I
di Stefano Sodaro
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L’ammonimento che non perdona
Nel Vangelo di Luca (14,26), Gesù pronuncia parole che suonano come un pugno nello stomaco.
Merita riportarle in greco e in latino, si leggono oggi (in italiano) in tutte le chiese cattoliche di rito romano:
«Εἴ τις ἔρχεται πρὸς με καὶ οὐ μισεῖ [...] τὴν γυναῖκα [...] οὐ δύναται εἶναί μου μαθητής.» «Si quis venit ad me [...] et non odit [...] uxorem [...] non potest meus esse discipulus.»
Traduzione essenziale: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami la moglie, non può essere mio discepolo.»
Non c’è sfumatura che attutisca il colpo. Non si tratta di un invito alla moderazione, ma di una cesura radicale: l’amore per Cristo deve essere così totale da rendere ogni altro amore — persino quello coniugale — relativo. Eppure, per «odiare» la moglie, bisogna prima averla. È un paradosso che interroga non solo i teologi (e soprattutto i canonisti...), ma ogni uomo e ogni donna che si trovi a scegliere tra vocazione e affetti.
Il familismo e la sequela: apostoli, preti, vescovi
Gli apostoli — tranne forse Giovanni — erano tutti sposati Lo sapevamo? Forse no, chissà. Pietro aveva una suocera (Mc 1,30). Eppure, quando Gesù li chiamò, lasciarono tutto. Non rinnegarono le famiglie, ma le superarono. Non è un caso che la tradizione orientale, sia cattolica che ortodossa, abbia mantenuto la prassi di ordinare uomini sposati al presbiterato. A Lungro e a Piana degli Albanesi, le Eparchie italo-albanesi di rito bizantino, i preti sposati sono una realtà consolidata. Non sono eccezioni, ma testimoni di una sintesi possibile tra amore umano e sequela. Potremmo anche dire: tra un matrimonio ed un altro.
E poi ci sono i vescovi. Il nuovo vescovo di Piana degli Albanesi, mons. De Santis, è uno ieromonaco, così come ogni vescovo orientale: cioè non è sposato, è un – letteralmente – “monaco sacro”, cioè “monaco prete”, e tuttavia non per una condanna del matrimonio, bensì per una scelta di fecondità spirituale diversa. Qui sta il genio del sistema orientale: il vescovo celibe e il prete sposato non sono in contraddizione, ma in dialogo. Entrambi vivono, a modo loro, la stessa parola evangelica: mettersi in condizione di «odiare» — cioè di non assolutizzare — ogni legame, persino il più sacro.
Cristina a Trieste: dall’ossessione al telefono
Cristina è un nome che può diventare un’ossessione, quale declinazione femminile del nome di Cristo, (almeno in italiano; in tedesco si può usare senza problemi “Christa” e in spagnolo “Jesusa”, da noi no, nessuno dei due, ahinoi). Cristina come proiezione intellettuale, quasi una Cristo-donna da studiare, analizzare, dissotterrare per scoprire che, invece, è Risorta. Ma Cristina è anche — e soprattutto — una donna reale, con un numero di telefono, una carta d’identità, una vita a Trieste. Una donna che ti chiama la domenica per chiederti se passi a pranzo, che ti ricorda che la fede non è solo nei libri, ma anche nel pane spezzato a tavola.
Il qui scrivente, che ha studiato - ormai da una vita, ahilui - l’ordinazione degli uomini sposati nelle Chiese orientali, si trova spesso a riflettere su questa tensione. La parola di Luca 14,26 non è un invito a disprezzare la famiglia, ma a non farne un idolo. Ed il familismo cattolico, soprattutto di derivazione clericale, va radicalmente in crisi. Erede, in ciò, del paganesimo – ma è bella eredità, beninteso –, quel cattolicesimo sociologico di maggioranza corre costantemente il rischio di idolatrare un po’ tutto: i Santi, la Madonna, il Papa. Cristina — quella vera, a Trieste — diventa da oggi il monito quotidiano del direttore di Rodafà: gli ricorda che l’amore per Cristo non si misura nella rinuncia astratta, ma nella capacità di amare senza possedere, di seguire senza fuggire, di amare moltiplicando, di transitare dall’aut aut all’et et.
L’Arbëria come laboratorio di libertà
L’Eparchia di Piana degli Albanesi, con i suoi preti sposati e il suo vescovo ieromonaco, è un segno profetico. Mostra che la Chiesa non è un monolite, ma un corpo vivo, capace di accogliere diversità di carismi. Mostra che la sequela di Cristo non distrugge i legami umani, ma li purifica da ogni assolutizzazione. Anche quella che il moralismo raccomanderebbe, senza dirlo così.
È notizia di oggi - lo si può apprendere dalle foto pubblicate qui - che sabato 8 novembre papàs Raffaele De Santis diventerà sacramentalmente vescovo, nella Cattedrale di Lungro, per poi entrare a Piana la domenica 16 successiva. Lo scrive alla sua stessa diocesi – “alla sua sposa” direbbe la mistica ecclesiologica – proprio il Vescovo eletto
Forse, allora, le domeniche con Cristina — a Trieste o in Arbëria — sono l’unico modo per non tradire né il Vangelo né la vita. Per ricordarci che l’amore, quello vero, non è mai una prigione, ma sempre una chiamata. Che non si esaurisce mai.