Alessandro De Pascale, Guerra e droga, Castelvecchi 2017
Recensione di
Angelo Maddalena
Dalla guerra in Siria (dove i jhiadisti dell’Isis usano il Captagon) e poi a ritroso risalire ai soldati nazisti del Terzo Reich, con in comune le anfetamine e le metanfetamine per disumanizzarsi il più possibile, per poi tornare all’oggi: Iraq, Afghanistan e altre “missioni” di guerra umanitaria: la morale è sempre quella, ma non fai merenda con girella, semmai con oppio e eroina, distribuita ai militari per renderli sempre più “coraggiosi e resistenti”. Ogni cercatore di senso dovrebbe leggere questo libro, anche o forse soprattutto i cristiani e cattolici, per vedere cosa c’è dietro il mondo in cui viviamo: Guerra e droga! Don Tonino Bello era uno di quei cristiani che seguiva questo tipo di ricerca, tanto da andare a Sarajevo, nel 1992, insieme ad altri “500 folli”, per fermare le bombe con i loro corpi, “corpi di pace”; Sarajevo è citata in questo “manuale di storia del mondo attraverso l’intreccio di guerra e droga”, così come è citato l’uranio impoverito che don Tonino citava, da buon “indagatore dell’incubo”, e non ci riferiamo a Dylan Dog, ma all’incubo del nostro tempo e forse di tutti i tempi, che rimane incubo fin quando rimane sepolto e nascosto, il contrario di quello che fa Alessandro De Pascale, da buon inviato di guerra (il libro inizia da un suo incontro a Kobane, nel 2015, con un prigioniero di guerra dell’ISIS che gli racconta la droga che usavano per diventare più feroci e fanatici: il Captagon) e giornalista di inchiesta della scuola di Andrea Purgatori (di cui era amico e collaboratore). “La droga e la mafia tengono in piedi il mondo”, avevo detto meno di dieci anni fa, quasi per gioco, a un amico, passando davanti un bar di Ventimiglia alta, e lui aveva aggiunto: “E i bar di Ventimiglia”. Era un modo giocoso, per un ingenuo come me, di prendere atto, all’età di 40 anni inoltrati, di elementi che stanno alla radice di molte nostre realtà senza che noi ci pensiamo o ci impegniamo per scavare e scoprire le radici. Dicevo cristiano pensando al senso di colpa che spesso tanti noi cresciuti in ambienti cattolici impariamo a subire o a gestire (conosco cattolici che sanno giocare e gestire il senso di colpa molto meglio di chi si reputa agnostico o ateo o anticlericale!) Ventimiglia come altrove, forse meno di altri luoghi “insospettabili”. Perugia per esempio, dove ho abitato per alcuni anni e dove ho incontrato meno di un mese fa due ragazzi di vent’anni che parlavano di “bamba” e di “ketcha” (nome in codice per la ketamina) come fossero caramelle. E quando ho detto che stavo leggendo il libro Guerra e droga in cui si parla anche del crack, uno di loro mi ha subito “informato”: «Sì, il crack è la bamba bollita». La bamba, per chi non lo sapesse, è la cocaina. Sia per la diffusione della bamba e di altre sostanze psicotrope alteranti, a Perugia come altrove, sia per aiutare i nostri sensi di colpa per evitare che portino alla criminalizzazione o alla stigmatizzazione di chi usa certe sostanze, il libro di Alessandro De Pascale è un balsamo che cura le ferite della superficialità e dell’ipocrisia (o malafede) che vanno a braccetto con la colpevolizzazione e la criminalizzazione e, di conseguenza, con la repressione. Guerra e droga è un libro avvincente perché non parla solo di guerra e di droga, ma di una serie di addentellati tra multinazionali chimicofarmaceutiche tedesche e americane, alleate nel periodo della Seconda guerra mondiale e anche da prima. Alcuni dati presenti nel libro hanno qualcosa di comico, anche se involontariamente: la Coca Cola, per esempio, fu inventata da un farmacista che all’inizio utilizzava foglie di coca per produrre la famosa bevanda che porta nel nome stesso l’ingrediente utilizzato, Poi per non perdere capacità di vendita, la cocaina è stata sostituita con la caffeina. L’eroina invece era molto diffusa e utilizzata, fino alla metà del 1800, per varie sintomatologie, anche per il mal di testa. Addirittura, negli Stati Uniti veniva data ai bambini come cura per la masturbazione, a quei tempi considerata una malattia. Per rimanere alla Siria e al Captagon, questa droga “unisce” i soldati governativi (di Bashar al Assad) con i cosiddetti “ribelli” dell’Esercito libero siriano, ma quel che è peggio è l’andazzo nascosto, il sottobosco che è anche uno degli effetti collaterali di cui si parla meno: la diffusione delle droghe utilizzate dai militari che poi si diffondono tra i civili, come dice uno psichiatra siriano nel 2013: “Le pillole di Captagon sono state sempre usate ma dopo la rivoluzione sono diventate il loro maggior compagno, anche tra i civili, a causa delle pressioni psicologiche ed economiche cui sono sottoposti”. Stessa cosa è successo con la guerra in Vietnam, dove l’oppio a buon prezzo veniva acquistato e consumato dai soldati americani e poi fatto arrivare in America e in Europa a guerra finita o anche durante la guerra nei viaggi di congedo militare e con altri stratagemmi. La frase “la droga e la mafia sostengono il mondo” è confermata dalle bande criminali corse che si alleano con i governi del Vietnam e di altri attori dei teatri di guerra asiatici del secolo scorso e importano oppio in Europa passando dal porto di Marsiglia. Ma attenzione: questo libro non è forse molto conosciuto anche perché non si ferma alle responsabilità dei criminali e dei malavitosi, rischiando la deriva di libri come Gomorra di Saviano, no perché in questo libro troviamo nomi e riferimenti di governanti e di multinazionali, della CIA e di altre “agenzie” di servizi che rinforzano le organizzazioni criminali, collaborando segretamente per far sì che il traffico non si fermi. Interessante, a questo proposito, il racconto del traffico di oppio che si sviluppa in Afghanistan e che arriva in molti paesi occidentali, e che aumenta di gran lunga dopo la “missione” iniziata nel 2001: il fallimento di quella missione si misura anche con l’aumento vertiginoso di oppio tra gli afghani oltre che in altre mille località del mondo occidentale. Ci sono pagine in cui ciò viene descritto con dovizia di particolari. Alle pagg. 354 e 355 sono riportate testimonianze significative al riguardo: a fronte dell’aumento allarmante e vertiginoso di piantagioni di oppio in Afghanistan, iniziano campagne di eradicazione delle piantagioni, ma lo stesso comando Nato ammette che alla base della difficoltà di eradicare le piante non ci sono solo motivi di possibili danni alle persone, bensì anche altre motivazioni, chiarite in un comunicato radio del comando della missione Nato, rivolto alla popolazione della provincia dove si produce buona parte di oppio: «Stimato popolo dell’Helmand, i soldati dell’Isaf non distruggono i campi di papavero perché sanno che molti in Afghanistan non hanno alternative alla coltivazione del papavero». Nel 2010 l’assistente strategico del generale americano Stanley McCrhystal dirà la stessa identica cosa ai contadini del distretto di Majrah: «Non distruggeremo le piantagioni di papavero, perché non possiamo colpire la fonte di sussistenza della popolazione di cui vogliamo conquistare la fiducia». Che è come dire: la droga deve tenere in piedi il mondo, con tutti i suoi addentellati, conseguenze sulle persone, conseguenze psicologiche e fisiche, tutto ciò parte da un sistema militare, quello che qualcuno chiama l’industria bellica, che si fa propagatore e promotore della circolazione di molti tipi di sostanze alteranti e a lungo termine nocive all’organismo umano e sociale. Le parti delicate del libro sono quelle che riguardano la complicità e l’omertà di molti responsabili delle forze armate circa tutto questo sottobosco da incubo, ma di contro ci sono testimonianze di militari che hanno tentato di scoperchiare tutto questo apparato criminale e “ufficiale” anche se occultato. Qualcuno di questi ha pagato con la vita, altri no. Interessante la testimonianza del giornalista di inchiesta di cui si accenna proprio all’inizio nel libro, nella citazione in esergo, il giornalista si chiama Gary Webb, autore dal 1996 di una serie di inchieste nelle quali ha accusato la Cia e il governo USA di aver finanziato illecitamente una sua guerra segreta in Centro America attraverso un colossale traffico di cocaina che invase le strade delle città statunitensi negli anni Ottanta. Un’altra sostanza chiave di questo libro monumentale è il Pervitin, prodotto dalla casa farmaceutica Temmler “che affida la campagna pubblicitaria del Pervitin alla stessa agenzia che allora si occupava di quella della Coca-Cola”. L’aspetto interessante di questo volume di De Pascale è uno sguardo integrale che ci fa assumere l’autore, e cioè la complicità e la connivenza di tanti “responsabili”: militari, medici, gruppi farmaceutici, politici, per spiegare che le radici sono profonde e le responsabilità delle istituzioni sono radicate e diffuse. Ma il libro non si ferma alla denuncia e allo smascheramento, va oltre e ci chiama a una responsabilità a confidare nelle nostre possibilità di costruire dal basso un immaginario e un mondo più umano e più responsabile. Non è un caso che sia all’inizio che alla fine si parla di proposte già attuate in molti Paesi (anche in Italia) di gestire in modo umano, appunto, tutte le radici della diffusione delle dipendenze e le sue conseguenze profonde. Per esempio, nella postfazione, in una nota, è specificato che la legge italiana sulla droga, la Fini Giovanardi, è la più repressiva d’Europa, ed è stata voluta anche per le pressioni di don Gelmini e di Muccioli che hanno sempre stigmatizzato le politiche della riduzione del danno e del metadone. Spesso torna a ricordarci, De Pascale, i danni enormi di sostanze alteranti legalizzate rispetto a quelle “illegali”: «I decessi per droga ammontano a 500 000 l’anno, nel mondo, contro l’ecatombe causata da tabacco (6 mlioni) e alcool (3 milioni), secondo l’organizzazione Mondiale della Sanità». L’ultimo capitolo, dal titolo “Forze armate vs. Psichiatria”, è un suggello doveroso e una ciliegina sulla torta che completa un panorama inquietante e spaventoso, fino a quando rimarrà segreto. Gunter Anders, già negli anni Quaranta dello scorso secolo, aveva avvertito che il nazismo era stata una prova generale e teatrale di quello che in seguito sarebbe successo in modo molto più sotterraneo e subcutaneo. Nel capitolo finale di Guerra e droga, c’è la testimonianza di John Rawlings Rees, psichiatra britannico e brigadiere generale durante la Seconda guerra mondiale. Nel 1940 Rees aveva redatto un documento per un convegno annuale di psichiatria, dal titolo Piano strategico per la salute mentale. Rees scrive senza mezzi termini, in merito alla psichiatria: «Dobbiamo puntare a farle permeare ogni attività didattica nella nostra vita nazionale: l’istruzione […] la vita pubblica, la politica e l’industria dovrebbero tutte ricadere sotto la nostra sfera di influenza […] nel farlo credo che dovremmo imitare il totalitarismo e organizzare il nostro lavoro come una sorta di quinta colonna! […] Ognuno di noi è portatore di una grande responsabilità riguardo alla salute mentale della nazione, sia ora, durante la guerra, che nel futuro, di gran lunga migliore che verrà”. Negli ultimi trent’anni si registrano enormi danni permanenti o anche decessi di militari provocati da psicofarmaci utilizzati per “curare” la sindrome post traumatica diffusa sempre di più presso i militari di stanza in Afghanistan e in Iraq. A pag. 391 c’è scritto: “Nell’ambiente militare, come vedremo, si somministrano psicofarmaci ai soldati per usi che non sono mai stati né oggetto di ricerca né approvati dagli enti di vigilanza”. Come all’inizio del XX secolo il mondo occidentale si è trovato di fronte alla scelta tra la bicicletta e l’automobile di massa che poi è stata imposta stabilendo la dittatura dell’automobile, definita da Colin Ward “l’invenzione più disastrosa della razza umana” (anche questa una dittatura subcutanea), così la psichiatrizzazione non è l’unica possibilità, come viene spiegato nelle ultime pagine del libro. Un fattore importante da non dimenticare, suggerito da Erich Fromm e Pasolini e da tanti altri poco “documentati”, è il consumismo che ha comportato la trasformazione delle droghe che all’inizio erano usate come farmaci e che il consumo spasmodico contribuisce a renderli nocivi e distruttivi: non posso dimenticare che l’unica volta che sono andato a sbattere con l’automobile di mio padre contro un muro (2001) avevo mangiato molta nutella, nessuno dirà mai che il cacao è una droga, eppure la teobromina è citata fra i principi attivi eccitanti al punto che la stessa parola vuol dire pianta divina. Dal 2002 ho smesso di utilizzare l’automobile in forma privata e ho deciso di non rinnovare la patente, per liberarmi da quella potenziale “arma impropria”. Fino a un po' di anni prima giocavo a calcio in modo così spasmodico che la schiena ha iniziato a farmi male, ho smesso anche di usare quella “droga”, ogni tanto gioco per strada con i bambini, anche solo a palleggiare, e mi riprendo dieci anni di vita, in pochi minuti, una cosa simile la dice Andrea Rivera in una sua canzone.