La tavola di fronte alla finestra (prima del 1947) - Pierre Bonard (1867-1947), collezione privata - immagine tratta da commons.wikimedia.org
Sei felice?
Sei felice?
Già solo porre la domanda ci trasporta su un crinale scivoloso, sospeso tra filosofia da bar e metafisica da comodino. Si rischia sempre il cliché, la frase da cioccolatino, la citazione zen fraintesa. Ma, forse, è proprio in quella semplicità che si nasconde il nocciolo vero della questione: la felicità è una cosa minuta. Eppure — come le miniature fiamminghe — ha dentro mondi complessi, stratificazioni, enigmi.
Non è un caso, del resto, che la felicità sia uno dei tre pilastri su cui si regge la sacra triade americana: “life, liberty and the pursuit of happiness”. Vita, libertà e ricerca della felicità. Non la felicità come stato garantito, bensì la sua ricerca. I padri fondatori — non certo noti per l’euforia — l’avevano capita lunga: la felicità è un diritto, sì, ma è un diritto in divenire, un work in progress. Non si possiede. Si cerca. Si rincorre. Si danza intorno ad essa, a volte a un passo, a volte a chilometri.
La verità è che la felicità è una questione di attenzione. Di lentezza, perfino. Di presenza.
C’è una citazione che dice: “When you’re happy, notice it” — “Quando siete felici, fateci caso”. Semplice? Sì. Elementare quasi. Ma anche rivoluzionaria, se ci pensiamo. In un mondo che corre, che misura tutto con la produttività, che confonde il successo con l’accumulo e la gioia con la performance, fare caso alla felicità è un atto sovversivo.
Io, per esempio, quando sono felice, saltello. Letteralmente.
Non è una metafora. Non è una figura retorica. È proprio un piccolo sobbalzo del corpo. Inaspettato. Bambino. Ridicolo, forse. Ma autentico. Accade spesso nei momenti più banali: camminando al sole con una canzone nelle cuffiette, dopo aver trovato un vecchio biglietto in una tasca, quando combino gli ingredienti perfetti che profumano di casa. Tac, il piede si solleva, l’aria cambia, e il cuore fa “plin”. E io, per un attimo, mi accorgo di essere felice. Non è sempre un’euforia. A volte è una felicità discreta, come un sussurro. Altre volte è una felicità rumorosa, tipo risata che scoppia in un silenzio troppo lungo.
La felicità è un diritto, certo. Ma è anche una responsabilità.
E non intendo responsabilità morale — non c’è niente di peggio dei diktat motivazionali che ci ordinano di essere felici “nonostante tutto”. No. Intendo responsabilità nel senso che siamo noi, e solo noi, a doverle fare spazio. A riconoscerla, anche quando si traveste. A proteggerla, come si protegge una pianta delicata dal vento. E, soprattutto, a non vergognarcene.
Perché c’è un pudore della felicità, nel nostro tempo. Si teme di apparire ingenui. Superficiali. Poco impegnati. Siamo più pronti a condividere la nostra malinconia (che ha un certo prestigio culturale) che la nostra gioia (che può sembrare quasi offensiva, fuori luogo). Ma se la tristezza ha un’aria nobile, la felicità ha un che di sovversivo. Riconoscerla è un gesto politico. Un’arte. Una pratica. Un’estetica.
E qui, forse, entra in gioco l’arte — quella vera, quella che ci spinge a guardare dietro le quinte del visibile. L’arte, da sempre, ha a che fare con la felicità. Non sempre nel senso che ce la regala (anche la tragedia greca ci mette in crisi), ma nel senso che ci educa a vederla. A notarla. Ci invita a rallentare, a guardare. A fare caso.
Guardate un quadro di Bonnard, e ditemi se non si sente la felicità che trasuda da un bagno di luce su una tovaglia. Ascoltate un Notturno di Chopin, e ditemi se quella malinconia struggente non nasconde, tra le note, un fremito di gioia. L’arte è piena di momenti in cui la felicità si rivela in punta di piedi, con un gesto, con un colore, con un’ombra. Non sempre è palese. Spesso è solo una sensazione. Ma quando c’è, bisogna farci caso.
Perché la felicità è fatta così: ama nascondersi nelle pieghe. È timida, come certe emozioni che ci fanno tremare le mani. Vive nelle fessure del tempo. Non grida, non bussa. Sta lì, in attesa che qualcuno la riconosca. Un po’ come l’arte vera. Un po’ come noi, quando siamo veramente noi stessi.
Essere felici, in fondo, coincide con l’essere autentici. Non parlo di quella autenticità da social network, tutta costruita, tutta hashtag. Parlo dell’autenticità che nasce quando siamo così a nostro agio da dimenticarci di esistere per gli altri. Quando non stiamo “performando” un’identità, ma semplicemente… siamo. Come quando si canta sotto la doccia, si mangia con le mani, si ride da soli in metropolitana. In quei momenti, senza accorgercene, siamo felici. Perché siamo noi.
Eppure non è scontato. Anzi, è forse la cosa più difficile da fare: essere noi stessi. Richiede coraggio. Richiede una specie di anarchia interiore, una ribellione alla maschera. Essere se stessi è una forma di insubordinazione gentile. E se la felicità è una conseguenza dell’essere veri, allora ogni giorno è una rivoluzione in potenza. Ogni giorno possiamo conquistare quel diritto inscritto nella Costituzione americana. Non “essere felici”, ma cercare la felicità. E — se siamo fortunati, o attenti — accorgerci di averla trovata.
Saltellare.
Non è una filosofia. Non è un manifesto. È un gesto. E i gesti, alla fine, sono tutto ciò che ci resta. I piccoli, insignificanti, meravigliosi gesti dell’umano.
In un mondo che ci vuole vincenti, iper-produttivi, competitivi, essere felici è un atto poetico. E ironico, anche. Perché spesso la felicità arriva proprio quando avevamo mollato la presa. Quando avevamo smesso di cercare. Quando eravamo stanchi, ma presenti. Distratti, ma vivi.
C’è chi dice che la felicità è una scelta. Forse. Ma è anche una grazia. Un’imprudenza. Una piccola follia. Una sorpresa.
Come una farfalla che si posa sulla spalla. Come una risata che ci coglie nel mezzo di una giornata grigia. Come una frase letta per caso che ci si incolla addosso, e da quel momento non ci lascia più.
“Quando siete felici, fateci caso.”
Non c’è molto altro da aggiungere. Forse solo questo: se vi capita, saltellate. Non importa se siete in pigiama, in coda alla posta o al terzo piano senza ascensore. Saltellate. Siate ridicoli. Siate vivi. Siate voi.
Perché tra i diritti umani fondamentali, c’è anche questo: essere felici. E fare caso, ogni tanto, a quanto sia bello esserlo.