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Il nuovo Vescovo di Trieste mons. Enrico Trevisi al termine della prima Celebrazione Eucaristica da lui presieduta nella Cattedrale di San Giusto domenica 23 aprile 202 - foto per gentile concessione della Diocesi di Trieste


Vita nuova

di Stefano Sodaro



Solo da una settimana a Trieste sono apparsi ecclesialmente (e dunque, di necessità, molto lentamente), dopo tredici anni, “cieli nuovi e terre nuove”.

La successione episcopale nella diocesi giuliana stimola progetti, sogni, prospettive, disegna orizzonti di impegno.

Questa domenica è denominata, nel calendario liturgico romano, “Domenica del Buon Pastore” ed è dedicata tradizionalmente alle vocazioni.

Il nostro giornale, così, si permette di provare a delineare un possibile itinerario di rinnovamento anche dello stesso ministero presbiterale, partendo dalla messa in discussione propriamente giuridica – o “canonistica”, diciamo meglio - di un presupposto che sembra insuperabile e imprescindibile, vale a dire la necessaria unione del sacramento dell’Ordine con lo stato clericale. 

Com’è noto, lo stato clericale può essere “perduto” – sempre in termini canonici -, per dispensa dalla Santa Sede, od anche per irrogazione di una corrispondente sanzione (la “riduzione allo stato laicale” del passato; il Codex del 1983 usa invece la ben diversa espressione di “perdita dello stato clericale”, giacché non vi è nulla di riduttivo, come insegna il Vaticano II, nell’essere laici e laiche), attestando così l’effettiva possibile scissione tra la ricezione di un sacramento, che mai può venir meno, ed una condizione giuridica, una forma di vita, che invece può cessare. 

Crediamo che qui vi sia un passaggio fondamentale per l’ecclesiologia dei nostri giorni. In termini un po’ grossolani, potremmo sintetizzare questa descrizione con parole del tipo: laici che ricevano il presbiterato, senza cessare di restare laici. È possibile?

La risposta immediata sarebbe ovviamente: no! Bello tondo e risonante. Eppure.

Iniziamo da un tema già proposto in altre occasioni: il passaggio canonico di rito dal rito latino ad uno dei riti orientali (cattolici), che il diritto canonico rende possibile. Tali riti sono: il rito alessandrino, il rito antiocheno o siro-occidentale, il rito armeno, il rito bizantino, il rito caldeo o siro-orientale. Cinque riti orientali, abbastanza poco conosciuti nelle nostre realtà locali, se non proprio del tutto misteriosi e mai sentiti. Il passaggio dal rito latino ad uno di questi riti orientali consente ad un uomo sposato di ricevere il presbiterato secondo le tradizioni dell’Oriente Cristiano. Ci risulta che non venga infatti più apposta la condizione “excepta sacrorum ordinum receptione” che, sino a prima dell’avvento di Francesco papa, impediva l’ordinazione presbiterale a chi fosse legittimamente transitato ad uno dei riti orientali, così vanificando la pienezza d’efficacia canonica che un simile passaggio avrebbe invece dovuto necessariamente comportare.

Ma vi è dell’altro.

Nel 2021 la (ex) Congregazione – attuale Dicastero – per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica pubblicò un documento, di cui si è parlato pochissimo, avente ad oggetto “La forma di vita eremitica nella Chiesa particolare – Orientamenti” ed intitolato Ponam in deserto viam (Is 43, 19), che, prevedendo al suo numero 27 la possibilità di «c) fedeli (chierici/laici), che conducono la vita eremitica senza professare i consigli evangelici», specifica al numero 40: «Nel caso dell’eremita presbitero, l’esercizio pastorale del ministero sacerdotale deve essere occasionale e non prevalente; per tale ragione anche il Vescovo s’impegna a tutelare la peculiare vocazione dell’eremita e a non considerarlo a piena disposizione delle esigenze pastorali della Chiesa locale.».

Riflettiamo un momento e chiediamoci: al di là dei diaconi permanenti sposati, vi sono state storicamente figure di preti che abbiano condotto una vita ordinaria, quasi nascosta, non parlando esplicitamente della propria condizione neppure con segni diversi dalle sole parole? Sì, ci sono state. 

Si tratta dell’esperienza dei “preti operai”, su cui varrebbe la pena – proprio anche in questa domenica vocazionale – sviluppare qualche pensiero più profondo della mera registrazione cronachistica di fatti riconducibili a tempi tutto sommato abbastanza lontani.  

Le domande possono proseguire: cosa accadrebbe se un nuovo eremitismo presbiterale – magari dopo un passaggio ad uno dei riti orientali – si sviluppasse non tanto in luoghi lontani e solitari ma dentro il contesto di una normale professione, operaia, impiegatizia, da libero professionista?

Le cose però non si fermano qui, perché – è universalmente risaputo – sul ministero ordinato cattolico grava comunque il divieto assoluto di accesso per le donne.

I pensieri allora diventano più decisamente teologici e vanno un po’ lontano. Proprio in questo mese di maggio verrà presentato alla Santa Sede, da parte della Conferenza Episcopale Messicana, un progetto di integrazione del Messale Romano (dunque niente di orientale…) con elementi della cultura indigena, nello specifico della cultura maya. Abbiamo provato a dire già qualcosa qui.

Il progetto si intitola ufficialmente “Adaptaciones al Ordinario de la Misa entre los Pueblos Indígenas de la Diócesis de San Cristóbal de las Casas, Chiapas”. Ed esordisce con una premessa che non teme la parresìa più trasparente: «La Diócesis de San Cristóbal de Las Casas había sido disciplinada bajo el pontificado de Benedicto XVI por haber introducido un nuevo diaconado permanente casado indígena en el que las esposas de los diáconos casados ​​estaban incluidas en el ministerio, dando así esperanzas de un sacerdocio casado. Roma incluso ordenó en 2005 al entonces obispo Arizmendi que detuviera tales ordenaciones. Sin embargo, muy rápidamente después de la elección del Papa Francisco al trono papal, esta situación se revirtió por completo, y el Papa está alentando activamente la “inculturación” litúrgica que se persigue en el sur de México.»

Ma il documento, soprattutto – è ciò che vorremmo evidenziare -, presenta figure ministeriali inedite per la nostra sensibilità: «Después del saludo inicial, la persona que preside la celebración [el sacerdote] invita al director, hombre o mujer, a exhortar a la comunidad a abrir el corazón y expresar sus intenciones en voz alta a Dios Padre.». L’evidenziazione in neretto è nostra.

Chi sarebbe questo “director, hombre o mujer”? Sempre il medesimo documento spiega: «Los principales o ancianos, representantes de la comunidad eclesial indígena, son agentes de formación muy importantes. Acompañarán con su consejo, experiencia y sabiduría al Diácono Permanente Indígena y su esposa, asegurando su firme arraigo en la comunidad, según su cultura.» Anche in tal caso la evidenziazione in neretto della parola “ancianos” ci consente di argomentare – sta qui il rilievo teologico – che costoro nel greco teostamentario facilmente verrebbero tradotti semplicemente come “presbìteroi”, niente poco di meno. Ed è come se dunque si designassero – chiediamo scusa se ora abbandoniamo il rigore terminologico della teologia – “preti di fatto”, che, fra l’altro, avrebbero un rapporto diretto non con i preti ordinati ma con il “Diácono Permanente Indígena y su esposa”.

Alle nostre latitudini non abbiamo certo una cultura india che solleciti simili sviluppi ecclesiologici, ma l’istanza dell’inculturazione – anche nella Trieste del maggio 2023, che domani, 1° maggio, celebra i cento anni dalla pubblicazione de La coscienza di Zeno di Italo Svevo (quanto di più distante dall’estroversione latinoamericana) -, quell’istanza di inculturazione, appunto, permane fortissima e abbastanza inascoltata, pur dentro il nostro specifico contesto, laico, introspettivo, mercantile, multiculturale.

Bene. Che fare, dunque? Come muoversi?

Oggi, proprio in questa domenica, vorremmo indicare le potenzialità di un testo di straordinaria bellezza, che il sottoscritto direttore ebbe la fortuna di vedere rappresentato a teatro anni fa. S’intitola La fabbrica dei preti, autrice Giuliana Musso (Edizioni Scalpendi 2021). 

A pag. 13, sono elencati i personaggi - Paolo, Giovanni, Ernesto – e l’autrice specifica: «Il testo è un monologo. Tutte le parti saranno interpretate dalla stessa attrice o attore.» Altro nostro neretto.

Noi l’attrice ce l’avremmo – non ne sveliamo il nome, ma non è molto difficile individuarla -.

Domanda. Ancora. Vediamo se dalla possibile, eventuale, messa in scena di questo testo teatrale – sono 40 pagine -, possa fiorire una indagine, una ricerca di nuovi panorami di senso per i quali spendere la vita? Mettiamo un punto interrogativo, aperti a riscontri di qualunque nostra lettrice o nostro lettore (la mail è ilgiornaledirodafa@virgilio.it).

Scrive Giuliana Musso, a p. 9: «Poi crescendo in una comunità cattolica scoprii altre falle del sistema, qualcosa che non sapevo bene decifrare ancora, che aveva a che fare con l’affettività e con i corpi, ma che mi fece fare altri balzi indietro (si tratta di fatti molto delicati per le persone coinvolte e non ve li voglio raccontare). Così, alle porte dell’adolescenza, smisi di chiedere perdono a Gesù e m’incamminai nel mondo da sola con tutta la mia indegnità. Tutto questo non l’ho mai raccontato e non lo feci neppure quel giorno davanti ai preti che mi ascoltavano nella grande sala austera. Quel giorno con loro ragionavo su come la nostra educazione abbia operato per sottomettere il sentire al pensiero, per separare le emozioni dalle ragioni, il corpo dall’anima e di come il linguaggio del teatro possa ricucire lo strappo, dare centralità all’esperienza vissuta nel corpo e nei sentimenti.»

Possiamo almeno sognare di provare a realizzare tale monologo teatrale? Forse i mezzi da mettere a disposizione non sarebbero ingentissimi.

E magari, chissà, potrebbe essere l’occasione anche per ripubblicare, riaprire, rifar comparire nelle edicole, il settimanale della Diocesi di Trieste Vita Nuova, che venne chiuso nel giugno 2020 appena compiuti i cento anni nel precedente aprile – sempre del 2020 dunque – e sul quale trovava spazio la rubrica “Liturgia del diacono”, che pure dovette cessare, trasformandosi in questo settimanale online.

Tiriamo il fiato ora.

Festeggiamo domani il 1° maggio.

E auguriamoci, di tutto cuore, buona domenica!

Pieni, piene, di fiducia, di speranza, di sogni e di entusiasmo.

Smettere di sognare è morire. Mentre noi - almeno pensiamo - preferiamo consegnarci ad un amore folle.