Piccole domande, brevi risposte
di Dario Culot
Pubblicato il volume di Dario Culot che ripropone in una nuova veste editoriale, ed in un unico libro, molti dei suoi contributi apparsi sul nostro settimanale: https://www.ilpozzodigiacobbe.it/equilibri-precari/gesu-questo-sconosciuto/
Come sapete sono pieno di dubbi nel campo religioso, ma a volte per qualcuno di questi dubbi ho trovato risposte che mi sono sembrate convincenti.
Qui di seguito troverete appunto un paio di piccoli dubbi, ai quali rispondo con le risposte che ho trovato leggendo vari teologi, in particolare Carlo Molari; mi sembrano convincenti per cui ve le giro.
1. Nel Gloria che si recita a messa si dice: “ti glorifichiamo” e “ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa”. Cosa vuol dire? Perché dobbiamo ringraziare Dio della sua gloria? Che c’entriamo noi con la sua gloria innata e infinita che non dipende da noi e non torna a noi neanche di riflesso. Poi visto che non gli rendiamo grazie per la sua onnipotenza o per la sua perfezione, perché dobbiamo farlo proprio per la sua gloria?
Gloria, oggi è sinonimo di fama, lustro, immortalità. Ma in senso biblico ha un senso diverso: indica la manifestazione dell’azione di Dio, nel presente e nel futuro delle creature. L’azione di Dio però diventa gloria, cioè manifestazione di novità, solo se c’è da parte nostra sintonia, consapevolezza, accoglienza, altrimenti non accade nulla. L’azione di Dio non riesce ad esprimersi nella storia finché non diventa convinzione e quindi azione di noi esseri umani. Perciò l’azione di Dio su noi creature non aggiunge nessun tocco divino, semplicemente offre possibilità, alimenta senza aggiungere nulla alle creature, permettendo che, raggiunto un certo livello di maturità, fioriscano dal di dentro, e proprio questo è azione creatrice[1].
Glorificare Dio vuol dire allora riconoscere che l’azione di Dio riesce finalmente a esprimersi nella storia e prendere forma umana inedita attraverso di noi. I traguardi di Dio sono sempre possibili, ma diventano effettivi solo quando la sua azione si fa gloria nella nostra vita, cioè quando i nostri gesti sono manifestazione della sua presenza. Perciò servono comunità che vivano consapevolmente il rapporto con Dio così da diventare gloria, cioè manifestazione dell’umanità che fiorisce quando vive il rapporto con Dio. Se invece non ci sono gruppi che vivono un’esperienza di fede in Dio, nessuna novità emergerà.
In altre parole, quando nella vita quotidiana manteniamo questo atteggiamento di apertura, riusciamo a comunicare agli altri quella forza di vita che ci attraversa e che diventa in noi decisione e azione. Ma se rimaniamo chiusi nel nostro bozzolo non siamo in grado di comunicare un bel niente, o quel poco che comunichiamo non serve a niente. Dunque va tenuto presente che evangelizzare non è proclamare una certa dottrina o spiegare dei dogmi, ma è vivere aprendosi verso gli altri per realizzare la fraternità e l’uguaglianza di cui parlano i vangeli.
Quindi, nella preghiera Gloria, noi rendiamo grazie a Dio, per averci dato la possibilità di comunicare agli altri la sua forza di vita. È necessario prendere consapevolezza che non siamo noi a offrire vita, ma è l’azione di Dio che in noi diventa offerta di vita per i fratelli; che non sono gli altri a offrirci il bene, ma che è l’azione di Dio in loro che diventa in noi dono che fa crescere.
Perciò, recitando il Gloria affermiamo che è la gloria di Dio che deve emergere, cioè è la sua azione che deve emergere, e di questo siamo semplici testimoni, facendo appunto risplendere l’azione di Dio, non la nostra. Altrimenti – come per i farisei nel Vangelo di Giovanni - ci scambiamo gloria gli uni gli altri (Gv 5, 44)[2]: “Oh come siamo bravi ad aver fatto questo”.
Ovviamente la gloria di Dio si rende manifesta in una persona o in una comunità non quando si recita il Gloria, ma quando si nota che lì è aumentata la capacità d’amare. Perciò recitare a messa il Gloria, se poi non lo facciamo seguire dalla nostra azione, vuol dire ripetere parole antiche, magari anche belle, però vuote, inefficaci e insufficienti per il futuro che richiede sempre novità.
Ricordiamo che con Gesù tutte le forme religiose rituali sono finite, e il nuovo rapporto con Dio deve essere all’insegna di un amore che, ricevuto, si prolunga all’esterno. Questa è la gloria e questo è il culto che Dio vuole. Non serve più andare né a Garizim né a Gerusalemme (aveva detto Gesù alla Samaritana – Gv 4, 19-24); né – trasferendo l’insegnamento ad oggi - occorre rendergli culto in qualche chiesa o in qualche altro luogo sacro pensando così di glorificarlo: basta espandere il suo amore rendendolo efficace, manifestandolo anche agli altri[3]. Così lo glorifichiamo.
Quando i pastori – cioè quei malfattori destinati alla perdizione che vivevano di sotterfugi, sempre e solo insieme alle bestie, e quindi bestie fra le bestie - vengono avvicinati dall’angelo che annuncia la nascita di Gesù, anziché venir inceneriti come tutti si aspettavano avrebbe fatto il Messia, vengono avvolti dall’amore di Dio e dalla Buona Notizia che per essi è nato un Salvatore (Lc 2, 9s.). Poi questi pastori, dopo essere andati a trovare il bambinello, tornano al loro accampamento e continuano a fare quello che facevano prima (compresi i ladrocini), senza aver fatto né confessioni, né penitenze; quindi, secondo la religione, permangono nel peccato e nell’impurità. Eppure, nel tornare ai loro greggi, i pastori glorificano e lodano Dio (Lc 2, 20);[4] ma lodare Dio era compito esclusivo degli angeli, per cui i pastori, impuri e peccatori, fanno qui le veci degli angeli dimostrando che Dio non si è minimamente interessato ai loro peccati. Poi, anche qui, glorificare Dio (che non è sinonimo di lodare Dio) significa che la novità della Buona Notizia è stata accolta da questi che sono esclusi dalla religione ufficiale, e può cominciare a esprimersi nella storia umana.
2. La Chiesa ha sempre riconosciuto che la Bibbia è Parola di Dio (n.135 Catechismo). La Parola di Dio, così come insegnata dal magistero, dovrebbe rendere inutile ogni diversa parola umana. In effetti, a messa, dopo le letture si termina dicendo Parola di Dio. Eppure, stando ai vangeli, quando Gesù e i suoi discepoli non seguono la tradizione ebraica delle abluzioni, Gesù stesso dice espressamente che la Bibbia non è parola di Dio (Mt 15,10-20 ; Mc 7,1-16), ma degli uomini. Di più: per dimostrare la falsità della Bibbia intesa come parola di Dio, Gesù tocca il lebbroso (Mt 8,3), come tocca la donna impura (Mt 8, 14-17), e anziché infettarsi li guarisce, contraddicendo la Legge di purità rituale, secondo cui la purità non si trasmette, mentre l’impurità è contagiosa (Ag 2, 13; Lv 15, 2ss. affermano che Dio stesso aveva assicurato che l’impurità sarebbe passata dal toccato al toccante). E allora perché a messa continuiamo a dire Parola di Dio?
Gesù dimostra varie volte che la Bibbia è falsa: ad esempio, operando di sabato dimostra che non scendono le maledizioni divine previste da Dt 28, e quindi la parola di Dio è stata falsificata dagli uomini. Nel Vangelo, quando i farisei e gli scribi scesi direttamente da Gerusalemme (cioè attualizzando: dalla capitale religiosa di allora si scomoda il Sant’Uffizio di allora per venire a controllare se l’insegnamento di Gesù è ortodosso o meno) contestano a Gesù che lui e i suoi discepoli non rispettano la tradizione religiosa, perché non adempiono al rito prescritto delle abluzioni prima di mangiare e così disonorano ed offendono Dio, Gesù risponde che la Bibbia non è Parola di Dio (Mt 15,10-20 ; Mc 7,1-16), ma degli uomini, ed aggiunge: «non è quello che ti entra che ti rende impuro, ma quello che ti esce» (Mt 15, 17s.; Mc 7, 15): il male non è all'esterno dell'uomo, ma all'interno. Mentre per i farisei il male (il peccato, l’impurità) sono esterni all’uomo, per cui servono tutti i riti di purificazione, Gesù purifica il concetto di peccato riportandolo al cuore dell’uomo e non alla trasgressione esterna di una legge divina[5].
Oggi sappiamo benissimo che le Scritture contengono i vangeli scritti dagli evangelisti, le lettere di Paolo, Pietro e altri, cioè tutti testi scritti da uomini come noi. Sappiamo anche che le parole e le azioni di Gesù, riportate dagli uomini che hanno scritto quei testi, sono necessariamente state concepite in una determinata cultura, e questo già implica la possibilità di fraintendimento, cosa che non sarebbe stata possibile se Dio in persona avesse dettato il testo. Dunque deve essere ben chiaro che quando diciamo Parola di Dio non ci riferiamo a ciò che abbiamo appena letto, nel senso che lo scritto che abbiamo letto non è stato sicuramente scritto o dettato da Dio[6]. Sotto quelle affermazioni, sotto quei modelli culturali usati dagli uomini che hanno scritto le Scritture, dobbiamo semplicemente cogliere quella forza creatrice, quell’energia di vita che consente a noi di continuare nel nostro cammino di fede. Diciamo Parola di Dio perché a quel punto siamo disponibili a lasciarci attraversare dalla sua forza di vita, dal suo Spirito, che consente di continuare nel nostro cammino di fede[7]. Quando diciamo che la Parola di Dio si è incarnata significa semplicemente che la parola di Dio è entrata nella storia con Gesù[8]. Nel cristianesimo, non un libro, ma un uomo è la Parola di Dio,[9] e lo è attraverso tutta la vita che ha vissuto. Gesù non è sceso dal cielo; è sorto dalla terra. Ma sulla terra ha espresso la potenza della Parola di Dio che veniva dal cielo[10].
Nel suo vangelo, Luca, dopo aver elencato i nomi dei personaggi storici più potenti dell’epoca, a cominciare dall’imperatore e a finire col sommo sacerdote di Gerusalemme (Lc 3, 1-2) spiazza di nuovo tutti dicendo che La parola di Dio discese… su chi? Sull’imperatore, sui sommi sacerdoti equiparabili al nostro papa o ai nostri vescovi di oggi? No: quando Dio si serve della storia umana evita accuratamente palazzi di potere, luoghi sacri e persone religiose, ben sapendo che proprio questi sono i luoghi più refrattari ed ostili ad ogni cambiamento. La parola di Dio scende infatti sul figlio del sacerdote Zaccaria, che però non ha voluto seguire la professione del padre, per cui non predica nella città santa di Gerusalemme, ma si è ritirato lontano nel deserto: è rimasto un laico in un luogo profano.
E ricordiamo che, all’opposto del Battista, suo padre, il sacerdote Zaccaria, quando si trova nel luogo più sacro, nel momento più sacro, resta incredulo e non accoglie la parola di Dio. Proprio perché chiuso al nuovo, non ha più niente da dire (resta muto), e tornerà a parlare solo quando accoglierà il nuovo, a casa sua, di nuovo luogo profano e lontano dal sacro Tempio (Lc 1, 5-20, 63s.)), accettando di rompere la tradizione che voleva che il figlio si chiamasse Zaccaria e non Giovanni[11].
Parola di Dio, allora, non è semplicemente la sacra Scrittura che si è appena letta in chiesa; men che meno è la Parola dei testi sacri letta e spiegata dal clero. Anzi, è bene ricordare che, nei primi secoli, la Chiesa era laica, perché il clero non esisteva. Quelli che chiamiamo oggi presbiteri (cioè i preti, anche se sbagliando preferiamo dire i sacerdoti ordinati, visto che siamo tutti sacerdoti: Costituzione dogmatica sulla Chiesa - Lumen Gentium § 10 - del 21.11.1964) non avevano all’epoca alcuna funzione sacerdotale. Non esisteva il clero come status sacro di vita separato dal popolo. E quindi era normale che i cd. presbiteri, cioè i laici anziani che avevano dato alla comunità una sana dimostrazione di fede, vivessero in mezzo alla gente e continuassero a svolgere un’esistenza laica come tutti. Non era stato attribuita loro alcuna caratteristica sacerdotale o sacrale.
Dunque, Parola di Dio è un’espressione analogica,[12] perché di per sé la Parola di Dio è la dimensione eterna dell’azione di Dio, che diventa comunicazione, che diventa possibilità di trasmissione, il davar[13] divino, quella forza creatrice da cui emergono le cose, come noi cerchiamo di esprimerci nel nostro linguaggio umano povero e imperfetto. Quando, alla fine delle letture, diciamo Parola di Dio ci riferiamo non semplicemente ai suoni verbali letti e sentiti, ma a un’energia, a una forza che si è espressa nel passato, che ci perviene attraverso il racconto di testimoni e che viene accolta con fede[14].
Quindi la Parola di Dio, che abbiamo letto nelle Scritture, riguarda il passato. Quando leggiamo le Scritture cominciamo proprio raccontando eventi: “Quel giorno Mosè disse di essersi imbattuto nel roveto ardente”. Sono eventi da cui è fiorita la nostra tradizione di fede, rivolta al passato. Anche noi cominciamo raccontando qualcosa accaduto nel passato.
Questa Parola di Dio, poi, non è a disposizione dell’uomo in espressioni divine ed assolute, ma storiche e contingenti da interpretare continuamente nei suoi significati profondi. In questa prospettiva la Rivelazione è stata presentata dal concilio Vaticano II non come comunicazione di dati o di notizie da parte di Dio agli uomini, non come una comunicazione che svela quello che non si sapeva, ma come una serie di avvenimenti su cui dobbiamo meditare, perché attraverso quegli avvenimenti raccontati l’uomo è stato condotto da Dio alla scoperta delle Verità salvifiche, cioè alla comprensione del proprio mistero[15]. Se la rivelazione fosse una comunicazione di notizie divine, le parole della Scrittura dovrebbero essere considerate perfette e irrefutabili, come il Corano per i musulmani. Esse invece costituiscono soltanto narrazioni degli eventi attraverso i quali l’uomo è stato guidato alla conoscenza progressiva della verità. Essendo costituita da eventi storici, la rivelazione è sempre soggetta ad ulteriori approfondimenti[16]. Gli avvenimenti della storia, infatti, si comprendono molto meglio attraverso l’analisi dei loro sviluppi che nel momento stesso in cui succedono[17].
Perciò non dobbiamo intendere Parola di Dio in senso di identità, visto che quelle parole che abbiamo letto sono parole umane che raccontano eventi umani, trasmessi da uomini che avevano modelli culturali diversi dai nostri. E noi sappiamo bene che tutte le formule che provengono da passato contengono sempre componenti variabili che cambiano nel corso del tempo, perché la visione del mondo cambia in continuazione. Questi eventi sono conseguentemente oggetto d’interpretazione. Gli eventi contengono i significati che nel corso della storia possono essere capiti in modo nuovo e più profondo. Per questo richiedono continua interpretazione.
Essendo la Parola legata alla vita stessa dell’individuo, a mano a mano che il dono di sé cresce, si sviluppano nel seguace di Gesù nuove capacità d’amare e si scoprono nuove possibilità di farlo. Questa crescita progressiva nell’amore fa sì che la comprensione del messaggio di Gesù possa sempre crescere in intensità ed estensione, senza avere limiti. La fedeltà al vangelo, dunque, è viva e duttile perché si apre in continuazione alle istanze delle comunità alle quali le parole di Gesù devono essere trasmesse in modo concreto e incarnato[18]. Ecco allora perché non è determinante che le esatte parole di Gesù siano state trasfuse alla lettera nei vangeli,[19] e che poi questi vangeli siano stati tramandati fino a noi con la certezza matematica che neanche una loro virgola sia cambiata nel corso dei secoli[20]. Quello che conta è il senso del messaggio che deve evolversi in continuazione, per togliere - generazione dopo generazione - l’in-umano che alberga in noi. Il messaggio deve evolversi perché noi siamo chiamati a proseguire questo processo in cui la forza creatrice ha iniziato a far fiorire un'umanità nuova.
Quindi, col termine Parola indichiamo l’azione di Dio che ci perviene dal passato che è diventata evento, che è diventata racconto, che è diventata Scrittura. Col termine Spirito indichiamo, invece, in rapporto all’azione di Dio, quell’aspetto che introduce novità[21].
In conclusione, la Parola di Dio non è ciò che è scritto e che abbiamo letto, perché tutto è stato scritto da uomini. La Parola di Dio è l’esperienza di fede di chi ha riferito gli accadimenti storici collegandoli a una Forza più grande, una forza che alimenta la vita, e di un Bene che chiede di essere messo in pratica dagli uomini. Quindi scopo della lettura delle Scritture è accedere a questa esperienza di fede[22].
La cosa da tenere allora a mente, dopo aver concluso a messa le letture, è che la Parola di Dio – su cui abbiamo meditato - produce frutto in noi quando diventa finalmente nostro pensiero, nostra decisione, e soprattutto nostra azione. Altrimenti non facciamo altro che ripetere parole antiche, magari anche belle, però vuote, inefficaci e insufficienti per il futuro che richiede sempre novità[23].
Detto con le parole della parabola (Mt 13,1-23, Mc 4,1-20 e Lc 8,4-15), in alcuni luoghi la Parola resta sterile, in altri fa crescere figli di Dio. Tutto dipende dall’accoglienza degli uomini. La parola, infatti, per risuonare nella storia e fecondarla deve diventare parola di uomini e deve tradursi in gesti concreti di amore umano[24]. Per questo già Giacomo, nella sua lettera (Gc 1, 22) aveva scritto: “Non ingannate voi stessi: non contentatevi di ascoltare la parola di Dio; mettetela anche in pratica!”. E ricordiamoci anche che la parola di Dio non si lascia ingabbiare in dogmi (2Tm 2, 9; “la parola di Dio non è incatenata”), e che il magistero non è superiore alla parola di Dio, ma ad essa serve[25].
3. Si legge a volte nei vangeli che è necessario che Gesù faccia o subisca qualcosa, o che quel determinato evento doveva proprio accadere così come è accaduto: ad es. in Gv 3, 14 si legge che “Bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo”. In 1Cor 15, 24-25 si legge: “È necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi”. Ma allora tutta la storia umana si evolve in base a una predestinazione decisa da Dio e l’idea che siamo liberi è una bufala?
No, non siamo davanti a percorsi già predeterminati. Cominciamo col dire che se Giuda è finito all’inferno per il suo tradimento, e il suo tradimento era un gradino necessario nella morte di Gesù Cristo per la salvezza umana, perché così aveva già deciso Dio predestinandolo all’inferno, allora Giuda è stato punito per la salvezza umana. Se Gesù ha sofferto soltanto mentre moriva sulla croce ed è poi asceso al paradiso, mentre Giuda deve soffrire all’ inferno per l’eternità, dovremmo tutti riconoscere che Giuda ha sofferto per i peccati dell’umanità molto, ma molto più di Gesù. Quindi, più di Gesù, dovremmo venerare Giuda che ha contribuito alla nostra salvezza col suo sacrificio.
Se tutto fosse prestabilito, non ci sarebbe neanche bisogno di evangelizzazione (Rm 10, 14). Se poi è vero che Dio vuole che tutti siano salvi (1Tm 2, 4), tutti devono potersi salvare, non solo gli eletti, i predestinati da Lui.
La teoria della predestinazione divide gli uomini in due categorie: i predestinati che si salvano e i predestinati (come Giuda) che si dannano. Ma Gesù chiama tutti alla conversione, cioè a cambiare modo di pensare, e a collaborare nella creazione del Regno. Questo è sufficiente per pensare che tutti possono salvarsi. Non c’è un fato avverso, un insondabile disegno di un dio capriccioso che giocando a dadi salva alcuni, anche se magari non hanno fatto nulla di buono nella loro vita, e condanna altri, che magari si sono dati disperatamente da fare per aiutare il loro prossimo.
Di più: oggi cominciamo a renderci conto che, come specie umana, siamo in evoluzione, ma questo percorso può imboccare strade sbagliate proprio perché siamo liberi, sì che possiamo anche arrivare alla totale autodistruzione. Le scelte libere – come dice Carlo Molari - possono condurre a involuzione e morte[26].
Quindi cosa vogliono dire le Scritture quando dicono che “bisogna” che “è necessario”? Era proprio necessario che l’uomo Gesù finisse crocifisso per salvare l’umanità? Certamente Dio avrebbe potuto scegliere un’altra via per salvare l’umanità: quindi non si può affermare che l’incarnazione era assolutamente necessaria per la salvezza del genere umano; perciò e l’umanità di Gesù è contingente, non necessaria[27].
Siccome oggi, rispetto al passato, la nostra cultura ha raggiunto una sensibilità assai più profonda rispetto alla giustizia, l’assurdità della sofferenza e della violenza, le interpretazioni del passato – basate su una cultura che privilegiava la giustizia punitiva, vendicativa, la soddisfazione dell’offeso - sono ormai difficilmente accettabili.
Gesù si è trovato a dover decidere se continuare o meno il suo cammino anche quando ha visto che gli uomini lo contrastavano e rifiutavano il suo messaggio innovativo. Oggi possiamo dire che la necessità di cui parlano i vangeli è solo una necessità di tipo storico. Per mostrare la verità del Vangelo non gli restava altra possibilità che viverlo fino in fondo e attendere da Dio il segno della sua fedeltà. Ha deciso, quindi, di continuare il cammino e di salire a Gerusalemme: «decise risolutamente di salire a Gerusalemme» (Lc 9, 51), perché «Non è possibile che un profeta muoia fuori da Gerusalemme» (Lc 13, 31-35). Ecco la necessità di carattere storico a convincerlo di “amare sino alla fine” (cfr. Gv 13,1). Se non avesse consentito a Dio di mostrare la verità del Vangelo che egli aveva annunziato anche nella difficoltà, tutto sarebbe finito con la sua condanna,[28] e nessuno avrebbe creduto al suo vangelo.
NOTE
[1] In tal senso vedasi l’Enciclica Laudato si’ del 24.5.2015 di papa Francesco, che ha accolto la tesi sostenuta da anni da Molari Carlo in diverse sue opere.
[2] Molari C., Amare fino a morirne, Gabrielli editori, San Pietro in Cariano (VR), 2024, 23s. – 26s.
[3] Pèrez Marquez R., Esperienze di fede nei vangeli, relazione tenuta a Rovigo – 24 novembre 2012.
[4]A noi la frase non fa grande effetto, ma per i lettori di allora era inaudito. Attorno a Dio c’erano 7 angeli (Tb 12, 15), chiamati gli angeli del servizio divino che avevano l’unico compito di glorificare e lodare il Signore. Quindi che i pastori, feccia impura della società, i più lontani da Dio, gli esclusi da Dio, siano equiparati agli angeli più vicini a Dio era impensabile (Maggi A., Non ancora madonna, ed. Cittadella, Assisi, 2004, 71).
[5] AA.VV., Il cristianesimo questo sconosciuto, ed. Didaskaleion, Torino, 1993, 350.
[6] Questo l’abbiamo a lungo creduto. E i musulmani ancora lo credono per il loro Corano.
[7] Molari C., Amare fino a morirne, Gabrielli editori, San Pietro in Cariano (VR), 2024, 155.
[8] Lohfink G., Gesù di Nazaret, ed. Queriniana, Brescia, 2014, 10.
[9] Maggi A., Pietro, un diavolo in paradiso, Padova, 20.8.2013, in: www.studibiblici.it/scritti/conferenze.
Vilanova E., Storia della teologia cristiana, ed. Borla, Roma, 1991, 94. Nel Credo non si dice: “Credo che Gesù Cristo sia il suo unico Figlio”, bensì «Credo in Gesù Cristo». Quindi la fede non è adesione a una dottrina, ma è dinamismo, abbandono di sé a un altro, impegno personale davanti a quest’altro.
[10] Molari C., Gesù, chi?, relazione tenuta a Trieste, il 27.2.2016, nella chiesa di S. Teresa del bambino Gesù.
[11] Maggi A., in www.studibiblici.it/ Multimedia/Interviste e video vari/ Cefalù novembre 2013.
[12] Ocáriz F. e al., The Mstery of Jesus Christ, ed. Four Courts Press, Dublin (Irl), 2004, 104: in teologia questi concetti vanno utilizzati analogicamente.
[13] Il termine ebraico “parola”, “davar”, dice molto di più che non in italiano, e significa anche “la realtà concreta”, “l'energia”,“i fatti” che la parola produce. Geremia (Ger 1, 4), all’inizio del suo libro, ci sta presentando la sua vocazione nei termini di una forza poderosa che gli è arrivata addosso e l’ha afferrato per non mollarlo più (Marchetti R., “l libro di Geremia: la passione del profeta e la passione di Dio, relazione tenuta al centro Veritas di Trieste il 20.4.2016).
[14] Molari C., Amare fino a morirne, Gabrielli editori, San Pietro in Cariano (VR), 2024, 126-148.
[15] Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione del 18.11.1965 – Dei Verbum § 2.
[16] Molari C., La fede nel Dio di Gesù, ed. Camaldoli, 1991, 39.
[17] Il teologo Segundo, ad es., parla del «continuo cambiamento nella nostra interpretazione della Bibbia in funzione dei continui mutamenti della nostra realtà presente, tanto a livello sociale che individuale». E precisa: «Il carattere circolare di tale interpretazione consiste nel fatto che ogni nuova realtà esige una nuova interpretazione della rivelazione di Dio, un cambiamento da parte di quest’ultima della realtà e, quindi, una nuova interpretazione... e così di seguito». (Segundo J. L., Liberazione della teologia, ed. Queriniana, Brescia 1976, 17).
[18] Ravasi G., Poveri in spirito, “Famiglia Cristiana”, n.7/2012, 129.
[19] Le generazioni successive non hanno potuto godere della stessa esperienza dei discepoli diretti di Gesù. Ma la verità del vangelo di Giovanni sta nel fatto che, anche se Gesù non ha detto certe frasi (“io sono il pane che dà la vera vita... Io sono la luce che illumina il mondo”) si è comportato comunque così, conquistando gli uomini con la forza del suo “Io” (Machovec M., Gesù per gli atei, ed. Cittadella, Assisi, 1974, 204).
[20] Il cristianesimo ammette la contestualizzazione storica dei testi sacri, mentre l’Islam considera i propri come ultima, definitiva e immodificabile rivelazione della Parola di Dio. Il libro sacro musulmano contiene la volontà divina, perché la parola di Dio è immutabile e lì si trova ogni risposta. Gesù invece libera, ma destabilizza.
[21] Molari C., Amare fino a morirne, Gabrielli editori, San Pietro in Cariano (VR), 2024, 153.
[22] Idem, 154.
[23] Molari C., Amare fino a morirne, Gabrielli editori, San Pietro in Cariano (VR), 2024, 52.
[24] Molari C., Gesù è Dio? La Cristologia nella riflessione del teologo Carlo Molari, Ravenna, Quaderno n. 10 del 24.4.2023, 7.
[25] Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione del 18.11.1965 – Dei Verbum - § 10.
[26] Molari C., Amare fino a morirne, Gabrielli editori, San Pietro in Cariano (VR), 2024, 190.
[27] Dupuis J., Perché non sono eretico, ed. EMI, Bologna, 2014, 96.
[28] Molari C., Gesù è Dio? La Cristologia nella riflessione del teologo Carlo Molari, Ravenna, Quaderno n. 10 del 24.4.2023, 6.