L’invidia dal Vangelo ai nostri giorni: passione triste che può diventare positiva?
di Angelo Maddalena
Foto di Angelo Maddalena
La prima volta che qualcuno mi fece notare l’importanza dell’invidia ero a Pietraperzia, mio paese di origine, e un mio giovane compaesano al quale avevo appena fatto un ritratto, per un libro illustrato sulla Sicilia al quale stavo lavorando, mi disse di aggiungere questa frase e di riportarla nello stesso foglio in cui avevo disegnato il suo volto: «L’invidia è un virus, ed è peggio della febbre». Non ricordo bene se il testo fosse precisamente così, ma il succo era più o meno questo: «L’invidia è un virus e fa molto più male di quel che possiamo immaginare».
E io aggiungo: non tanto per il male che fa in sé o, meglio, anche, ma soprattutto perché viene spesso “taciuta e sottaciuta”, come c’è scritto in uno degli interessanti e pregnanti contributi del numero monografico della rivista Segno (numero 453, anno 2024), dedicato appunto al sentimento dell’invidia a partire dal passo del Vangelo di Marco, 15,10: «Pilato ben sapeva che i capi del sinedrio gli avevano consegnato Gesù per invidia».
Che sia sottaciuta lo dimostra il fatto che una delle canzoni di Vasco Rossi dica che “l’orgoglio, fa molti più guai lui che il petrolio”, ebbene sì, oltre all’orgoglio bisognerebbe citare l’invidia ma, come dicevamo, è spesso “taciuta e sottaciuta”. Lo dimostra il fatto che una volta sola, su Avvenire, mi è capitato di trovare un articolo di approfondimento o una riflessione sul tema dell’invidia, ed è già buono! Perché su altri quotidiani e riviste periodiche non mi è ancora capitato. Non è un caso, a mio avviso, che Segno, rivista fondata da un prete, don Nino Fasullo, sia una rivista di area cattolica, come Avvenire d’altronde, una conferma del fatto che chi dedica attenzione a certe pieghe dell’anima è spesso chi si interroga sul senso ultimo delle cose, sugli orizzonti di senso interiori ed emotivi, oltre che sociali e politici.
Nel prezioso numero di Segno (allegato alla settimana alfonsiana di settembre del 2024) la trattazione dell’argomento è squisitamente ad ampio raggio, perché spazia da un livello storico e spirituale (evangelico in primis) a quello politico, personale, filosofico (quindi psicologico?) e oltre.
Il primo contributo è di don Nino Fasullo. A pag. 10 c’è il passo che potrebbe dare inizio al nostro percorso: «L’invidia è passione forte, radicata nella carne umana, a tutti nota (inclusi i rappresentanti del sinedrio). Ma cosa fa pensare a Pilato che l’invidia del sinedrio è stata la causa, la forza impiegata nella morte di Gesù?».
Non mi soffermerò sulla parte iniziale di questo numero della rivista, invito chi volesse a procurarsi anche via web il numero suddetto, molto interessante già nella fase iniziale, io mi appresto solo ad accennare un’intuizione che poi sarà sviluppata lungo questo nostro percorso anche con dettagli: «L’invidia è la causa della morte di croce, non solo della Croce di Cristo, ma ancora oggi, nella nostra quotidianità, è una forza che spinge spesso alla crocifissione sia del soggetto invidiato ma forse ancor più del soggetto invidiante», questo è un appunto che ho scritto a mano su una delle prime pagine della rivista, prima di completare la lettura di tutte le 96 pagine. A pag. 11 leggiamo: «Nella morte di Gesù era in gioco il potere assai concreto e materiale di coloro che lo rappresentavano. Nella fermezza di Caifa Pilato scorse, scottante, l’invidia, quella che gioca con la morte. L’invidia: la passione più ostinata che alligna nella carne umana. E toglie il bene della vista. E apre alla disperazione». A pag. 23, l’intervento di Salvatore Ferlita (Invidiare i più forti e i più deboli) inizia con una citazione di Giacomo Leopardi.
A tal proposito, dopo quella frase del mio giovane compaesano, avevo cominciato ad approfondire e a interrogarmi sulla “potenza” e sulla diffusione dell’invidia, ma soprattutto sulla tristezza di questa passione, definita, non a caso, dal filosofo Spinoza, “passione triste”. Ricordo che qualche anno fa mi misi a studiare alcuni testi di Leopardi per scrivere quello che poi fu il mio primo libro illustrato dal titolo In viaggio con Leopardi (Malanotte, 2017).
C’era appunto Filippo Ottonieri, protagonista di una operetta morale di Leopardi, il quale non si entusiasmava per nulla e non di lasciava condizionare da nulla, era quindi uno scettico, e questo lo rendeva inviso a molti, che appunto non sopportavano il suo distacco, il suo non idolatrare nulla.
Ma più precisamente ho trovato in uno dei pensieri di Leopardi un riferimento all’invidia con un rimando a una fiaba di Esopo, quella della volpe che siccome ha la coda mozzata, cerca di convincere le altre volpi a tagliarsi la coda (ne ho già parlato in un mio precedente articolo pubblicato su Il Giornale di Rodafà, qui). In quella riflessione pubblicata poche settimane fa, intitolata “La rimozione (della frustrazione) genera mostri”, mettevo l’accento sulla frustrazione rimossa che, a mio avviso, è alla radice dell’invidia.
Penso sia un carattere del nostro tempo, un tempo figlio di una civiltà industriale che genera, anzi, secondo qualcuno, “è una fabbrica di frustrazione e di alienazione”. Ovviamente c’è anche la responsabilità individuale chiamata in causa, la volontà, la pigrizia, come accenna a pag. 24 Salvatore Ferlita, che cita un racconto di Italo Svevo, dal titolo eloquente: Il malocchio.
Il protagonista del racconto, tale Vincenzo Albagi, «guarda caso un inetto, un personaggio passivo, dedito per lo più all’immaginazione, fortemente rancoroso. Infatti, il malocchio nasce proprio dall’astio accumulato. Vincenzo ha un sogno, ci fa sapere l’autore, ma non fa nulla per realizzarlo. È insofferente dei limiti, ma si rivela incapace di competere con gli altri (…) In parole povere, Vincenzo non riesce a trovare appagamento per gli insuccessi collezionati e, allora, prova a cercarlo indirettamente, assistendo al dolore altrui».
Non so a quanti di noi vengono in mente esempio o casi simili osservati nella propria quotidianità. A me, oltre la casistica umana, viene in mente una parte del libro di Ted Kazinski, noto come “UNABOMBER” americano, per distinguerlo da quello italiano.
Nel suo libro dal titolo Contro la civiltà tecnologica, Ted osserva che molti uomini e donne di sinistra, hanno poca capacità di intraprendenza e sviluppano quindi un senso di impotenza e di frustrazione che può sfociare nell’invidia. Non è il caso di generalizzare e di concentrarsi su un aspetto ideologico, ma c’è anche un aspetto antropologico in tutto ciò, che si può estendere, come una proiezione, un punto di osservazione: in effetti, storicamente, chi ha militato o si è riconosciuto in valori e ideali di giustizia, solidarietà e quindi, spesso associati alla cultura di sinistra, quando è finita un’epoca di lotte e di battaglie e anche di azioni dirette (anche armate), si è ritrovato orfano di una dimensione di lotta e di azione diretta e, abituato a fare affidamento allo Stato e alle Istituzioni, ha perso, man mano, creatività e autonomia (Ivan Illich parla di nuove povertà che si ingenerano quando la dipendenza dall’Istituzione, dal Mercato o dal sistema tecnologico supera una certa soglia).
È interessante poi notare, come l’invidia si sviluppa spesso tra “simili”, come ci fa notare Salvatore Di Piazza nel suo contributo su Segno, a pag. 53: «È il sinedrio e non Pilato a invidiare Gesù. Ma perché il Sinedrio invidia Gesù? E perché non lo fa Pilato?». A pag. 53 c’è una citazione di Aristotele al riguardo: «gli uomini invidiano le persone con le quali sono in competizione» e «coloro che hanno i loro stessi obiettivi». Tornando alla pag. 24, a proposito del racconto Il malocchio di Italo Svevo, c’è un altro passaggio che si ricollega ad… Aristotele!.
Vincenzo Albagi, protagonista del racconto di Svevo, «se registra un insuccesso (come gli capita spesso) immediatamente reagisce mostrando un atteggiamento di superiorità, ritenendo inferiori quelli che lo circondano e che non riescono a riconoscergli le virtù che possiede. Ecco allora che il malocchio prende corpo e forza dall’invidia e dalla gelosia che egli prova per gli altri, nei confronti dei loro successi e delle loro realizzazioni».
Mi è capitato molte volte di vivere situazioni simili anche con amici che “condividono gli stessi obiettivi” (aspirazioni personali, spirituali e ideologiche). La radice del “malocchio”, ci tengo a sottolinearlo, è nella rimozione, nel rifiuto dell’elaborazione della propria frustrazione, cosa che spinge verso un “atteggiamento di superiorità” e di competizione che tende ad aumentare il senso di frustrazione e di impotenza.
Poche pagine dopo (pag. 56), all’inizio del contributo di Giovanni Di Benedetto (L’invidia nella società degli individui), c’è un altro passo che approfondisce: «Più si accresce l’eccellenza dell’altro e più diminuisce l’essere dell’Io rivelandone l’inferiorità e la sfiducia in sé stesso. La psicoanalisi parla di ferita narcisistica. Qui siamo già dentro la modernità». E subito dopo continua: «Non siamo necessariamente per natura invidiosi ma è possibile che possano esserci assetti sociali e contesti economici in grado di assecondare e favorire lo sviluppo dell’invidia, in grado cioè di incidere sulla proliferazione di tale sentimento».
A pag. 58 c’è un approfondimento circa il passaggio dal Medioevo alla “modernità capitalistica”, favorita da una emancipazione dell’individuo rispetto alla comunità, alla collettività; quindi, da un lato maggiore possibilità di intraprendere individualmente, di viaggiare, ma anche di competere: «Scrive Karl Marx che solo lì dove si è sviluppata la società può darsi la possibilità di un individuo isolato». Attenzione: qualcuno potrebbe pensare che sia un paradosso, ma occorre distinguere “società” da “comunità”, qui Marx sottintende forse “società moderna”, in ogni caso, è un fatto che con il Rinascimento e di lì in poi l’individuo diventa più libero ma ciò comporta anche la possibilità di competere, aumenta la concorrenza, l’accumulo, il monopolio, in una parola, il capitalismo.
Ed è detto meglio qualche riga più avanti nella pag. 58: «Ma se da un lato l’individuo si emancipa dalle gerarchie feudali e dall’autorità trascendente del sovrano e del divino, dall’altro lato si muove oscillando tra la sovrana coscienza di sé, come conquistatrice di nuovi orizzonti terrestri e celesti, e la percezione delle proprie fragilità, percezione che genera paura e scoramento». (…) In questo contesto sociale la passione dell’invidia trova terreno fertile, si alimenta del confronto concorrenziale e diventa fonte produttiva di frustrazione, avvilimento e insoddisfazione».
Ma attenzione, anche Hobbes nel libro Il Leviatano, citato nelle pagine de Il Segno, benché abbia un’impostazione pessimista che confluisce nel famoso assunto secondo il quale homo homini lupus, ammette che ci sono due possibilità di vivere l’invidia, una positiva e una negativa: «L’afflizione per il successo di un competitore nelle ricchezze in un onore o in un altro bene, se è congiunta con lo sforzo di rafforzare le nostre abilità, per eguagliarlo o superarlo, viene chiamata emulazione, ma se è congiunta con lo sforzo di soppiantare o di impedire un competitore, invidia».
Dopo Hobbes viene chiamato in causa il filosofo Baruch Spinoza, il quale scrive: “«Quando la Mente immagina la propria impotenza, per ciò stesso si rattrista». È questo il caso dell’invidia che, scrive Spinoza, è «odio, in quanto si considera che disponga l’uomo a godere dell’altrui male e, al contrario, a rattristarsi dell’altrui bene»”.
Sempre sulle orme di Spinoza, ancora più a fondo: «Nel caso dell’invidia, il desiderio di esistere e di incrementare la nostra potenza e di autoaffermarci è ostacolato dal pensiero dell’altrui bene. Nel momento in cui immaginiamo, in concomitanza dell’eccellenza altrui, la nostra impotenza, finiamo per precipitare in una condizione di tristezza che diminuisce la nostra potenza di agire».
Potremmo dire, a questo punto: un cane che si morde la coda!? Qualche pagina più avanti (pag. 68), nel contributo di Guido Corso, si legge: «L’invidioso, in quanto tale, fa male a sé stesso, non a coloro che sono oggetto della sua invidia». Eppure, due pagine dopo, a tal proposito viene citato San Tommaso: «L’odio che nasce dall’invidia è più spregevole di quello che nasce dall’ira». E infine: «Quanti sono i conflitti che si presentano come conflitti di idee, conflitti di ideologie, conflitti religiosi che hanno in realtà la radice nelle passioni? E qual è, tra le passioni, il peso dell’invidia?».
Per evitare di dilungarmi troppo in questa sede, segnalo gli interessanti contributi di Maria Concetta Sala (Eccesso d’amore, pag. 75-82), in cui vengono chiamate in causa Hannah Arendt e Simone Weil, per questo ne consiglierei vivamente la lettura, gli approfondimenti sono molto interessanti anche se spaziano oltre il sentimento dell’invidia, e concluderei con la citazione del penultimo contributo di Maurizio De Lucia, dal titolo: “L’invidia, passione triste dolorosa e segreta”.
All’inizio dicevamo che quello dell’invidia è un sentimento spesso “taciuto e sottaciuto”, adesso anche “segreto”, ed è in questa segretezza che alligna e prospera questo sentimento, e sono contributi come questi che possono aiutarci a sciogliere quei nodi e quelle rimozioni che nella segretezza, non ci consentono di elaborare e di liberarci, cioè di trasformare in canto, o meglio, in positivo, cioè che è negativo, per aiutarci a scegliere e a seguire la strada della vita, cioè dell’emulazione e del riconoscimento e accettazione dei nostri limiti e delle nostre frustrazioni, e abbandonare la strada della morte o della non vita, che è quella dell’invidia rimossa e, appunto, “dolorosa e segreta”.