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Foto di Dominicus Johannes Bergsma tratta da commons.wikimedia.org

Contro gli anti-greenpass, perché no, il sesso non è tutto


di Stefano Sodaro

L’emergenza di questi giorni pare essere il fronte che si oppone, in ogni modo possibile (la cronaca della scorsa domenica romana è stata terribile), all’obbligo lavorativo di recarsi al lavoro esibendo il proprio green-pass. Tale obbligo, per coloro che manifestano – da Trieste in giù -, sarebbe avvertito come il segno evidente dell’avvenuta instaurazione di una “dittatura sanitaria”.

Ciò che colpisce, in modo del tutto particolare, all’interno di tale campagna oppositiva, è la priorità, il primato, la sovranità dell’Io su qualunque preoccupazione verso gli altri. “Io” in maiuscolo e “altri” in minuscolo.

Spieghiamo meglio: la mia battaglia contro il green-pass è lotta per vedere affermato il mio desiderio assoluto e primario di non subire costrizioni di sorta alcuna (quindi, a rigore, nemmeno dovrei avere con me la carta d’identità, né guidare l’automobile con la patente, né fare il medico con la laurea) nella libera autodeterminazione delle mie giornate, che sono per la gran parte del tempo segnate dal lavoro, dall’impegno professionale.

Di che cos’altro si vorrebbe fossero riempite le giornate? Beh, riconosciamolo francamente: d’amore. E non un amore poetico, romantico, magari illusorio e struggente, fatto di attese e di dubbi, ma di un bel concretissimo amore, fatto di – ricorriamo pure al termine plurale – soddisfazioni, di appagamenti che plachino il desiderio. Così come effettivamente può avvenire in un percorso di carriera professionale. L’amore, dunque, in tale configurarsi di significati profondi, e per lo più inespressi, non è così lontano da una prestazione lavorativa. Per andare al lavoro non devo essere obbligato ad esibire il green-pass, per fare l’amore neppure. Perché dove sono io, dove mi muovo, agisco, dove mi presento, opero, parlo, mi arrabbio, mangio, sorrido, piango, è sempre e solo casa mia. Tutto è casa mia. “E questa è casa mia e qua comando io”. Gli altri, fuori! Senza “se” e senza “ma”.

Prescindendo per un attimo dalle nostre preferenze ideali e/o filosofiche, che ci possono legittimamente rendere scettici davanti alla produzione libraria ininterrotta di uno dei maggiori esponenti italiani della psicanalisi lacaniana, proviamo a leggere però quanto Massimo Recalcati racconta nel suo ultimo volume, intitolato Esiste il rapporto sessuale?, per i tipi di Raffaello Cortina Editore (2021), alle pp. 42-44:

«Ricevetti una volta una domanda di ascolto molto particolare. Proveniva da una escort che si era innamorata di un suo cliente essendone pienamente corrisposta. Tuttavia ella non riusciva a capacitarsi del perché sul piano sessuale, da quando i due si erano rivelati i loro sentimenti, il suo “arnese”, come lei lo definiva, non funzionasse più. Si era improvvisamente e stabilmente eclissato. Quello che questa mia paziente viveva come un enigma indecifrabile mi pareva veicolasse, in realtà, un significato evidente. Cosa poteva donare di davvero particolare quell’uomo a una donna il cui mestiere comportava l’assidua frequentazione sessuale di altri uomini? Cosa mai avrebbe potuto darle di diverso da tutti gli altri? Come offrirle qualcosa di unico, qualcosa che nessuno di loro avrebbe mai pensato di donarle?

Da quando aveva sentito di essersi innamorato, l’uomo aveva sospeso ogni iniziativa fallica che poteva anonimamente accomunarlo agli altri clienti. Non era stata ovviamente una scelta deliberata. Il suo desiderio sessuale non era affatto calato, ma l’organo non gli rispondeva più. Ogni volta che i due si incontravano per fare l’amore il suo “arnese” non rispondeva più alle sollecitazioni intraprendenti della sua amata. Cos’era successo? Questo intoppo, come spesso accade nella vita sessuale umana, è più di una semplice disfunzione robotica, perché contiene un messaggio inconscio che ha come destinatario proprio la mia paziente. L’impotenza misteriosa che lo affliggeva era in realtà un dono d’amore. Solo che lei non lo sapeva decifrare come tale restando interdetta, sentendosi semplicemente rifiutata dal solo uomo che amava e desiderava. In analisi l’ho delicatamente indirizzata a leggere nel sintomo del suo compagno un messaggio: “Ti offro la mia mancanza nel segno del mio amore, ti offro quello che nessun altro uomo ti sa offrire perché io non desidero solo il tuo corpo, ma ti amo per tutto il tuo essere”. L’impotenza sessuale, dunque, era il suo modo singolare per rendere a sua volta mancante la donna che amava. Non darle il suo fallo era un modo per donarle la sua mancanza, per palesarle il suo amore. Le dava, in sostanza, non quello che aveva – il denaro, il fallo, il godimento -, ma quello che non aveva che, come ha insegnato Lacan, è la formula più pura del dono d’amore. Ed è stato proprio dalla comparsa del sintomo dell’impotenza che la donna si è sentita ancora più irresistibilmente attratta e profondamente innamorata di quell’uomo al punto da decidere che per lui avrebbe cambiato vita. Il chiarimento di tutto questo groviglio ha coinciso, solo dopo qualche seduta, col termine del suo lavoro analitico.»

In effetti, “mancare” nella prestazione sessuale è come essere obbligati a presentare il green-pass, un affronto alla potenza della mia libertà individuale, un venir meno della mia sovranità maschile (ma la maschilizzazione non è questione di genere, ahinoi). La mia libertà è intollerabilmente compromessa dalla mia impotenza – che fa, che combina questo mio corpo che non adempie ai suoi obblighi? Ma come si permette? -, così come è intollerabilmente compromessa da una sanzione di legge. Io faccio quello che voglio e lo stesso mio corpo, che è altro da me se ben ci pensiamo – un’alterità assai difficile da accettare (ed infatti imperversano il giovanilismo, l’estetismo, il perfezionismo somatico…) -, deve fare quel che voglio io, non quel che “sente” lui. Io ho idee chiare e distinte sull’assolutezza del mio desiderio, del mio amore e del mio godimento – le tre parole che compaiono come sottotitolo del volume di Recalcati -.

Alziamo pure le sopracciglia davanti al magistero onnipervasivo del celebre psicanalista italiano, d’accordo: fatto sta, però, che quel racconto – assumiamolo pure come semplice narrazione di cronaca professionale - dice davvero molto. Non c’è spazio per chi voglia rintuzzare la gigantografia dell’Io. Un eros non violento pare una contraddizione in termini, perché fatto tutto di astensioni, di titubanze, di entusiasmi verso un’azione che pare impacciata, che non riesce mai a compiersi e chiudersi in un cerchio di perfezione. Eppure è il non detto più importante del detto. Il profluvio di parole, urlate, proclamate, predicate, violenta il silenzio, il suo pudore, la sua preziosa debolezza, che è un meno e non un più, un’assenza e non un gonfiore di pienezza.

No, il sesso non è tutto, così come il green-pass non è tutto. Noi siamo relazione. apertura, bisogno di reagire ad un impossessamento tattile dell’Altro/Altra per lasciare invece la traccia, la memoria, di una carezza.

Usciremo dal buio non con un faro sparato negli occhi, accecante, ma con la predilezione per la luce radente, incerta, baluginante, che impone di accompagnarci gli uni agli altri, gli uni alle altre, le une alle altre, le une agli altri.

Buona domenica.