Emigrazioni dimenticate: une ferita e un trauma da rielaborare …in memoria di Dio!
di Angelo Maddalena
Tempo fa ho abitato con uno studente di filosofia, e gli ho voluto fare questa domanda: “Cosa si prova a studiare filosofia in un mondo in cui la logica è sempre più disprezzata?”. Avevamo fatto un po’ di esempi, a proposito di sconvolgimenti della logica: la sacralizzazione dell’automobile privata ci sembrava uno degli esempi più significativi del nostro tempo: non è logico usare un mezzo che ti costringe a spendere molte risorse monetarie ed energetiche e ti induce spesso all’isolamento, invade lo spazio urbano, distrugge le relazioni sociali, ammazza persone in quantità superiore a quelle uccise dalle guerre, insomma uno sconvolgimento dei principi della logica, prima che una catastrofe antropologica sotto gli occhi di tutti e tutti i giorni; abbiamo convenuto nel dire che lo Sviluppo, il Mercato e altri nomi simili, sono dogmi di una religione non esplicitata ma potentissima: Pasolini aveva scritto e detto qualcosa a tal proposito.
Avevamo fatto altri esempi di processi irrazionali sotto gli occhi di tutti eppure “invisibili”, ma voglio evitare di proseguire in questo elenco e preferisco citare una preghiera che recito ogni mattina, è riportata in un libricino di Lode del mattino e della sera, stampata dalla Fraternità di Romena. Questo passo qui: “Vogliamo riportarti in noi come àncora, che salva nella tempesta”. Ci sono altri due versi della preghiera (credo che il testo sia di Giovanni Vannucci) che ridicono “Vogliamo portarti in noi come luce che rischiare le tenebre” e poi “come germe che diventa pane nella carestia”. Per attualizzarla, quando la leggo, dico sempre che “la tempesta, le tenebre e la carestia sono le falsità, la confusione tra dati oggettivi reali e opinioni o fake news o peggio ancora “oscuramento dei dati oggettivi”.
Come si ottiene questo oscuramento? Con l’industria della distrazione (molta letteratura, televisione, giornalismo …spazzatura!), con il dominio della fiction sul racconto della realtà e, ovviamente, con le narrazioni depravate e scollate dalla realtà che purtroppo però fanno presa su coscienze e immaginari disabituati a guardare, affrontare, vivere la complessità dell’esistenza e delle relazioni con gli altri, dei collegamenti tra locale e globale, tra personale e collettivo.
Un esempio lampante di tutto ciò, o meglio, un’àncora che ci salva nella tempesta, sono i documenti frutto di studio, di ricerca attenta e accurata, come quello che ogni anno viene pubblicato per osservare la realtà di chi si muove tra Nord e Sud Italia, dall’Italia all’estero, tra abitanti di altri paesi che si muovono verso l’Italia: ha almeno 500 pagine e si chiama Rapporto Italiani nel Mondo, quello di quest’anno è uscito a novembre ed è curato, come da tanti anni a questa parte, dalla Fondazione Migrantes della CEI. Devo dire che io avevo consultato già trent’anni fa questo tipo di documenti, per elaborare la mia tesi di laurea sulla letteratura prodotta dagli emigrati italiani in Belgio (recentemente pubblicata con il titolo Sud e ritorni, Autoproduzioni Malanotte, acquistabile on line solo sul sito Mezzodì.it).
Evidentemente da allora a oggi c’è stato un mutamento antropologico perché quando ero in Belgio e incontravo miei compaesani o conoscenti o comunque conterranei e connazionali emigrati tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta (e i loro figli), non avrei mai immaginato che trent’anni dopo in Italia e in particolare in Sicilia (nel mio paese in particolare, si veda la parte finale del libro Sud e ritorni) non solo si sarebbe persa la memoria di quanto eravamo noi a emigrare ma ci saremmo accaniti in teorie illogiche oltre che disumanizzanti. In questo senso la Fondazione Migrantes ci ancora alla realtà e ci dice che “l’emergenza è l’emigrazione, non l’immigrazione” (il manifesto, pag. 3, 12 novembre 2025). Mentre ci sono in giro alienati istituzionali, o forse furbi e calcolatori sostenuti da altri alienati che li seguono con striscioni e frasi ripetute o urlate nelle piazze per inneggiare alla REMIGRAZIONE (il ritorno degli emigrati nei loro paesi di origine), la Fondazione Migrantes ci dice che non solo sono più gli emigrati italiani che vanno all’estero di quelli che arrivano in Italia, negli ultimi dieci anni con tendenze sempre più crescenti (degli emigrati italiani all’estero), ma si registrano molte partenze dall’Italia di “nuovi italiani”: “Un dato significativo e spesso trascurato è l’emigrazione degli stranieri che hanno acquisito la cittadinanza italiana: oltre 1 milione e 576 mila tra il 2014 e il 2023. Un espatrio su cinque è un nuovo italiano, partono soprattutto emigrati italiani di origine brasiliana e bangladese” (il manifesto, 12/11/2025).
L’aspetto inquietante però che vorrei aggiungere, anche perché l’ho vissuto dal di dentro, è quello della remigrazione che può scandalizzare molti ma io stesso, più di venti anni fa, proponevo un ritorno alle origini e alla vita di campagna (ho fatto autoironia di tutto ciò in alcuni miei scritti successivi e in particolare nel monologo teatrale Poveri e pazzi, dis- emigrati dal Sud, su youtube c’è una versione integrale) e insieme a un musicista catanese, Luca Recupero, al Sicilia Roma Festival del 2004, ci ritrovavamo in questa “prospettiva” (fortunatamente mai esposta in pubblico con troppa convinzione) del ritorno “in massa” degli emigrati siciliani che sarebbero dovuti rientrare in Sicilia da tutto il mondo! Sul modello degli israeliani, ma qualcuno ci aveva detto che gli irlandesi avevano fatto una cosa simile.
Un delirio ridicolo? Purtroppo, però ancora oggi, anche tra persone non incolte, a Perugia come a Torino, mi sento dire “Perché non rimanevi in Sicilia, una terra così bella e calda, cosa vieni a fare qui?”.
Forme di alienazione sotterranea? Siamo sempre al punto di partenza: il rifiuto di osservare la realtà, di accettare la realtà, la disabitudine ad analizzare genera mostri. Sempre per tornare ai dati oggettivi: “Se nel 2019 emigrati italiani e immigrati stranieri si equivalevano, oggi il numero dei connazionali all’estero ha operato il contro-soprasso, superando di un milione quello degli stranieri in Italia. Attualmente gli italiani all’estero sono 6 milioni e 400 mila, un dato che si confronta con i 5,4 milioni di stranieri in Italia”.
L’indicatore più allarmante è l’aumento esponenziale degli ultimi anni: 155 mila persone hanno lasciato l’Italia nel 2025, un aumento del 36% rispetto all’anno scorso. Sfogliando il Rapporto Italiani nel mondo ho scoperto che quest’anno ricorre il 70° anniversario dell’accordo tra Italia e Germania firmato nel 1955 per consentire agli italiani di andare a lavorare nelle fabbriche tedesche che allora cominciavano a decollare dopo l’ “inutile strage” (parole di papa Benedetto XV riferite alla Grande Guerra o Prima guerra mondiale) che chiamiamo Seconda Guerra Mondiale.
Era tutto molto contingentato all’inizio, solo dopo qualche anno diventò più “facile” per gli italiani emigrare in Germania (nelle pieghe del “contingentato” c’è probabilmente una memoria rimossa di molti italiani che entravano clandestinamente). Faccio ammenda del fatto che nonostante la mia tesi di laurea, ho saputo solo adesso, leggendolo fra le pagine del documento della Fondazione Migrantes, che il Patto Italo Belga del 1946, che stabiliva uno scambio di mano d’opera contro carbone belga a buon mercato, non era il solo, bensì almeno altri tre accordi tra Italia e Francia e tra Italia e altri Paesi erano stati firmati tra il 1946 e il 1955.
Mi è venuto in mente ancora una volta quella citazione di Adelina Miranda che ho riportato all’inizio del libro Sud e ritorni: “Gli emigrati sono i grandi assenti negli studi sulla post modernità”. Ci penso ancora di più quando leggo del 60° anniversario dell’”ultima strage di emigrati italiani, dopo Marcinelle”, anche definita “una Marcinelle dimenticata”.
Era il 1965, il 30 agosto, alle ore 17,15, quando una valanga investì il cantiere per la costruzione della diga di Mattmark, in Svizzera, travolgendo, tra gli altri, 80 lavoratori italiani.
Tornando ai nostri giorni, proprio qualche giorno fa un mio amico avvocato si lamentava per la recente approvazione della legge che toglie il diritto di cittadinanza agli oriundi italiani (ius sanguinis), ne ho conosciuti diversi negli ultimi anni in Umbria: giovani argentini e brasiliani che hanno ottenuto la cittadinanza italiana in quanto nipoti di italiani emigrati più di cinquant’anni fa. Trovo traccia anche di questo nel Rapporto Italiani nel mondo, e anche un accenno al “mancato sviluppo” dello ius soli e allo ius scholae, “che penalizza la presenza di 900 mila bambini nelle scuole italiane”.
Un mio compaesano che ho incontrato pochi giorni fa a Pietraperzia, siccome non lo vedevo da tanti anni, alla domanda se lui abiti ancora in paese, mi ha risposto in modo quasi filosofico: “Abito in paese, ma iè cumu nun ci essiri”. Ho voluto leggere un significato profondo in questa sua quasi battuta, e in realtà penso spesso a tutto ciò, soprattutto quando sento qualcuno che ancora oggi si meraviglia o, peggio ancora, colpevolizza chi parte, i teorici della “restanza” con il sedere degli altri: partire o rimanere fisicamente, come tutte le esperienze, significa poco, se non c’è una consapevolezza, un’elaborazione.
Se rimani e sei passivo, pigro, senza stimoli per la realtà in cui vivi… forse meglio emigrare, se questo ti aiuta a uscire dal tuo guscio, dalle tue abitudini, lo diceva un parroco del mio paese qualche mese fa: “quelli che sono partiti sono spesso i più coraggiosi e quelli che sono rimasti sono tendenzialmente più passivi e poco intraprendenti”.
Al di là di questo aspetto che forse meriterebbe un ulteriore approfondimento (che magari si troverà fra le pagine del Rapporto della Fondazione Migrantes?), la cancellazione della memoria storica e collettiva è una delle più grandi ferite o traumi del nostro tempo, riprenderla in mano è un dovere e un impegno personale e collettivo! Perché la memoria dei popoli è anche “memoria di Dio”, come indica una sura del Corano: “Mortali, che i commerci e gli affari non vi facciano dimenticare la memoria di Dio” (Sura XXIV, tratta dal Libro della preghiera universale di Giovanni Vannucci).