Convertirsi a un popolo. Pasolini e gli arbëreshë
di Stefano Sodaro
Il 50° anniversario della morte di Pasolini e l’ordinazione del nuovo vescovo di Piana degli Albanesi ci parlano di un’eresia necessaria: l’unica salvezza sta nell’adesione a un corpo collettivo, non nella fuga solitaria dell’anima.
1. Due anniversari, una domanda
Sabato 8 novembre, a Lungro, la Chiesa italo-albanese ordinerà il suo nuovo vescovo eparchiale. Quest’oggi, domenica 2 novembre 2025, ricorre il 50° anniversario della morte di Pier Paolo Pasolini, ucciso da un mondo che non tollerava la sua eresia: l’idea che la salvezza non fosse nella modernità occidentale, ma in un orientamento — geografico, culturale, erotico — verso l’alterità.
Due eventi apparentemente distanti, eppure uniti da una domanda: cosa significa “convertirsi” oggi? L’unica conversione davvero possibile non è ad una fede individuale, ma ad un popolo, a una lingua, a un corpo che resiste.
Pasolini sapeva esattamente questo, ripetiamolo: la vera conversione non è un atto intimo, ma un tradimento collettivo. Tradire l’Occidente borghese per abbracciare il sottoproletariato romano; tradire la lingua italiana per il friulano o il dialetto; tradire la morale cattolica per il corpo dei ragazzi di vita.
Anche gli arbëreshë, con la loro liturgia bizantina e la loro lingua albanese, sono sopravvissuti perché hanno scelto di non assimilarsi, di mantenere la propria unicità erotica (nel senso più ampio: come desiderio di esistere altrimenti) dentro una comunità. Sopravvivenza non quale sinonimo di salvezza in extremis, ma in quanto segno di un poter vivere supra, al di là di convenzioni, costrizioni, codici e abitudini culturali che insegnano l’omologazione.
Io le sento ancora le oscene risate maschili di chi, persona perbene, professionista esemplare, padre di famiglia integerrimo, pensava di essere spiritoso apostrofando chi seguiva affettività altre: “Mica sarai anche tu un Pasolini?”. Le ho sentite con le mie orecchie di bambino di 7 anni simili sconce allusioni.
2. L’erotismo della comunità
Pasolini scriveva che il corpo è l’unico luogo in cui l’individuo e il popolo coincidono. L’orgasmo, come la preghiera in una chiesa bizantina – alla cui tradizione rituale appartiene l’universo arbëreshë e non si scandalizzi nessuno -, è un’esperienza soggettiva eppur ritualizzata, che sfida l’ordine costituito. Non è un caso che entrambe le esperienze — il piacere e la liturgia — siano state censurate dal nostro nobile Occidente, maestro di logica e razionalismo: perché rivelano che l’identità non è un dato, ma un atto.
Gli arbëreshë lo sanno: la loro attuale presenza, frutto di una secolare sopravvivenza, non dipende da un’idea astratta di “tradizione”, ma dalla pratica quotidiana di una lingua, di un rito, di un modo di stare al mondo.
Così per Pasolini: la sua “conversione” non avvenne verso Dio, ma verso i corpi — quelli dei contadini, dei ragazzi di borgata, dei popoli colonizzati. Convertirsi a un popolo significa accettare che la salvezza non stia nell’interiorità, ma nella carne condivisa.
3. La Chiesa arbëreshë e l’eresia pasoliniana
L’ordinazione del nuovo vescovo di Piana degli Albanesi non è un fatto solo religioso, bensì anche, se non soprattutto, di - chiamiamola così - etica politica. La Chiesa italo-albanese pare, sulle prime, un corpo estraneo dentro la Chiesa cattolica latina maggioritaria: usa il rito bizantino, parla albanese, ha preti sposati, conserva una memoria che l’Occidente ha cercato di cancellare. È, in questo senso, pasoliniana: una minoranza che resiste non per nostalgia, ma per desiderio.
Pasolini avrebbe amato questa Chiesa. Non semplicemente perché orientale, ma perché esempio lampante di un popolo che si è ostinato a esistere, anzi a resistere. Come i ragazzi di Accattone o le madri di Mamma Roma, gli arbëreshë sono sopravvissuti perché hanno scelto di non convertirsi all’omologazione. La loro è una conversione al contrario: non verso l’alto (Dio, lo spirito), ma verso il basso (la terra, la lingua, il corpo). E l’alto è così come rigenerato dal basso.
4. L’unica conversione possibile
Oggi, in un’epoca di individualismi esasperati e identità fluide, Pasolini e gli arbëreshë ci ricordano che l’unica conversione possibile è quella a un popolo. A rischio di annoiare, lo ripetiamo per la terza volta. Conversione non ad un’idea, non a un dogma, ma a un corpo collettivo che ci precede e ci sopravviverà. Un corpo che, come l’esperienza dell’orgasmo – non sembri blasfemo l’accostamento -, ci travolge e ci costringe a uscire da noi stessi.
La morte di Pasolini e l’ordinazione del vescovo arbëreshë sono due facce della stessa medaglia, assai pregiata: l’erotismo della comunità.
L’una ci parla di un intellettuale che ha scelto di bruciarsi pur di non tradire il suo popolo (quello dei poveri, dei dannati); l’altra di una Chiesa che ha scelto di resistere e così sopravvivere pur di non tradire la sua lingua, il suo rito, la sua storia, la sua gente.
Pasolini è morto perché ha osato dire che la salvezza non è nell’anima, ma nel corpo di un popolo. Gli arbëreshë sono vivi perché hanno praticato la parola artistica di chi venne assassinato. In un tempo di solitudini connesse ma incapaci di interagire, la loro è una lezione scandalosa: l’unica conversione che conta è quella che ci fa appartenere non a un’idea, ma a una carne. Non ad un individuo, ma ad un popolo. Quarta volta che lo scriviamo, anche basta. Epperò.
Pasolini – come disse Moravia – è stato assassinato perché era un poeta. Il potere, smascherato, odia gli artisti e, se può, li elimina volentieri.
Proviamo solo a focalizzarci su cosa sta accadendo proprio in questi giorni. Un fenomeno che ha le caratteristiche, esso sì, di una vera e propria blasfemìa. Si intesta la laudatio pasoliniana chi non ha speso una parola, una sola, sull’immane eccidio di Gaza. Sembra pazzesco, ben oltre il paradosso, eppure accade esattamente così.
Nonostante studi e ricerche, la testimonianza di Pier Paolo Pasolini rimane di inesauribile ricchezza, così come quella di chi si riconosce nelle Chiese Italo-Albanesi di Lungro e Piana.
Forse non è così noto che, nel corso di un convegno sulle relazioni tra la scuola e le minoranze linguistiche, svoltosi a Lecce proprio pochi giorni prima della sua morte violenta, nell’ottobre del 1975, Pasolini definì, nell’indifferenza generale, “un miracolo antropologico” la permanente presenza degli arbëreshë nel nostro Paese. Gli possiamo – con sommessa vergogna – dire “grazie” dopo cinquant’anni, per aver osato affermare ciò che nessuno sottolinea più.