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La fragilità che ci manca e il culto impossibile




di Andrea Grillo



Il fenomeno triste che viviamo da un anno, con la sua potenza che ci turba, ci spaventa e ci sollecita, manifesta dinamiche profonde: nasconde alcune cose, mentre altre le porta alla luce. Applico la mia attenzione sulla relazione tra “azione rituale” e “fragilità”. Questa prospettiva risulta singolarmente efficace nel costringerci a guardare diversamente le cose ecclesiali, e quelle liturgiche in particolare. La novità sta proprio nello scoprire che la liturgia cristiana non sta semplicemente “di fronte” alla fragilità, ma esige una esplicita “forma fragile”, che oggi ci è preclusa. Nella liturgia accade una “perdita di controllo di sé” – e un “affidamento corporeo all’altro” – che oggi è diventata assai difficile, per non dire impossibile. Ma se si vuole dire tutta la verità, bisogna riconoscerlo, questa corporeità rituale non era molto facile neppure prima, quando non c’era alcuna minaccia di epidemia o di contagio. Così anche il contagio diventa, paradossalmente, una opportunità. Proviamo brevemente a capire meglio tale questione.

1. Vita civile, comunità ecclesiale e azione liturgica secondo protocollo

Come era inevitabile, questo fenomeno macroscopico della pandemia, che ha modificato le forme di vita, di produzione, di sviluppo e di percezione, essendo stato “verbalizzato all’eccesso”, è divenuto pieno di “luoghi comuni”. Capirne la natura e l’effetto non è semplice. Quando ad aprile abbiamo visto camminare per le strade dei paesi cervi dalle alte corna, abbiamo incontrato lunghe file di papere attraversare sulle strisce pedonali, quando abbiamo scorto i delfini farsi prossimi alle banchine dei porti e gli uccelli beccare le nostre briciole ben dentro le nostre finestre, abbiamo capito che era accaduto un fatto ben più grande di una emergenza sanitaria.

Provo qui a proporre una interpretazione che definirei “socio-liturgica” della pandemia del Covid19. Lo faccio in tre passaggi:

a) L’impedimento sanitario della espressione/esperienza comunitaria

La emergenza sanitaria, dal punto di vista dell’ordine pubblico, ha determinato un fenomeno impressionante. Riconoscendo “sicure” solo le case private, ha appiattito sostanzialmente sullo stesso modello di “protocollo” sia gli spazi pubblici sia gli spazi comunitari. Rispetto alla struttura della società che prevede tre livelli di esperienza e di espressione (la casa privata, la piazza pubblica e i luoghi comunitari come le chiese, le associazioni, i bar, le palestre, le piscine, i circoli ricreativi) ha drasticamente diviso tra la sfera “privata” e tutto il resto, che è stato ricondotto e ridotto alla normativa pubblica.

b) La privatizzazione e digitalizzazione delle relazioni

Questo fenomeno istituzionale ha di fatto eroso totalmente (a marzo-maggio) o parzialmente (da giugno in poi) gli spazi comunitari, che si sono ridotti o agli spazi privati, o alle logiche “da remoto”, o si sono “adattati” alle norme vincolanti sul piano pubblico. La privatizzazione di tutte le forme comunitarie, o la loro trasmigrazione “on line” è stato un evento che resterà nella storia. I segni di questo evento dirompente non sono ancora superati. Oggi, sebbene in una versione attenuata rispetto al periodo marzo-maggio, ne abbiamo ancora una larga esperienza.

c) Esposizione e riduzione pubblica della liturgia

Questa condizione “strutturale” ha di fatto profondamente inciso sul versante “espressivo-esperienziale” della nostra chiesa e delle nostre liturgie. Perché la Chiesa, appunto, si colloca anzitutto sul versante comunitario. Ha certamente relazioni sia con la dimensione privata, sia con quella pubblica, ma la sua verità è di essere “luogo di comunione”, luogo di riconoscimento, luogo di contatto, luogo di prossimità. La sottrazione dello spazio comunitario e la sua assimilazione allo spazio pubblico ha rimosso il luogo proprio e il linguaggio elementare della vita ecclesiale[1].

A questa condizione paradossale giova l’interrogativo che ho sollevato all’inizio: in quale rapporto sta tutto questo con la distrazione e con la fragilità? Come è possibile garantire ancora quel margine di distrazione e di fragilità senza il quale non è affatto possibile “celebrare”? Parate e cerimonie possono darsi in pubblico, ma non le celebrazioni.

2. Che ne è della fragilità così tipica della liturgia?

Qui si inserisce la rilevanza della cura per la fragilità, così tipica della liturgia. È proprio il “bisogno viscerale” di una liturgia “fragile”, che la pandemia rende molto difficile per tutti noi, alzando smisuratamente il livello di “attenzione”. Sembrerà un paradosso, ma con la pandemia e il suo giustificato “protocollo sanitario”, le nostre liturgie hanno perso la loro naturale e necessaria fragilità. Proprio perché siamo tutti “vulnerabili”, ci difendiamo reciprocamente. Ma questo accorgimento, che rimane del tutto prezioso sul piano sanitario, ci impedisce di abitare pienamente la regione comunitaria della esperienza: senza distrazione/abbandono di sé e senza espressione della fragilità, fatichiamo giustamente a celebrare.

a) Liturgie “”private” e pubbliche”

La pandemia ha reso prima private e poi pubbliche le nostre liturgie. Nel senso che ha sottratto loro quella differenza “comunitaria” che si esprime in modo elementare, con i più immediati linguaggi del corpo, dello spazio, del tatto, del volto, del movimento. Lo scivolamento in pubblico dell’azione rituale le fa smarrire il suo linguaggio proprio e la irrigidisce in una serie di “osservanze” che si sovrappongono e interferiscono pesantemente sul registro simbolico-rituale.

b) Tre parole esemplari: hands, face, space

Proviamo a capire meglio questa “impasse” attraverso le parole inglesi con cui, in un primo momento (oggi sono già cambiate) è stato reso uniforme il comportamento dovuto in contesti pubblici e comunitari. Nel Regno Unito si vedeva scritto, in ogni dove, un motto di tre parole.

HANDS – FACE – SPACE

ossia

MANI -VOLTO – SPAZIO

Il presidio sanitario veniva così sintetizzato in tre “luoghi corporei” come le mani, il volto e lo spazio. Il contagio si vince, o quanto meno si argina, lavorando accuratamente e minuziosamente sul tatto.

c) Deserto corporeo

L’attenzione a “sanificare le mani”, talora coprendole anche con guanti; la puntuale copertura di bocca e naso con mascherine; il distanziamento di almeno un metro, che si interpone tra i soggetti, sottraggono ai luoghi pubblici e comunitari ogni corporalità della relazione. Lo fanno, sia ben inteso, per giusti motivi sanitari. Ma così, indirettamente ma efficacemente, desertificano lo spazio pubblico e comunitario da ogni espressione di relazione, spostandola integralmente e decisamente sul piano della vita privata. Uno spazio pubblico, e soprattutto un luogo comunitario, cui è sottratta molta parte del suo potenziale comunicativo, risulta sempre meno vivibile. Così il privato, ritenuto potenzialmente sicuro, diventa rifugio e spesso anche tentazione. Non è un caso che uno dei beni più venduti, nell’ultimo anno, sia stato il “divano”!

d) Emoticon senza volto

L’organo del tatto (mani), dell’olfatto (naso), del gusto e della parola (bocca) e il linguaggio delicatissimo dello spazio (distanza), così alterati, incidono profondamente sulla possibilità di “espressione” e di “esperienza” della relazione. La mascherina impedisce di essere riconosciuti e di esprimersi con la mimica facciale. Anche gli “emoticon” sono muti, se vestono la mascherina! Nel caso in cui di un volto si vedano solo gli occhi e nel caso in cui solo gli occhi possano esprimere le parole, pur impedite e/o oscurate dal velo della mascherina, la espressione della propria esperienza e la esperienza della altrui espressione risultano pesantemente ridotte, stilizzate, confinate, mutilate.

e) La corazza contro il contagio/contatto

Ma c’è di più: le misure di prevenzione, che prendiamo a ragione vista la nostra fragilità rispetto al contagio, paralizzano proprio il “linguaggio della fragilità”! Ossia quel linguaggio che esprime il bisogno di mani accolte, accoglienti, riconcilianti e riconciliate, di corpi vicini e che si raccolgono, di volti che chiedono riconoscimento e che hanno bisogni e desideri da esprimere. Uomini e donne con “mani pulite” (senza peccato), anaffettivi e inespressivi (senza ascolto e senza parola), che tengono sempre le distanze (autosufficienti) sono “troppo forti”, troppo seri, troppo fermi, troppo integri, troppo poco capaci di confessare la loro fragilità. La giusta corazza contro la pandemia ottunde i sensi, allontana il prossimo, impedisce la espressione, limita la esperienza. Le relazioni soffocano, la fede non respira. Non si può accarezzare con l’armatura. E non si celebra senza distrarsi da sé e senza esporsi all’altro.

f) Una prassi senza grammatica

Così, inevitabilmente, il protocollo sanitario ha in certa misura “bloccato” e “ridotto” le nostre liturgie, che vivono di linguaggi corporei, di forme, di raduni, di canti, di festein comune. Se la parentesi non è una parentesi[2], ma è un lungo periodo, possiamo pensare, progettare, sperare che, quando tutto sarà finito, ritroveremo la forza di “desiderare” mani sensibili, volti espressivi e riconoscibili, distanze accorciate, prossimità promettenti? Potremo tornare ad essere “fragili” nel nostro celebrare e capaci di “distrazione” per abbandonarci a Cristo e alla Chiesa? Potremo essere ancora capaci di non “difenderci” proprio nell’accedere all’atto di culto? E’ questo il punto di speranza, per il quale occorre una profezia di ventura, di avventura e non di sventura: infatti “bocca baciata non teme ventura”.

3. Presentimento e prospettiva

Forse proprio questo tempo, con le caratteristiche che abbiamo brevemente considerato, può consegnarci un compito inatteso: recepire davvero, fino in fondo, la parola buona del Concilio Vaticano II e della sua riforma della liturgia e della Chiesa. Ricordando che la Riforma Liturgica è stata e ha voluto essere letta come “strumento” in vista di altro e non come “fine in sé”. Su questo punto delicato e assai sottovalutato, le semplificazioni sono state molte e assai rischiose: troppo spesso nei confronti della liturgia ha prevalso un grande sforzo catechetico mentre le sue prassi non sono state prese in vera considerazione. La cura per la azione – e l’affidamento prevalente ai linguaggi “non verbali”, proprio perché oggi risultano del tutto “preclusi” e “impediti” – apre, quasi sub contraria specie, uno spazio nuovo alla rilettura della riforma liturgica. Il cui fine sta, appunto, nella acquisizione di una nuova forma rituale condivisa, che elabori le identità comuni e personali.

Per ritus et preces - ossia la forma rituale della intelligenza liturgica dell’eucaristia - significa, precisamente, che mediante la apparente “distrazione” dei riti, attraverso la loro poco economica non-verbalità aconcettuale e corporea, entriamo più a fondo nella verità della parola e del sacramento. E questo avviene non “spiegando i riti”, ma “lasciando che i riti parlino”[3].

Questo è proprio ciò che fu espresso col termine “conoscenza per connaturalitatem” da C. Vagaggini, negli anni 50, e che fu definito “conoscenza simbolica” 30 anni prima, da Romano Guardini. Ma non diversa era stata anche in M. Festugière, prima della I guerra mondiale, l’idea di “mediazione liturgica” riconosciuta come “fonte” e allo stesso modo nel “pensiero totale” di O. Casel il manifestarsi della attenzione per la “esteriorità” del “mistero del culto”. Il Movimento Liturgico, in altri termini, è nato non con il fine della Riforma, ma con la scoperta del modo originale della “intelligenza rituale”. In vista di questa ha elaborato strategie di riforma dei riti, fin dagli inizi del XX secolo, trovando poi solo nel secondo dopo guerra il clima adeguato per una complessiva riforma della liturgia, che è iniziata non con il Concilio, ma più di 10 anni prima, sotto Pio XII. Veglia Pasquale e Settimana Santa, il centro dell’anno liturgico, sono diventati da allora i luoghi di esperimento di una ripresa di intelligenza rituale, che poi il Concilio Vaticano II ha rilanciato sull’intera esperienza del culto ecclesiale. Ma dopo il Vaticano II la recezione della riforma si è scontrata contro un “protocollo” che spesso ne ha paralizzato la vitalità. Ora, grazie al protocollo di pandemia, vediamo bene il limite della recezione compiuta e siamo sollecitati a riprendere il cammino lasciato per troppo tempo in sospeso.

4. Una nuova attenzione all’intreccio tra fragilità sperimentata e fragilità espressa

Per correlare eucaristia e fragilità, occorre agire a diversi livelli. Si deve riconoscere che il rito ha una esteriorità vitale e non simbolica, cui risponde e cui rende servizio: una fragile esteriorità sofferente, che deve essere onorata, riportata alla memoria e resa soggetto. Ma il rito ha anche una fragilità che gli è costitutiva e che alimenta sul piano della azione simbolica “in esercizio” la attenzione all’essere fragile degli altri. La nostra fragilità rituale è connaturata all’atto di fede. Esige mani consapevoli di dover gestire un tatto rischioso e benedetto, prossimità diverse, di cui abbiamo bisogno, per essere capaci di riconoscere il volto dell’altro e di esprimere all’altro, anche nel volto, la nostra fraternità.

Prendersi cura della fragilità è anche avere luoghi in cui poterla esprimere davvero. Questi luoghi simbolici e rituali sono decisivi per sviluppare una “cura dell’altro”, avendo sviluppato una ecclesiale cura di sé, precisamente nella “distrazione da sé”. La fragilità riscattata della vita chiede di diventare evidente nelle delicate simboliche del tatto, dei volti e della vicinanza. Poter tornare e perdere il controllo delle mani, dei volti e delle distanze – quella cosa che oggi possiamo permetterci esclusivamente “in privato - è apparsa in questo ultimo anno quasi come la precondizione per tornare a celebrare davvero e per essere pienamente comunità. Torneremo alla disattenzione con cui si esprime la fragilità della fede: ecco un programma sorprendente per uscire dalla emergenza sanitaria e per attuare quella “terapia liturgica” che il Vaticano II ha insegnato su ciò che la Chiesa “pensa” e “vive” di sé: il rapporto della Chiesa con il suo Signore resta necessariamente anche tattile, visivo e spaziale. Esige mani sensibili, volti riconoscibili e espressivi, distanze che si accorciano fino all’abbraccio e al bacio. Altrimenti celebrare resterà parata o cerimonia.


NOTE

[1] Le implicazioni di questo sviluppo chiedono un ripensamento radicale della ecclesiologia, sulla linea di quanto suggerisce M. Neri, Fuori di sé. La Chiesa nello spazio pubblico, Bologna, EDB, 2021.

[2] Cfr. D. Olivero (ed.), Non è una parentesi. Una rete di complici per assetati di novità, Cantalupa (TO), Effatà, 2020.

[3] La inadeguatezza della recezione del Concilio trapela persino dalle “traduzioni” del testo della sua Costituzione liturgica: una delle edizioni italiane, tra le più diffuse, traduce “per ritus et preces id bene intelligentes” di SC 48 con la frase italiana: “comprendendo bene i riti e le preghiere”. Il che non è solo una “traduzione libera” che tradisce il testo latino, ma è anche una incomprensione del “fine” della riforma, che non è una concettualizzazione della storia della salvezza, ma una mediazione rituale di tale storia. L’edizione ufficiale inglese – sul sito del Vaticano – traduce in modo errato “through a good understanding of the rites and prayers” (cfr. http://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19631204_sacrosanctum-concilium_en.html, accesso 27 febbraio 2021). Ancora più marcato l’errore della traduzione portoghese.