DIRITTO ECCLESIALE E LIBERTÀ
Rubrica a cura di Maria Giovanna Titone
Ecumenismo bloccato: la fraternità che non entra nei codici
Il recente incontro tra Papa Leone XIV e Sua Eminenza Antonij, metropolita di Volokolamsk e responsabile delle Relazioni esterne del Patriarcato di Mosca, è stato accolto come un gesto significativo nel percorso del dialogo ecumenico. Ma è un gesto che acquista un peso ancora più denso alla luce della guerra in Ucraina, dove lo scisma tra la Chiesa ortodossa ucraina autocefala e il Patriarcato di Mosca si è intrecciato a quello politico, trasformando la frattura ecclesiale in una vera e propria ferita geopolitica. In questo contesto, un incontro tra Roma e Mosca non è mai soltanto spirituale: è anche un segnale, una responsabilità, una possibilità.
Eppure, per quanto questi segni siano importanti, chi osserva con attenzione l’evoluzione del dialogo cattolico-ortodosso non può non vedere che la sostanza rimane immobile. Le parole si rinnovano, ma i sacramenti restano separati, e con essi, tutto ciò che nella vita della Chiesa è visibile, concreto, condivisibile.
E dire che proprio la Chiesa cattolica, con il Concilio Vaticano II, aveva intrapreso un cammino nuovo. Per la prima volta, si abbandonava ufficialmente una visione unionista — quella che concepiva le altre confessioni cristiane come erranti da “ricondurre a casa” — per abbracciare un’autentica prospettiva di comunione: una comunione che non nega le differenze, ma le accoglie come ricchezze. Nei documenti conciliari, come Unitatis Redintegratio e Lumen Gentium, si trova un linguaggio nuovo, finalmente fraterno. Si riconosce nelle Chiese ortodosse la piena validità dei sacramenti, la successione apostolica, una reale santità ecclesiale. E si dichiara, senza ambiguità, la volontà di camminare insieme.
A distanza di oltre sessant’anni da quella svolta, però, quel cammino sembra essersi fermato sul terreno della prassi. La comunione resta desiderata, ma non praticabile. I documenti ci sono, le commissioni lavorano, i comunicati congiunti si susseguono. Ma la vita sacramentale — cioè la realtà più viva e concreta della fede — resta rigidamente separata, bloccata da visioni canoniche inconciliabili.
La non-comunione eucaristica è, da questo punto di vista, la manifestazione più eloquente del problema. I cattolici non possono ricevere la comunione nella maggior parte delle Chiese ortodosse. Gli ortodossi, da parte loro, non la ricevono mai nelle chiese cattoliche. E non per disprezzo reciproco o ostilità: ma perché ognuna delle due Chiese ritiene che la piena partecipazione all’Eucaristia presupponga la comunione ecclesiale integrale, cioè l’adesione alla propria visione di Chiesa.
E questa visione, com’è noto, è ancora profondamente diversa. Per la Chiesa cattolica, l’unità della Chiesa universale si esprime nella comunione con il Vescovo di Roma, garante della fede e della disciplina. Per l’Ortodossia, invece, l’unità si dà nella sinodalità tra le Chiese autocefale, senza alcun primato giurisdizionale centrale. Il Papa, nella visione ortodossa, può essere “primus inter pares”, ma non può avere autorità sopra i patriarchi. E finché questa frattura non sarà almeno affrontata in modo strutturale, non sarà possibile condividere lo stesso altare.
Ma la distanza non riguarda solo l’Eucaristia. Anche gli altri sacramenti sono regolati da discipline diverse e, spesso, incompatibili. Il battesimo, pur riconosciuto reciprocamente a livello dottrinale, viene in alcuni casi riamministrato da parte ortodossa, in base alla prassi locale o a motivi disciplinari. La Penitenza nella Chiesa cattolica è legata alla giurisdizione canonica di chi assolve; nell’Ortodossia, è affidata alla tradizione spirituale e alla prassi pastorale del singolo confessore, con una diversa comprensione anche dell’efficacia sacramentale.
La stessa divergenza si ritrova nel sacramento dell’Ordine: Roma riconosce la validità del sacerdozio e dell’episcopato ortodosso, ma spesso questo riconoscimento non è ricambiato. E nel matrimonio, le differenze sono ancora più evidenti: la Chiesa cattolica afferma l’indissolubilità assoluta, mentre la Chiesa ortodossa ammette — seppur con riti penitenziali — un secondo e perfino un terzo matrimonio.
Queste differenze non sono solo disciplinari. Riflettono una diversa concezione dell’autorità ecclesiale e una differente teologia dell’unità. La Chiesa cattolica ha sviluppato nei secoli un sistema canonico centralizzato, codificato e uniforme, con norme vincolanti per tutto l’orbe cattolico. L’Ortodossia, invece, si affida a una tradizione canonica più fluida, antica, e fortemente legata all’identità delle singole Chiese locali. Di conseguenza, non esiste un terreno canonico neutro su cui dialogare. E questa asimmetria si fa sentire: ostacola il riconoscimento reciproco, irrigidisce le trattative, impedisce gesti concreti di comunione.
In questo scenario, le commissioni teologiche internazionali, per quanto preziose, appaiono disarmate. Producono documenti interessanti, a volte profondi, ma che non vincolano né modificano realmente la disciplina delle Chiese. Rimangono nel campo del desiderio, non entrano nella carne della Chiesa.
E se questo vale per il dialogo con l’Ortodossia, vale in modo ancora più radicale per le comunità ecclesiali protestanti. Con esse, pur in un clima di maggiore disponibilità al confronto teologico, l’assenza dei sacramenti riconosciuti — in particolare dell’Ordine e dell’Eucaristia — rende ancora più difficile una vera comunione ecclesiale. Si può camminare insieme su temi etici, culturali, sociali. Ma quando si entra nel mistero della fede celebrata, la distanza si fa strutturale.
Il rischio, oggi più che mai, è che l’ecumenismo si riduca a una diplomazia spirituale: utile, gentile, ma inefficace. Finché i codici canonici non saranno capaci di farsi ospitali, finché l’Eucaristia resterà un confine più che una soglia, ogni passo avanti sarà solo apparente. Il dialogo ha bisogno di teologia, sì, ma anche di coraggio giuridico. Ha bisogno di una conversione non solo del cuore, ma anche delle istituzioni.