«Scusa se ti ammazzo, ti tradisco, non ti voglio, ma ti amo»
di Stefano Sodaro
Locandina per il Festival di Woodstock del 1969 - immagine tratta da commons.wikimedia.org
È l’8 settembre.
Ottantuno anni fa più di tre milioni di soldati – tre milioni, “non so se mi spiego”, direbbe qualcuno – si trovarono a dover improvvisamente considerare amici i nemici di ieri e nemici gli alleati di ieri.
Certo, da un punto di vista strategico-politico, fu finalmente scelta “la parte giusta”, tanto che l’Italia si divise in due, con Mussolini che fondò la Repubblica Sociale Italiana continuando a considerare amica la Germania di Hitler.
Ma a quei tre milioni di soldati non bastò affatto il criptico proclama di Badoglio a chiarire il “perché” del repentino cambio di alleanze. Già, perché? Perché Hitler era un pazzo criminale genocidario e pericolosamente idolatrato da folle sterminate? Sarebbe bello – “bello” si fa per dire - poter rispondere “proprio per questo”, ma purtroppo la storia non offre soluzioni così semplici e non fu certo così spiegato all’Italia intera il motivo dell’armistizio. Badoglio parlò piuttosto, esplicitamente, della «impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria». Lotta, predominio, schiacciamento, avversario. Non sembrano “perché” che possano soddisfare.
Fermiamoci, dunque, un attimo.
Da questo quadrangolo della morte – lotta, predominio, schiacciamento, avversario - non siamo più usciti. La guerra contro Hitler fu vinta, ma i costi in vite umane di quell’immane distruzione e carneficina furono, sono, pressoché incalcolabili.
Veniamo a noi oggi. Anzi, no. Veniamo all’immediato Dopoguerra.
La Carta Costituzionale aborrisce uno spazio costruito su quei quattro lati simbolici di lotta, predominio, schiacciamento, avversario. Senza esitazioni protocollari o timori reverenziali: la nostra Costituzione è non-violenta.
Senza dubbio alcuno e senza che le previsioni, ad esempio, sul sacro dovere di difendere la Patria, di cui all’art. 52, o sulla delibera dello stato di guerra da parte del Parlamento, di cui all’art. 78, inficino tale sua caratteristica, che ne costituisce, anzi, l’essenza filosofica, ideale, prima ancora che istituzionale.
Chiediamoci: il Dopoguerra politico dell’Italia, nella sua articolazione partitica, continuò in tale convincimento, diffuse tale consapevolezza democratica?
Poniamo solo una domanda, nella convinzione che se siamo oggi, adesso, in una certa situazione – gli aggettivi si sprecherebbero – le spiegazioni ci sono, ma sembra non debbano essere pressoché mai approfondite o anche solo portate appena alla luce. Viviamo, ogni giorno, minuto, secondo, frazione di secondo, con il dogma dell’abolizione dei “perché”. (E l’uso della parola dogma è appositamente provocatorio.).
Oggi noi ci chiediamo stravolti, inorriditi, ammutoliti, come un ragazzo possa uccidere tutta la propria famiglia, o assassinare chi passa per strada senza averla mai conosciuta, ma davanti alla continuamente ribadita “assenza di movente”, cessiamo la ricerca. Come se l’assenza di movente – su un piano strettamente tecnico-giuridico - coincidesse con l’assenza di perché che invece interrogano le nostre vite.
La morte è l’esperienza più solitaria che possiamo immaginare, senza tuttavia poterle dare alcun contenuto, sì, ma – appunto – si muore da soli, in una solitudine che ci terrorizza solo a pensarci.
Sembra quasi che la medesima, inimmaginabile – altroché -, esperienza possa fagocitarci già prima di cessare di vivere fisicamente. Una solitudine assoluta, quella della morte, da infliggere alle altre, agli altri, divenute/i tutte e tutti nemici. Colpevoli e punibili con la pena di morte amministrata, eseguita, secondo arbitrio individuale.
Una morte interiore che devasta, annichilisce, deprime fino allo smarrimento di qualsiasi “perché” nello sforzo disperato di poter ricevere una luce, anche piccola, da feritoia appena, da pertugio, sulle nostre ragioni di vita, sul perché si debba vivere, sul perché si viva.
Purtroppo anche l’amore può essere intessuto di lotte, predomini, schiacciamenti, avversari da combattere. Può far paura, l’amore, nella misura in cui il suo proprio avere – che ogni “ti amo” postula, “tu sei mio, mia” – non riesce a coincidere con un essere. Eros non riesce a farsi quasi mai nonviolento, ad essenzializzarsi. L’orrenda espressione “possedere” purtroppo traduce ancora l’evento sessuale in molti contesti culturali ed anche nel linguaggio comune. Ma poi subentra la non meno truce retorica dell’ “appartenersi”, e grazie a Dio la liturgia matrimoniale cattolica ha, almeno, mutato l’espressione del consenso matrimoniale “io prendo te” in “io accolgo te”.
E c’è il tamburo battente verso il massimo crimine dell’infedeltà, ed il peana dell’apogeo della famiglia tradizionale, basata “sui veri valori”, salvo poi quasi far cadere un Governo, quando la predica di quella supposta massima e ammirevole e raccomandabile (forse addirittura obbligabile, nei voti di molti, come accadeva prima della dichiarazione di incostituzionalità – oh, a proposito! - del reato di adulterio) coerenza si infrange, con imbarazzi tellurici, nella presenza accanto al coniuge di chi suo coniuge non è. Apriti cielo. Non si sa più dove andare a sbattere la testa. Ne può andare di mezzo addirittura la sicurezza nazionale.
Lotta, predominio, schiacciamento, avversario. Anche se amo – e magari non si sa bene cosa o chi –, devo in ogni caso ingaggiare lotta dura senza paura e boia chi molla, devo vincere io, schiacciare ogni altro/a, sconfiggere l’avversario/a, spesso tale proprio dentro un presunto contesto amoroso.
Come se ne esce? Non è difficilissimo, ma abbiamo un’intera cultura contro.
Basterebbe, prima di tutto, continuare, sempre, in ogni occasione, opportune et importune, a chiedere il “perché” di tutto ciò che accade. Movente o non movente. “Perché?”.
Poi, basterebbe transitare dall’ideologia abbacinante – ed oggi dappertutto trionfante - dell’aut aut, dalle maglie di pensiero in forma binaria per cui o si è di qua o si è di là, o mi sei amico o mi sei nemico, o ti amo o ti odio, al diverso modulo di ragionamento, che è poi una vera e propria postura del pensiero, un “gesto filosofico”, come si dice, dell’et et. In cui la complessità dell’esistere non viene espunta, allontanata, ignorata con una divisa da indossare.
Solo che il primo atteggiamento contraddistinto da et et – invece che da aut aut - va assunto verso se stessi/e. E qui son dolori.
Noi scateniamo sovente una specie di 8 settembre dentro il nostro stesso io, senza chiederci perché. Siamo, quasi sempre, noi i più terribili nemici, benché un tempo alleati, di noi stessi/e. E la retorica omiletica cristiana dovrebbe rammentare che l’ammaestramento evangelico è, invece, quello di amare il prossimo tuo come te stesso. Inveramento, celebrazione, lode, gioia persino, dell’et et.
La cronaca ci prostra, ci lascia senza parole.
Però non sempre la risposta ad un “perché” è fatta di parole. Abbiamo gesti che spiegano. Che spiegano un inferno interiore o l’utopia di un amore senza esclusioni.
Sempre, però, più facile a dirsi che a farsi.
Ma almeno provarci, a cercare i gesti – e non quelli appariscenti delle cronache - che spieghino i perché, vorremmo proprio.
Buona domenica.