bensì della pratica di accostarsi all’altro, alla vittima, al povero, allo straniero, all’immigrato, cioè a tutti coloro che tendenzialmente cerchiamo di evitare perché è veramente difficile considerare tutti nostri fratelli. È più facile seguire la formula “io sono io e lui è lui; prima penso a me e poi si vedrà”. Invece nell’enciclica si parla della fondamentale importanza di interrompere il nostro cammino, il nostro programma che avevamo predisposto per quella giornata per occuparci improvvisamente delle necessità di un altro in cui ci si siamo inaspettatamente imbattuti per strada: prima lui, poi io. Solo se uno si comporta come il samaritano dimostra di aver fede. Chiaro allora che la fraternità di cui parla l’enciclica non è quella che riguarda noi altri, la famiglia, la nostra nazione, ma quella che va oltre le barriere geografiche e dello spazio: la fraternità universale.

Commentando l’episodio dell’uccisione di Abele da parte di Caino, il filosofo lituano di origine ebraica Emmanuel Lévinas (1906-1965) citando la domanda di Dio: “Dov’è tuo fratello?” e la risposta di Caino: “Forse che io sono il guardiano di mio fratello?” afferma che questa risposta è all’origine di ogni immoralità. E riprendendo l’affermazione di Lévinas, il sociologo polacco Zygmund Bauman (1925-2017) dichiara: “(...) che lo ammetta o no, io sono il custode di mio fratello in quanto il benessere di mio fratello dipende da quello che io faccio o mi astengo dal fare. E sono un essere morale solo quando riconosco quella dipendenza e accetto la responsabilità che ne consegue. Nel momento in cui metto in dubbio quella dipendenza e chiedo come Caino che mi si dica per quale ragione dovrei curarmene, abdico a una mia responsabilità e non sono più un soggetto morale. La dipendenza di mio fratello è quello che mi rende un essere etico; dipendenza ed etica si reggono insieme, e insieme vanno a picco”. Questa è l’etica che dovrebbe seguire il cristiano, ma che quasi nessuno nel mondo cristiano riesce a seguire. Forse l’esempio emerge ancora più evidente quando sentiamo qualcuno dire: “Perché dovrei preoccuparmi delle generazioni future? Perché dovrei preoccuparmi del mio vicino di casa? Cosa hanno fatto per me?”

In base ai diversi modi di pensare, anche le immagini che le persone si costruiscono di Dio sono molteplici, e neanche tutti chiamano l’Assoluto con lo stesso nome[22]. Ma allora – secondo Gesù - cosa è che ci unisce tutti? Da che cosa siamo accomunati noi esseri umani tutti se decidiamo di seguire la strada che lui ha tracciato? Dall’unica cosa nella quale tutti siamo veramente uguali: la nostra «umanità». E in questo siamo tutti fratelli. Per questo, quello che conta davvero è che ogni giorno diventiamo più profondamente umani, perché il primo che «si è umanizzato» è stato Dio stesso nell’incarnarsi, cioè nell’«umanizzarsi». In altre parole, Dio, nell’incarnarsi nell’uomo Gesù di Nazareth, si è fuso e confuso con l’umano fino al punto da essere presente e identificato con tutto ciò che è veramente umano, col sensibile, con quello che vediamo, sentiamo, avvertiamo in modo palpabile e tocchiamo (1Gv 1, 1). Per questo, Dio sta in chi ha fame, in chi ha sete, nell’ammalato e nello straniero, nel prigioniero, nell’infelice e nell’escluso (Mt 25, 34-40)[23]. Dio si identifica dunque con questo genere di persone, non con la Chiesa e il suo sacro magistero, non con i potenti della terra. E ricordiamoci che Gesù non ha mai condiviso la tavola e la vita né con l’aristocrazia religiosa, né col potere politico.

La novità forse più importante apportata da Gesù è stata quella in cui l’incontro col divino si sperimenta nell’incontro con l’umano, con il più profondamente umano, con il più essenzialmente umano. Il Dio di Gesù non ci tira fuori dall’umano per introdurci a un «altro livello» di realtà superiore. E se questo è vero, il Dio di Gesù non è legato principalmente al sacro, ma al profano, visto che per Gesù la condivisione del cibo è già un’esperienza concreta e fondamentale che possiamo fare di Dio[24]. Sono i vangeli a dirci che l’importante, per Gesù, non è la pratica religiosa, bensì l’esperienza umana che si vive quando si condivide la tavola[25]. Non per niente i vangeli ci raccontano dei tanti pranzi di Gesù, ma di nessuna cerimonia religiosa.

In conclusione, il credente deve rendersi conto che la sua immagine di Dio non è nient’altro che un indicatore che punta verso quell’Invisibile, quella realtà originaria che a poco a poco si sta rivelando nel corso della nostra evoluzione, e che – se crediamo a Gesù - è l’origine dell’amore. Da parte sua, l’ateo (a-theos) deve smettere di pensare che la Chiesa si occupi unicamente di questo indicatore chiaramente inadeguato, di questa immagine del Dio-Theos, senza rendersi conto che si occupa in realtà di quel Mistero che quel cartello segnalatore indica. Entrambe queste visioni (del credente e dell’ateo) hanno chiaramente in comune e al centro l’umanizzazione.

Per finire richiamo con forza ciò che avevo scritto nell’articolo Etsi Deus non daretur del mese scorso: come segnalava il gesuita Lenaers, anche se la fede in un theos e l’ateismo che nega questa fede sembrano inconciliabili, incompatibili come acqua e fuoco, l’incontro è invece possibile proprio perché il cristianesimo più moderno può integrarsi in un ateismo moderno mettendo l’Uomo al primo posto. Questo è quanto aveva intuito Dietrich Bonhoeffer, il quale negava che si dovesse cercare Dio scrutando le siderali altezze del cielo. Egli scriveva che occorre gestire la propria vita senza Dio, al pari del mondo esterno che vive senza Dio, ma che al tempo stesso è più vicina a Dio di quanto lo era nel passato, perché si vive davanti a Dio e con Dio. Bonhoeffer ha cioè utilizzato la parola Dio in due significati. Vivere senza dio significa vivere senza quella rappresentazione antiquata ed eteronoma di Dio che ci ha accompagnato per secoli, in cui Dio dominava il nostro mondo dall’alto dei cieli,[26] decideva tutto e interveniva direttamente in questo mondo. Vivere davanti a Dio e con Dio significa riconoscere che c’è un Mistero trascendente, esattamente come sostenevano gli atei-credenti Einstein e Bobbio.

Ricordiamoci che lo stesso Gesù finisce la sua vita in croce, come pietra scartata. Eppure dichiara che è lui la via (Gv 14, 6), la strada che anche noi dobbiamo percorrere se vogliamo seguirlo e trovare Dio. Per i credenti, l’evangelista Giovanni (Gv 14, 1-12) sottolinea in più che, nel seguire questa strada, si deve confidare pienamente nella premurosa presenza divina; ma più che un luogo dove ci s’incontra è uno “stare alla presenza,” che appaga in pienezza l’umano desiderio di Dio. Questo affidarsi completamente al Padre, questo confidare pienamente nella sua premurosa presenza è vera fede, ed è sicuramente più facile trovarla nei poveri emarginati che nei ricchi benestanti come noi.





NOTE

[1] Anche il cardinal Zuppi, ai tempi in cui le chiese erano state chiuse per Covid, aveva detto: «Non credo che Dio accetti le preghiere solo da chi esce di casa e va in chiesa».

[2] Câmara H., Mille ragioni per vivere, Cittadella, Assisi, 2000, 128.

[3] Castillo J.M., El Evangelio marginado, Desclée De Brouwer, Bilbao, 2019, 261.

[4] Verdi L., Bambini e innamorati ci salveranno, Romena Accoglienza, Pratovecchio Stia (AR), 2020, 39.

[5] Si è visto nell’articolo sulla schiavitù, di aprile scorso su questo giornale (https://sites.google.com/view/rodafa/home-n-711-30-aprile-2023/dario-culot-chiesa-e-schiavit%C3%B9). Si è visto che la schiavitù è stata abolita prima dagli Stati che dalla Chiesa.

[6] Lo stesso vale oggi per l’Islam.

[7] Castillo J.M., El evangelio marginado, Desclée De Brouwer , Bilbao (E), 2019, 176s.

[8] Pensiamo solo al vestiario nelle cerimonie più solenni, che deve dimostrare che il clero è più vicino a Dio rispetto ai laici.

[9] I musulmani attribuiscono a Gesù questo bel detto, che ben chiarisce la difficoltà del ricco: Chi si sforza di diventare ricco è simile a chi beve l'acqua del mare: quanto più beve, tanto più cresce in lui la sete e non cesserà di bere finché non perisce (I detti islamici di Gesù, a cura di Chialà S., ed. Fondazione Valla-Mondadori, 2009, 40 n.120 -Ibn Abi Al-Dunya - Kitab dhamm al-dunya).

[10] Bruno Mori, a mio avviso, descrive molto bene la sensazione che la gente provava avvicinandosi a Gesù: quello di Gesù era un messaggio che offriva a tutti la promessa e la possibilità di una miglior realizzazione personale; la prospettiva di un mondo talmente diverso dal solito; il sogno di una società animata da altri principi, altre priorità, altri valori e dove tutti, d’or in poi, avrebbero potuto abitare insieme come fratelli nell’uguaglianza, nel rispetto reciproco, nella giustizia; in questa comunità tutti avrebbero trovato il loro posto e il pieno riconoscimento della loro dignità. Era un messaggio che aveva il sapore di una buona notizia, soprattutto per i poveri, gli oppressi e i perduti della terra. Era un messaggio che rivelava un altro Dio, un altro modo di relazionarsi con Lui, un altro modo di essere umani. In questo nuovo mondo sognato da Gesù, l’energia che faceva funzionare tutto era esclusivamente quella dell’amore.

Fu a partire da questa profonda e avvincente esperienza spirituale e personale di Gesù che i suoi discepoli cominciarono a sentire, a pensare e infine a convincersi che tutto questo era troppo nuovo, troppo originale, troppo bello, troppo meraviglioso per venire da un uomo comune. E che forse in quest’uomo il cielo era sceso a toccare la terra e lo Spirito di Dio abitava in lui e parlava attraverso di lui (Mori B., Per un cristianesimo senza religione, Gabrielli editore, San Pietro in Cariano (VR), 2022, 65).

[11] Castillo J.M., I poveri e la teologia, ed. Cittadella, Assisi, 2002, 60.

[12] Idem, 397.

[13] “Famiglia Cristiana”, n.45/2014, 5.

[14] Di Piazza P., Compagni di strada, ed. Laterza, Roma-Bari, 2014, 57.

[15] Quella che doveva brillare di luce, che non avrebbe dovuto neanche aver bisogno della luce del sole durante il giorno, perché sarebbe stata illuminata dalla luce di Dio (Is 60, 1.19).

[16] Jeremias J., Teologia del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1976, 113.

[17] Castillo J.M., I poveri e la teologia, ed. Cittadella, Assisi, 2002, 142s.

[18] Spong J.S., Il quarto Vangelo, Massari, Bolsena, 2013,121: Giovanni è quello che più di altri ha capito che Gesù rappresentava una nuova dimensione umana, una nuova dimensione di vita, un nuovo modo di rapportarsi al sacro, una nuova visione, una nuova vita.

[19] Castillo J.M., L’umanizzazione di Dio, EDB, Bologna, 2019, 240s.  Ecco perché ci viene spiegato che, in condizioni normali tre sono le cose indispensabili perché una persona si senta sicura in questo mondo, in questa vita: la proprietà (ciò che possiedi e ciò di cui disponi per vivere e godere della vita), la dignità (l’accettazione o il rifiuto che meriti da parte degli altri e della società in generale) e la “famiglia” (avere un focolare, una casa, delle persone cui voler bene) (Castillo,J.M., El Evangelio marginado, Desclèe De Brouwer, Bilbao, 2019, 87).

Ma Gesù rende chiaro che la proprietà individuale dei beni di questo mondo non si può anteporre alle necessità fondamentali della grande maggioranza degli esseri umani. Se questo criterio non si mantiene saldo, la “legge della Giungla” finisce per imporsi e distrugge la convivenza umana. Il più forte si impone, comanda ed divora il più debole. La convivenza si trasforma in violenza e la violenza finisce per distruggere tutti. È quello che stiamo vedendo e vivendo in questo momento nel nostro mondo, nel quale il 2 % degli abitanti del pianeta domina, comanda, usa e abusa non solo dei beni della Terra, ma anche del futuro della Terra stessa. Mentre noi altri ci rassegniamo e stiamo zitti, desiderando sotto sotto di assomigliare a quelli che ci stanno distruggendo.

[20] Simone Weil ha sostenuto che i migranti vanno salvati in mare non perché loro possono vantare dei diritti nei nostri confronti, ma perché il nostro obbligo verso gli altri esseri umani è assoluto.

[21] Giovanni de Robertis, su “Avvenire”, 28.9.2019, direttore della Fondazione Migrantes.

[22] Dunque non posso condividere l’idea di chi, ‘forgiato dall’idea che il mio Dio non è il Dio degli altri,’ è convinto che quest’apertura della Chiesa di papa Francesco sia manifesta apostasia (Langone C., Andiamo a messa, nonostante il Vaticano, “Il Giornale” 13.11.2020, 24).

[23]Castillo J.M., L’umanizzazione di Dio, EDB. Bologna, 2019, 321.

[24] Idem, 262.

[25] Idem, 261.

[26] Secondo Salomone Dio sta nei cieli, quello è il luogo della sua dimora, e la nostra preghiera s’innalza verso il cielo (1Re 8,22-30). Questa antica immagine di Dio è oggi chiaramente superata.