The Rabbi is in


Giustizia, silenzio


di Miriam Camerini

Eccomi ancora in treno, tanto per cambiare.

Questa notte ho dormito male, o quantomeno poco: il notturno che ho preso da Vienna dopo la fine di Shabbat, un’ultima birra e un sigaro al mercato sotto casa con un amico mentre separavamo lo Shabbat appena uscito dalla settimana appena iniziata – che oggi corrisponde anche a un nuovo mese, Yiar – era in ritardo e affollato: le famiglie in fuga dall’Ucraina sono ancora molte e la rotta Budapest – Vienna – Monaco / Zurigo resta frequentatissima, riempiendo le cuccette e i vagoni letto del centro Europa.

Sto andando a Düsseldorf, invitata da una signora gentile che ancora non conosco di persona, a presentare il mio libro Ricette e Precetti, uscito in Italia proprio per le Pasque di tre anni fa e pubblicato poco prima dell’ultimo Natale da un’editrice ebraica di Lipsia come Rezepte und Gebote. In una casa meravigliosa, piena di luce e circondata di verde, parlerò del mio libro e di tutte le avventure che lo hanno accompagnato fino a esistere anche in tedesco a una trentina abbondante di donne di tutte le età, alcune appartenenti alla comunità ebraica locale, altre no; molte vengono dall’ex-Unione Sovietica, come la padrona di casa Tanya, moscovita coltissima e collezionista d’arte superba delle Avanguardie Russe: i quadri acquisiti da suo nonno ancora a Mosca, fortunosamente portati da sua madre in Lituania e così giunti miracolosamente fino a lei in USA, Israele e ora Germania, fanno da cornice al nostro incontro, che riempiono di vita vissuta, malinconia, bellezza, Storia e colore. Un paio di amiche vengono apposta da altre città vicine per questo incontro: sono le mie compagne di corso di canto al festival Yiddish Summer Weimar. Chiedo a una di loro di cantare per noi e poi mi unisco a lei, condividendo un Salmo di famiglia legato alla cena di Pasqua. Una signora con un grande cappello di feltro marrone e una casacca di velluto nero mi si presenta alla fine, mentre mangiamo torta Pavlova con panna e mirtilli, come la nipote di una stella del teatro yiddish romeno, la sua famiglia è di Czernowitz, la signora sembra la mia poetessa Else Lasker-Schüler e in questa casa Bauhaus pare all’improvviso che qualcuno abbia installato una bella macchina del tempo.


A proposito di macchina del tempo...

I giorni a Vienna sono stati belli e intensi: per Yom Ha-Shoah, il giorno della memoria stabilito dallo Stato di Israele nell’anniversario della rivolta del ghetto di Varsavia, conduciamo un laboratorio per giovani adulti ebrei, cristiani e musulmani sul tema della giustizia divina: il breve racconto talmudico che discutiamo (TB Menachot 29b) mostra Mosè catapultato avanti nel tempo, alla scuola di Rabbi Akiva, durante le persecuzioni romane in Terra d’Israele, di lì a poco Palestina romana, quando insegnare Torah è proibito. Sulle prime Mosè non comprende gli insegnamenti di Akiva, nonostante questi si fondino direttamente sulla Torah ricevuta e insegnata proprio dal profeta sul Sinai, ma poi capisce che la trasmissione e l’interpretazione sono una catena infinita, e che una parte di quello che succede lì origina proprio da lui, Mosè. Chiede egli allora di vedere nel futuro la fine di Rabbi Akiva e la Divinità gli mostra come il Maestro verrà torturato e ucciso dai romani per aver continuato a insegnare Torah nonostante il divieto. Il grido di dolore e incomprensione di Mosè è quello di tutti noi: “Questa è la Torah, la sapienza, l’insegnamento di Akiva e questa la sua ricompensa?” “Ma veramente?!” – sembra di sentire dopo la domanda, retorica e vera a un tempo. La risposta divina è formulata con le stesse poche parole usate subito prima nel racconto, per zittire Mosè che, schivo come sempre, ha appena chiesto all’Eterno perché si è servito proprio di lui per consegnare la Legge, quando aveva un uomo come Akiva a disposizione: “Taci, così mi è venuto in mente di fare!”. Entrambe le volte, a entrambe le domande: “Perché io e non lui?” e “Perché una mente e un cuore così grandi devono fare una fine così violenta, misera e atroce?” La risposta è la stessa, una non-risposta: “Così, perché mi va”. C’è in questo racconto rabbinico un particolare ancora più sofisticato nella sua crudeltà, che non ricordavo: a Mosè non viene mostrato lo scelus (che in effetti mai si mostra, per esempio, nelle tragedie greche), bensì le sue conseguenze: la carne strappata di dosso ad Akiva viene pesata e venduta dal macellaio, comprata al mercato. A questa cruenta e disgustosa visione Mosè cede e grida, l’Eterno risponde e non consola: la bilancia – così leggiamo noi assieme oggi questa storia – è passata al macellaio, è lui che pesa e giudica, retribuisce e castiga. Le ore scorrono dense e nessuno di noi si stanca di interrogare un testo tanto duro, che fa eco al Dio di Giobbe (“Dov’eri tu mentre io creavo il mondo? Che cosa ne sai?”) e a quello del Rotolo di Ester, con il re Assuero – controfigura del Re dei Cieli - che si sfila l’anello del potere e passa il suo sigillo, la facoltà di emettere decreti, anche mortali, al perfido Aman, il “macellaio” della nostra storia.

Una ragazza velata, musulmana di Bosnia, si alza all’ora di Iftar, quando è il momento di prendere qualche dattero per rompere il digiuno: torniamo nel mondo, portiamo con noi la storia, tentiamo di superarla.

La sera successiva vado al Theater in der Josefstadt, dove è in scena Leopoldstadt, testo teatrale dell’inglese Tom Stoppard dedicato a tre generazioni di ebrei viennesi dalla fine del XIX secolo fino alla Shoah; la fine è prevedibile e nota, ma sempre dolorosa: sento l’imbarazzo e l’inquietudine che serpeggiano nella sala quando gli attori sillabano “Unschuldige Opfer!”, vittime innocenti, facendo allusione all’atteggiamento verso la Shoah dell’Austria “conquistata e annessa” e dunque non responsabile. Torno a casa - è già Shabbat - camminando in discesa verso il fiume, o meglio verso quel canale del Danubio che separa il primo distretto dal secondo, quello degli ebrei e della Leopoldstadt, appunto. Ancora oggi i miei amici vivono in quel quartiere e le giornate passano serene fra i banchi del mercato di Karmeliterplatz con i suoi fiori e i suoi caffè.

Sabato vado allo Stadtempel, la Sinagoga centrale della città, dove un maestoso Bar-Mitzvah mi sorprende con il suo buffet di aringhe e salmone, cholent e kugel e l’immancabile vodka delle 12 del mattino: tutto come nell’Est Europa dei tempi passati! Il mio amico e io ci sediamo a mangiare e – come sempre quando siamo assieme – le ore fuggono in conversazioni interessantissime senza che nemmeno ce ne accorgiamo. L’intero Shabbat pomeriggio è un’unica grande conversazione che si sposta dal Tempio agli Augarten, uno dei miei parchi preferiti a Vienna, quello – appunto – del II Bezirk, dove tante sere d’estate ho visto all’aperto film vecchi e bellissimi.

Shabbat finisce con un aperitivo fai da te sul Donau-Kanal assieme alla mia amica e ospite, una canzone yiddish che non conoscevo, triste e malinconica come si confà all’uscita del Sabato, e già è ora di far la valigia e saltare sul treno. Nel vagone pieno all’orlo di famiglie in fuga dall’Ucraina ripenso alla storia che abbiamo letto, a tutte le conversazioni di questi pochi giorni viennesi e anche a Suor Paola, che ho conosciuto a Roma lo scorso lunedì a un grande raduno di missionari cristiani dove ero invitata a parlare assieme a un’amica siriana, musulmana, giornalista. Suor Paola anche teneva lì a Sacrofano una sessione, che ho avuto la grande fortuna - per puro caso - di andare ad ascoltare: dopo anni di lavoro in Camerun, assistendo fino alla fine prigionieri e condannati a morte di uno dei regimi più inumani e arbitrari del mondo, Suor Paola è stata rimandata in Italia prima che la malaria - contratta quando ancora non ci si proteggeva - la portasse via, privando il mondo della sua opera preziosa: oggi, a 82 anni, lavora ogni giorno con le detenute a Rebibbia, “Uno dei peggiori carceri d’Italia” dice, dove molte cose si potrebbero fare per alleviare la fatica dell’universo carcerario, della comunità di detenute e detentrici, ma non ci sono i mezzi, i soldi, il modo per farlo. Chiedo a Suor Paola, mentre sulla Flaminia piove un primo forte temporale primaverile e la sera scende qui fuori Roma, come fa a sopportare tanta ingiustizia incomprensibile, proprio come nella storia di Mosè e Rabbi Akiva, con il macellaio che pesa la carne di un giusto innocente. “Bisogna fare tutto, ma proprio tutto quel che si può, fino all’ultimo, per ciò che si può cambiare”, risponde “E bisogna imparare a trovare in cuore la pazienza di accettare quello contro cui non si può combattere”.



Foto di Paola Cazzaniga