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Vescovo diocesano e “prestiti di carità” 

di 

Stefano Sodaro


Proviamo ad unire due brevi testi formulati in latino. 

Il primo corrisponde al v. 42 del cap. 5 del Vangelo di Matteo, all’interno della famosa pericope sul precetto di amare i nemici che si proclama nell’odierna liturgia domenicale secondo il rito romano: “Qui petit a te da ei, et volenti mutuari a te ne avertaris”. Che solitamente si traduce con: “A chi ti chiede, da’; se uno vuole da te un prestito, non volgergli le spalle”. Forse sarebbe anche lecito esagerare e tradurre proprio con “a chi ti chiede un mutuo, concediglielo”. L’espressione dell’originale greco è: “ἀπὸ σοῦ δανίσασθαι μὴ ἀποστραφῇς”, che si pronuncia (più o meno) “apò soù danìsasthai mè apostrafès”. “Danìsasthai” – δανίσασθαι - è l’infinito passivo del verbo δανείζω (danèizo), che significa per appunto “prestare”; “essere prestato” è il desiderio da soddisfare, per così dire. Il testo greco completo infatti è il seguente: “τὸν θέλοντα ἀπὸ σοῦ δανίσασθαι μὴ ἀποστραφῇς”. Quel “τὸν θέλοντα” (tòn thélonta) è il latino “qui petit”. Dunque qualcuno vuole che da te avvenga, che da parte tua si compia, un “essere prestato”, ma esattamente per che cosa, o quale sia l’oggetto di tale prestito, non si dice. 

L’essere posto a prestito che non concerna una somma di denaro comincia a creare qualche interrogativo financo morale. Ad esempio, le persone non si prestano; i libri sì, ma è sicuro che così vanno definitivamente perduti nelle mani del debitore che dovrebbe riconsegnarli. 

I sentimenti, sempre ad esempio, si possono prestare? Piano a dire di no.

“Switchiamo” sul secondo testo latino, non evangelico né biblico. Canone 383, § 4, del Codice di Diritto Canonico: [Episcopus dioecesanus] Commendatos sibi in Domino habeat non baptizatos, ut et ipsis caritas eluceat Christi, cuius testis coram omnibus Episcopus esse debet.” Traduzione: “[Il Vescovo diocesano] Consideri affidati a sé nel Signore i non battezzati, affinché risplenda anche per loro la carità di Cristo, di cui il Vescovo deve essere testimone di fronte a tutti”.

Dal punto di vista propriamente teologico il canone sottende una sostanziale volontà da parte niente di meno che di Cristo a considerare “date in prestito” al Vescovo di una determinata diocesi le persone non battezzate che vivono in quel territorio, al solo ed esclusivo fine di dimostrare loro quanto il Successore degli Apostoli, e con lui dunque tutta quella Chiesa locale che in quanto tale regge, li ami. “Ut et ipsis caritas eluceat Christi, cuius testis coram omnibus Episcopus esse debet”.

Epperò arriva un piccolo problema: chi è “il Vescovo diocesano”? Cioè, decliniamo nel nostro caso specifico: don Enrico Trevisi, eletto Vescovo di Trieste, sarà ordinato vescovo il 25 marzo nella cattedrale di Cremona, ma trascorrerà circa un mese prima della sua presa di possesso della Diocesi per la quale è stato ordinato – Trieste, appunto -. In quel mese quel Vescovo di quale Chiesa sarà Vescovo, chi sarà nella sua propria identità ecclesiale? Quale sarà “il prestito di carità” concessogli e che dovrà a propria volta concedere? Va distinto il piano sacramentale e quello giuridico, ma vanno anche intrecciati entrambi: senza l’ordinazione non c’è vescovo, ma senza presa di possesso – che non è atto sacramentale – non c’è vescovo “diocesano”. E dunque? Ecco, risposta non c’è. Ed è bene che non ci sia. Non tutto è coerentemente incasellabile in logiche e schemi, dogmatici o giuridici. È un po’ come la fidanzata che non è ancora moglie eppure si sente vincolata. O come la donna prossima al parto che però non è ancora madre. O come l’amica, single, che sta per fare il passo, per accogliere una dichiarazione o dichiararsi lei per prima, ma non sa quando e come.

Il diritto – anche quello canonico – si occupa di realtà estremamente concrete, fisiche, tattili. Ed usa un linguaggio che non è meno corporeo, persino “materiale” in certo senso. Il Libro III del vecchio Codice di Diritto Canonico del 1917 (previgente all’attuale del 1983) era rubricato “De rebus” ed il canone 726 disponeva così: “Res de quibus in hoc libro agitur quaeque totidem media sunt ad Ecclesiae finem consequendum, aliae sunt spirituales, aliae temporales, aliae mixtae.” Ovvero: “Le cose di cui si tratta in questo libro, ossia i mezzi necessari per raggiungere il fine della Chiesa, sono spirituali, temporali e miste.”.

Nella Chiesa esistono “res” che, anche se spirituali, sempre “res” restano, cioè effettive concretizzazioni di vita sperimentabile con i nostri sensi e/o con la nostra intelligenza e/o con la nostra interiorità (quella che i testi greci del Secondo Testamento indicano come “psychè”).

La Chiesa-sposa che attende il proprio Vescovo – ordinato tale - attende chi “gli-possa-essere-dato-in-prestito”, come “qualcosa/qualcuno” di prezioso di cui quella Chiesa locale ha bisogno, ma a propria volta anche il Vescovo, con il sacramento, riceve “in prestito” non solo un’intera Chiesa locale bensì pure un universo mondo che nel medesimo territorio di quella Chiesa vive, pulsa, spera, cerca, ama.