Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

Riserva di Famberhorst, Paesi Bassi - foto tratta da commons.wikimedia.org

Per una teologia della liberazione afghana


di Stefano Sodaro

Quasi nessuno parla più dell’elaborazione teologica che, nella Chiesa Cattolica, sorse a seguito dell’incontro dell’episcopato latinoamericano a Medellin nel 1968, aperto il 24 agosto da Paolo VI, a meno di tre anni dalla conclusione del Vaticano II.

Gli anni Ottanta, in particolare, registrarono una violenta opposizione istituzionale alla “teologia della liberazione”, non solo in ambito ecclesiale, che tuttavia non riuscì ad estirpare radici ritenute assai pericolose e contaminanti dal potere che solidarizzava con le pretese degli autoritarismi dittatoriali purtroppo assai diffusi nell’America del Centro-Sud del tempo.

Il 24 marzo 1980 fu assassinato a San Salvador l’arcivescovo mons. Oscar Arnulfo Romero ed il 12 marzo 1977, appena poco più di un mese dopo l’ingresso di Romero nella capitale, fu ucciso il padre gesuita Rutilio Grande, di cui l’altro ieri è stata annunciata la beatificazione il prossimo 22 gennaio proprio a San Salvador (https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2021-08/el-salvador-beatificazione-padre-rutilio-grande-gesuiti.html). Fu l’omicidio di Rutilio Grande ad operare una vera e propria conversione nel nuovo arcivescovo, ritenuto sino ad allora persona molto prudente se non addirittura di deciso orientamento conservatore.

Veniamo ai giorni nostri, a queste ore.

Nessuna presenza cattolica rimane in Afghanistan. Anche la Missione “sui iuris”, con sede a Kabul, è stata chiusa (https://www.ansa.it/oltretevere/notizie/2021/08/26/dopo-100-anni-la-chiesa-cattolica-va-via-dallafghanistan_73ec1272-7bda-458b-828e-4e70b4194e9a.html; https://www.lettera22.it/addio-a-kabul/). Se n’è andato, pertanto, l’intero personale ecclesiastico cattolico.

Qualcuno potrebbe alimentare a questo punto l’insana idea – ci si permetta di dir così – che dunque “Dio se n’è andato dall’Afghanistan”, dal momento che c’è un Dio corretto, dai tratti metafisici coerenti, da noi ben conosciuto, pur anche magari per via di negazione, ed un Dio invece “sbagliato”, che sarebbe alla fin fine quello delle altre religioni, Islam compreso e forse Islam prima di tutte.

Il nostro Dio sarebbe un Dio “progredito”, avanzato, più vero perché più “esatto”, adorabile e invocabile e perché poi – qui il problema si fa tragico – abolitore di tutte le sue precedenti nozioni e concezioni. Insomma, con buona pace del nostro orgoglio democratico: “Dio è con noi” e non certo con gli altri.

La teologia della liberazione, che da regionale si è fatta nei decenni mondiale nonostante ogni reprimenda e brutale repressione, ci insegna che non solo non è affatto vero che vi sia un Dio “giusto” ed un Dio “sbagliato”, ma che una simile polarizzazione è grave peccato, poiché attenta proprio all’annuncio evangelico di prossimità premurosa con chi soffre, qualunque sia la sua sofferenza.

Se non ci sono più preti e suore in Afghanistan, sarebbe gravemente peccaminoso ritenere che perciò Dio non abita più lì, giacché – esattamente al contrario di quel che si potrebbe pensare, ci dicono le teologhe ed i teologi della liberazione – Dio è sulla strada dell’aeroporto di Kabul, presente in chi sta piangendo i morti dello spaventoso attentato, in chi sta piangendo la lontananza di chi è partito con gli aerei, riuscendo sì a salvarsi ma lasciando tutta la rete degli affetti, delle cose più care, dei sapori, dei profumi, dei sentimenti, delle sensazioni, delle parole, degli abbracci, dei vestiti, delle preghiere, dei riti.

L’Afghanistan è un Paese interamente musulmano; dovremmo smetterla di far vanto della nostra ignoranza al riguardo. Di fregiarci di un assurdo titolo di “no Islam knowers”. Varrebbe la pena, anche di nascosto se ci si vergogna così tanto, ascoltare il canto delle Sure del Corano ed associare il nostro proprio spirito, la nostra stessa interiorità, a quel modo di pregare.

Siamo onesti: non siamo in grado neppure di mettere insieme quattro parole raffazzonate sul contenuto del Libro Sacro dell’Islam.

Segnaliamo un testo, si intitola Qur’an of the Oppressed: Liberation Theology and Gender Justice in Islam, autore Shadaab Rahemtulla, che insegna nell’Università della Giordania (https://oxford.universitypressscholarship.com/view/10.1093/acprof:oso/9780198796480.001.0001/acprof-9780198796480).

E il nostro settimanale – questo strano giornale di Rodafà – vorrebbe iniziare a farsi carico di un approccio teologico che intersechi la posizione di ogni donna ed ogni uomo di fronte al Mistero ultimo e primo (che si può chiamare anche “Dio”, ma non è strettamente necessario) secondo il riconoscimento nelle diverse fedi religiose, dell’Ebraismo, dell’Islam, del Cristianesimo, del Buddhismo, dell’Induismo, ma anche del Taoismo, del Confucianesimo, dello Shintoismo, delle religioni tradizionali amazzoniche e africane, fino alla Wicca che così tanto affascina i e le giovani adolescenti delle nostre latitudini.

No, Dio non ha abbandonato nessun luogo e nessun contesto.

Certo, se si tratta di un Dio che spaventa, punisce, ordina comportamenti incomprensibili ed alieni da ogni umanità comune, compiacendosi quasi di essere Dio, il fatto che progressivamente non venga più nominato come tale può essere un’effettiva liberazione, il cosiddetto “ateismo grazie a Dio”.

Ma se è un Dio debole, affranto, piangente, molto più femminile che virile, persino incerto e bisognoso di conversione anch’Egli – come un’attenta meditazione dei testi biblici fa apprendere -, ebbene questo Dio non può essere assente perché è la compagnia della nostra vita, senza bisogno neppure che venga riconosciuta come tale.

Forse a noi, di Rodafà, può essere richiesto un semplice, umile, piccolo lavoro di dissodamento culturale per far comprendere che Dio è rimasto in Afghanistan e non se n’è andato.

Sì, è proprio lì. Senza che probabilmente nessuno di noi se ne accorga.

Buona domenica,