L’amante, il re e la beata
di Stefano Sodaro
Strange angels - disegno di Rodafà Sosteno
Tra il gesto privato e il rito pubblico, tra l’amore nascosto e la preghiera condivisa, si apre uno spazio nuovo nella cultura contemporanea: quello della liturgia dell’imperfezione. In altro editoriale di questa stessa domenica si è riflettuto su una tendenza emergente — quella di invitare l’amante al proprio matrimonio — non come provocazione, ma come gesto rituale di verità affettiva.
E si è provato anche a dire che la Beata Colomba da Rieti, misteriosa interlocutrice di niente che poco di meno che Papa Alessandro VI, amante di Giulia Farnese, si è per così dire mutata, riattualizzata, trasformata oggi nella mitezza del Papa Leone XIV – nel 2025, a 530 anni di distanza dall’evento di Colomba nella Cattedrale di Perugia – ed è adesso il Potere Assoluto, non solo spirituale, quello del Re appunto, ad avere raggiunto il Mite, il “Beato Pietro”, nella sua propria chiesa, dov’è stato eletto, la Cappella Sistina.
Ebbene, il 23 ottobre, nella Cappella Sistina, Re Carlo III ha pregato accanto a Camilla, già amante e oggi regina, insieme a Papa Leone XIV e al decano anglicano Christopher Prevost. Due eventi apparentemente non correlati ed invece, almeno a parere di chi qui scrive, uniti da un filo simbolico potente.
Nel primo caso, l’amante non è più figura clandestina, ma presenza rituale che testimonia la complessità dell’amore umano. Il matrimonio, in questa visione, non celebra la perfezione, ma l’accoglienza delle relazioni plurali. È un rito che non nasconde, ma espone; non idealizza, ma riconosce.
Nel secondo caso, la Sistina diventa teatro di una memoria rovesciata. Camilla, come Giulia Farnese accanto ad Alessandro VI, porta con sé la memoria di un amore extraconiugale divenuto regale. Che oggi, però, non è più scandalo, bensì parabola. La liturgia dell’imperfezione si compie anche nei corpi che hanno amato fuori dai confini del sacramento. La grazia, come l’amore, non si lascia imprigionare.
A rendere il gesto ancora più simbolico è la coincidenza dei cognomi: Leone XIV è nato Prevost, esattamente così come il decano anglicano che ha guidato la liturgia. Non sono parenti, ma la condivisione del nome — praepositus, “colui che è posto a capo” — sembra evocare una convergenza spirituale. Due capi, due guide, due servitori della preghiera, uno cattolico e uno anglicano, uniti nella fragilità del mondo.
Così, tra l’amante che partecipa alle nozze e la regina che prega nella Sistina, si disegna una teologia dell’imperfezione. Una teologia che non condanna, ma accoglie. Che non separa, ma riconcilia. Che non teme la verità affettiva, ma la celebra come spazio di grazia.
L’amante, il re e la beata: tre figure che abitano il confine tra eros e liturgia, tra storia e profezia. E che ci ricordano che Dio non ama i perfetti, ma chi si lascia amare nella verità del proprio cammino.