I camaleonti in Piazza Grande
Il 13-14-15 settembre ha avuto luogo il Festival della Filosofia, svoltosi nelle città di Modena, Carpi e Sassuolo. L’edizione del 2024 prevedeva installazioni, mostre spettacoli e 52 lezioni magistrali intorno al tema della psiche.
In particolare, ricordiamo l’intervento di Michela Marzano dal titolo: “Dimmi chi sono. Quando l’identità è una prestazione”. La filosofa è una comunicatrice appassionata, in grado di trasmettere forti emozioni e sollecitare in profondità il pubblico, unendo al rigore concettuale, la forza espressiva: in una società che si fonda sulle aspettative, Michela ha il coraggio di coinvolgere nell’ orazione debolezze e vulnerabilità.
La sua parola è risuonata in un setting estremamente suggestivo; eravamo nel cuore storico della città di Modena, nella meravigliosa Piazza Grande, dichiarata patrimonio dell’Umanità dell’Unesco: ad imporsi sulla scena è il Duomo, un capolavoro romanico, dai colori che variano dal bianco grigiastro della facciata, al rosso e mattone della torre campanaria, nota come Ghirlandina, il cui nome è tratto dalle eleganti balaustre che coronano la cima, delle quali si dice essere “leggiadre come ghirlande”.
La lectio magistrale ha preso abbrivio dalla fiaba “il camaleonte variopinto” - specie di camaleonte nota per la sua capacità di cambiare colore -, nella quale Eric Carle racconta la vicenda di un camaleonte che un giorno entra in uno zoo.
Ma un giorno il camaleonte entrò in uno zoo! Non aveva mai visto tutti quei
bellissimi animali. Così penso: Come sono piccolo, lento e debole!
Vorrei essere bianco e grande come un orso polare.
E immediatamente il desiderio del camaleonte si avverò!
Dinnanzi alla varietà di animali, il camaleonte inizia a desiderare di essere prima un orso polare, poi un fenicottero, poi una volpe, ancora pesce e così via. Il protagonista della fiaba si scopre animato da un avvicendarsi di desideri, che lo portano a diventare un po’ di questo e un po’ di quello.
Così come il camaleonte, l’io di oggi è frammentato e sopraffatto dall’infinità di forme possibili. In questa complessità l’individuo non è in grado di rispondere alla domanda: chi sono io? Cosa desidero realmente?
John Locke, nel “Saggio sull’intelletto umano”, esplora tale questione, arrivando a fondare l’identità su una composizione di tre elementi: autocoscienza, memoria e responsabilità. Mediante l’autocoscienza il soggetto è in grado di riconoscersi lo stesso individuo che ha compiuto un’azione passata, nonostante i cambiamenti del tempo, congiungendo, così, il passato e il presente.
Con l’avvento della postmodernità, tuttavia, l’identità si sbriciola e i contorni della domanda “chi sono io?” sfuggono. Più i confini della quaestio divengono labili, più, sottolinea Michela Marzano, le relazioni esterne entrano “a gamba tese”.
Dinnanzi ad una società che impone aspettative e prestazioni, l’individuo si sente sempre più inadeguato, fluido, incapace di rientrare in una definizione rigida di normalità.
E in questa confusione, l’uomo finisce per chiedere al mondo esterno di determinarlo: dinnanzi all’impossibilità di definirsi in confini chiari e distinti, il soggetto riesce appena a balbettare.
Cosa sono io? Io che sento di non essere né questo né quello, io che non sono in grado di rispondere alle aspettative e rientrare in modelli binari: cosa desidero realmente?
Tuttavia, in questo libero fluire di parole, qualcosa accade. Il cielo inizia a calare verso l’orizzonte e le nuvole riflettono le sfumature dorate, arancioni e rosa del tramonto. La gente, che ascolta sotto il soffitto del firmamento, lentamente si trasforma: la superficie del corpo si scopre di una strana trama rugosa e irregolare e assume il tono nero brillante e saturo, come il colore della sedia su cui la platea siede. La visione si fa acuta, la lingua diventa una struttura muscolare lunga e rapida. Siamo dinnanzi ad una metamorfosi surreale e affascinante. Tutti gli spettatori divengono lentamente dei camaleonti.
La parola ha una forza perfomativa straordinaria: nella società della performance, la voce filosofica con la sua forza parenetica fa emergere la debolezza, la vulnerabilità, la fluidità come strutturali. E, animati dalla forza di questa parola, i poveri camaleonti possono imparare ad accogliersi così come sono, nella loro fluidità, scoprendo che ad essere insufficienti non sono loro, ma il modello troppo rigido e binario di normalità in cui cercano di inserirsi.