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Cesarea di Filippo (Isreaele), ingresso dell’Ade - foto di Dario Culot


Risurrezione dei morti



di Dario Culot


Il Credo si conclude con la formula: “aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”. Il più breve Simbolo degli apostoli terminava invece dicendo di credere “nella risurrezione della carne e nella vita eterna”, cosa già un po’più difficile da credere, perché una cosa è credere che con la morte non si lascia la vita ma la si cambia,[1] e un’altra cosa è credere che avremo di nuovo il nostro corpo anche dopo che lo stesso si sarà trasformato in polvere con la morte biologica. Ora, è vero che il corpo rivela chi sono, però se fosse la carne a risorgere, e se per caso avessi dovuto subire in questa vita un trapianto di organi, di chi sarà quell’organo trapiantato? Del donante o di chi ha ricevuto l’organo? Ovviamente è una questione che all’epoca dei concili di Nicea e Costantinopoli non si poteva neanche immaginare, a dimostrazione di come ogni formula sia figlia della sua cultura. E se n un incidente stradale avessi perso una gamba, l’avrò di nuovo attaccata o la risurrezione della carne sarà solo parziale? E un focomelico, che ha dovuto per tutta la vita tirare avanti senza braccia e senza gambe, non credo sarebbe poi così contento di tornare a vivere per l’eternità con quel corpo che gli ha dato tanti problemi già qui, sulla terra. Inoltre nessuno di noi vorrebbe risuscitare col corpo vecchio, pieno di artrosi e acciacchi: però non ci viene neanche assicurato che risusciteremo con un corpo giovane, attraente e scattante.

In Israele, nell’antichità, l’idea della risurrezione si era diffusa piuttosto lentamente senza neanche attecchire in tutte le classi, e in ogni caso, sul punto, le idee non erano del tutto chiare. Il bello è che molte di queste idee confuse, e spesso inconciliabili fra di loro, sono arrivate anche nel nostro cristianesimo.

All’inizio il giudaismo era convinto che con la morte tutto finisse. A poco a poco, però, era emersa l’idea di resurrezione[2] pensando che gli ingiustamente uccisi (per la loro obbedienza alla Torah) dovevano per forza essere richiamati in vita, perché a torto essa era loro stata tolta. Dio, cioè, non poteva permettere una simile ingiustizia[3]. Ma l'idea ebraica iniziale era che la resurrezione avrebbe comportato semplicemente una seconda vita su questa terra. Oggi probabilmente questa idea non sarebbe molto apprezzata, perché come è stato detto con sagacia: “Nessuno nella vita ha commesso tanti peccati da meritare di dover morire due volte”[4].

Nel II secolo a.C., con la rivolta dei Maccabei, gente di azione e non solo di preghiera, inizia l’ultima epoca dei profeti, quella del filone apocalittico,[5] con Giona e Gioele. L’apocalittica è tornata a insistere con entusiasmo sul tema della resurrezione, anche se questa speranza è rimasta sempre controversa[6]. A scatenare la rivolta dei Maccabei era stato il re Antioco, il quale voleva amalgamare tutte le religioni con la forza, e gli ebrei avevano inteso l’imposizione della cultura greca come una persecuzione religiosa, per cui si erano opposti con le armi. La violenta repressione aveva causato ovviamente molte vittime, e conseguentemente si pensava che questi morti fossero dei martiri ai quali era stata ingiustamente tolta la vita.

Nella Bibbia, a parlare espressamente di resurrezione, era stato in precedenza Daniele 12,1-3: “In quel tempo, sorgerà Michele, il gran principe, che vigila sui figli del tuo popolo. Sarà un tempo di angoscia, come non c’era stata mai dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo; in quel tempo sarà salvato il tuo popolo, chiunque si troverà scritto nel libro. Molti di quelli che dormono nella regione della polvere si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna”. Come si vede, con Daniele la resurrezione non era tanto un evento riparatore di una morte ingiusta, e neanche un evento salvifico, quanto il mezzo per rendere i morti (buoni o cattivi) soggetti vivi nel giudizio finale in cui si trovava punizione o premiazione[7]. Con Daniele non era pensabile una resurrezione prima di quella finale, tanto più di un solo individuo; perciò in Israele la resurrezione era concepita per l’appunto in forma collettiva e alla fine della storia[8]. Anche questa idea del giudizio finale e collettivo è entrata nel cristianesimo.

Ma fino al momento del giudizio finale e collettivo, dove finivano i morti? Nello Sheol. E cos’era lo Sheol? Era opinione diffusa nella cultura ebraica che sotto terra ci fosse una enorme caverna, dove tutti, buoni e cattivi, finivano inghiottiti con la morte. Quindi si trattava di un vero regno dei morti (Gn 37, 35; 44, 31), dove tutti però vivevano come ombre[9] pur avendo la memoria perfetta della loro esistenza terrena: i cattivi stavano nella parte più buia, i buoni stavano un po’ più in alto, in una zona un po’ più luminosa, ma sempre ombre restavano. Questa caverna, chiamata Sheol, per i farisei non era un luogo di vuoto senza vita, ma un luogo di attesa della risurrezione dove venivano per così dire “archiviati” tutti coloro che sono esistiti. Invece per i sadducei, strenui sostenitori di una rigida adesione alla Torah, Sheol restava un regno di ombre perché essi non ammettevano la resurrezione[10]. Solo i farisei pensavano che, dopo la morte, i giusti sarebbero un giorno stati portati dagli angeli nel seno di Abramo, mentre gli empi avrebbero sofferto il fuoco della Geenna (non però in eterno, a differenza dei cristiani). L’evangelista Luca utilizza chiaramente questo schema nella parabola di Lazzaro ed il ricco epulone (Lc 16, 31). Ma quel racconto, legato alla cultura di quel tempo, risulta oggi inaccettabile[11] e soprattutto incredibile.

Fra il III e il I secolo a.C., la Bibbia era stata tradotta dall’ebraico in greco per farla conoscere al popolo ebraico che si era sparso lungo tutto il bacino del Mediterraneo e non capiva più l’ebraico. I traduttori, quando si sono trovati di fronte al termine Sheol, non hanno fatto che tradurlo con il nome della divinità greca che presiedeva il regno dei morti. Nel mondo greco c’era Zeus che stava in cielo (Giove per i romani), Poseidone che stava nel mare (Nettuno per i romani), e sotto terra c’era il temibile Ade (Plutone per i romani): quindi Ade è il nome greco del regno dei morti. Ed è questo il termine usato nei vangeli[12]. Quando poi i vangeli sono stati tradotti dal greco in latino, poiché anche nella cultura romana si distinguevano gli dei superi (quelli che abitavano le regioni celesti) dagli dei inferi (quelli che abitavano sotto terra), la parola Ade è stata correttamente tradotta all’inizio con Inferi, con riferimento a quello che sta sotto. Ma si deve sottolineare che questa parola nulla ha a che vedere con la nostra parola inferno[13]. Dicendo che Gesù è disceso agli inferi si voleva far capire che la vita vince anche nel più profondo buio della morte, non che Gesù è sceso nel luogo della condanna eterna, fra i diavoli.

Restando poi nel cristianesimo, va dato atto che Gesù non ha mai parlato di sua iniziativa dell’al di là, della vita eterna. Gesù ha parlato prevalentemente del Regno dei cieli (o di Dio), cioè del cambiamento dei valori della società, qui, sulla terra. Ma quando è stato costretto a parlare dell’al di là, si deve riconoscere che con Gesù si è fatto un passo ulteriore, come risulta nitidamente dalla cosiddetta “risurrezione” di Lazzaro.

Ora, siccome i vangeli non sono una cronaca di fatti che riguardano la storia, ma sono insegnamenti di verità che riguardano la vita, sì che devono essere sempre attuali,[14] il messaggio che questo episodio vuole trasmetterci riguarda un punto fondamentale della fede, in quanto Gesù cambia il senso della morte e della risurrezione. Proprio qui Gesù dà l’assicurazione che la morte fisica non è la fine di tutto, ma coincide con una seconda nascita[15] giacché se uno, sulla terra, ha accolto il modello di vita da lui proposto, facendo anche della sua vita un dono d’amore,[16] Dio gli dona una vita di qualità tale da poter superare indenne la morte biologica (la prima morte)[17]. All’inizio del cristianesimo questo lo si era capito molto bene, tanto che si diceva che, chi si fa carico prendendo su di sé il peso del prossimo[18] e in ciò in cui è superiore cerca di beneficare altri meno fortunati; chi dà ai bisognosi ciò che ha ricevuto da Dio diventa lui stesso come un dio per i beneficati, essendo egli stesso vero imitatore di Dio[19]. Perciò ogni uomo che si è dato da fare per rigenerare qualche altra persona che gli stava accanto, che nel suo piccolo ha portato o ridato vita attorno a lui, avrà in dono una vita indistruttibile. Gesù infatti dice chiaramente: «chi crede in me, anche se muore vivrà» (Gv 11, 25), ribadendo quanto aveva detto in precedenza: chi «osserva la mia parola, non vedrà la morte in eterno» (Gv 8, 51); cioè chi gli ha dato adesione, seguendo il modello di vita rivolto al bene degli altri, quando muore non se ne accorge e continua a vivere. Quando il chicco cade per terra viene fuori una pianta più grande: non sa di essere morto, ma si rende conto che sprizza fuori un’energia nuova che fa nascere una pianta (Gv 12, 24)[20]. Questa è la nostra speranza di risurrezione.

Non a caso l’evangelista fa inizialmente dire a Gesù che la morte (che appare innaturale) equivale al sonno[21] (che tutti accettano come naturale). Solo più tardi (Gv 11, 14) Gesù dice apertamente che Lazzaro è morto (biologicamente): esattamente come il chicco di grano che muore in terra ma diventa spiga, per cui muore, ma in realtà non muore[22].

La risurrezione non è allora la rianimazione di un cadavere che torna alla vita di prima su questa terra, ma è la trasformazione della vita per cui tutte le energie nascoste nella singola persona potranno esplodere senza più essere limitate dalla carne: il seme diventa finalmente spiga. Paradossalmente la morte (del chicco di frumento) incrementa la vita del frumento (che diventa una bella spiga senza perdere l’originaria identità di frumento). La morte, dunque, non è un incidente di percorso; soprattutto non è la fine di tutto, ma è un passaggio necessario per raggiungere una forma più perfetta[23]. La vera creazione di Dio culmina con la vita che supera la morte, che viene dunque svuotata della sua drammaticità. Come Gesù è vivo in Dio, lo sono anche gli altri defunti. È questo - dice il teologo spagnolo Queiruga - il grande messaggio di speranza per ognuno di noi.

La morte fisica non ci toglie nulla, ma ci viene incontro per regalarci finalmente quella pienezza di vita alla quale sempre aspiriamo e per farci sprigionare tutte le nostre potenzialità. Gesù, infatti, dice (Gv 5, 24) che non occorre attendere l’ultimo giorno per risorgere, ma che chiunque crede in lui già possiede una qualità di vita capace di passare dalla morte alla vita:[24] seguendo Gesù ci viene da subito comunicata una vita che è già quella dei resuscitati, e in questa nuova qualità di vita si manifesta la gloria di Dio[25]. Gesù assicura che se qualcuno osserverà la sua parola, cioè si comporterà seguendo questo comandamento nuovo dell’amore, non vedrà mai la morte (Gv 8, 51; 10, 28; 11, 25), ovvero passerà indenne la soglia della morte fisica (di qui la gloria di Dio): ma allora la resurrezione è un’esperienza immediata, al presente, non futura: in questo senso Gesù vince la morte, e per lui la morte non esiste ancorché vi sia un disfacimento fisico[26]. Seguendo questa linea, è chiaro che per resuscitare, cioè per nascere una seconda volta e questa volta definitivamente, non occorre aspettare il momento lontanissimo del giudizio finale universale[27]. Non si viene archiviati come ombre nello Sheol, nella lunga attesa di una vita futura.

Certo invece che, se uno non ha scelto su questa terra di aderire al progetto di vita del Padre, se uno non è entrato nella dimensione del servizio verso chi ha meno di lui oppure verso chi è meno di lui, se uno non pensa mai di condividere, se uno ha soffocato in sé ogni gesto di vita verso gli altri, se non si è aperto all’altro, quando muore biologicamente sopravviene la morte seconda, cioè l’annientamento totale; la morte non sarà cioè accompagnata da alcuna risurrezione. Ma c’è da dire in questo caso che la morte seconda, a poco a poco, aveva già preso la prevalenza nel corso della vita terrena di quell’individuo il quale, rinchiuso nel suo egoistico bozzolo, aveva vissuto imbucandosi in un vicolo cieco. Se in questa vita non c’è stata questa forma di crescita interna, la morte biologica non trova niente in quell’uomo egoista; se invece l’uomo ha imparato a darsi, la morte biologica non intacca quella vita piena che si è costruita nel tempo.

Ma come la mettiamo con la condanna eterna all’inferno? Il noto passaggio del cosiddetto giudizio finale[28] descritto da Matteo, dove Dio separa i capri dalle pecore, dimostra solo che c’è possibilità di salvezza anche per coloro che non sono fedeli seguaci del Dio conosciuto da Israele (si parla cioè dei pagani), e va messo in rilievo come Gesù dice: “venite benedetti dal Padre mio”, ma non dice agli altri: “maledetti dal Padre mio”. I maledetti si sono auto-maledetti, cioè si sono auto-esclusi. La vita eterna o la morte definitiva si otterranno in base a in giudizio che ogni persona emetterà da sé: papa Clemente I aveva già bene espresso questo concetto quando fa dire a Dio, che ha davanti a sé il malvagio: “ti confonderò e ti porrò faccia a faccia con te stesso”[29]. Non serve il giudizio di Dio, e men che meno serve un dio vendicativo che mandi i cattivi all’inferno per l’eternità. Diciamo allora che il castigo (Mt 25, 46: «E questi se ne andranno al castigo eterno, i giusti alla vita eterna») non è dovuto al Padre, ma agli stessi uomini che si sono autodistrutti in quanto la loro vita terrena è rimasta monca, non essendo giunta alla pienezza. E il castigo eterno ben può essere la fine della propria vita.

Nello stesso senso Gesù dice in un’altra parte del Vangelo: “non abbiate paura di quelli che vi possono togliere la vita, abbiate paura di colui che può distruggere la vostra esistenza nella Geenna” (Mt 10, 28). Avete notato? Gesù parla di ‘distruggere, far perire’ non di far vi vivere in eterno e soffrire in eterno nella Geenna. E chi è costui che può far perire definitivamente? È ad esempio mammona, il dio del denaro, il dio del successo: questo è il diavolo che porta alla distruzione. Nei vangeli – nonostante la contraria opinione della dottrina ufficiale - non ci sono minacce per l’al di là da parte di Gesù,[30] non si parla di sofferenze che durano per l’eternità[31]. Ci sono dei moniti: chi vive per gli altri realizza sé stesso, chi vive fino alla fine per sé distrugge sé stesso. Fine del discorso.

La punizione non è un castigo inflitto da Dio, ma è il fallimento totale dell’uomo che nell’Apocalisse viene definito come morte seconda (Ap 2, 11; 20, 6-14; 21, 8). Per continuare a vivere dopo la morte biologica occorre essere stati profondamente umani, pienamente misericordiosi (Mt 5, 7: beati i misericordiosi)[32].

Anche il vescovo cattolico Schillebeeckx (che aveva partecipato all’ultimo concilio), un’autorità nel campo della teologia olandese, aveva proposto come ipotesi plausibile la distruzione totale da parte di Dio degli empi,[33] anche se quest’idea era stata prontamente bollata di assoluta inadeguatezza stando all’insegnamento tradizionale del magistero della Chiesa, perché costituisce verità di fede che i malvagi non siano annullati ed è eretico sostenere il contrario[34]. Ma, a ben vedere, anche con questa interpretazione i malvagi sarebbero annullati. Solo che, seguendo il ragionamento del vescovo olandese, se la comunione con Dio è il fondamento della vita eterna, l’assenza di questa comunione, cioè la seconda morte (Ap 20, 6) è la vera fine di ogni esistenza: non avere parte alla vita eterna è già inferno, senza bisogno di essere torturati in eterno.

Nell’Apocalisse (Ap 2, 11; 20, 6-14; 21,8) questi concetti – anche se non conformi all’insegnamento tradizionale del magistero - vengono espressi in maniera piuttosto chiara: la prima morte si oppone alla vita fisica; la seconda morte si oppone alla nuova vita, sì che la morte biologica sarebbe una seconda nascita. Se la morte biologica incontra una persona carica di amore, carica di vita, questa morte non le fa assolutamente niente: è questa la risurrezione, una seconda nascita, cioè il passare indenni attraverso la morte biologica. A questo punto, si può notare come anche le speranze siano identiche al momento della prima nascita e della morte biologica o seconda nascita. La differenza sta solo nella consapevolezza della speranza: il neonato spera inconsapevolmente le stesse cose che chi sta per morire spera consapevolmente. Entrambi sperano che troveranno un volto che li salvaguardi (prima la madre, poi Dio); entrambi sperano di essere riconosciuti per quello che sono, che saranno chiamati per nome; che il loro nome sia scritto nei cieli (Lc 10, 20); entrambi sperano di trovare uno spazio accogliente che li faccia vivere; entrambi sperano di essere illuminati, di andare incontro a un’accoglienza che faccia loro comprendere il senso profondo del dono della vita.

L’esperienza della risurrezione è stata l’esperienza che ha dato vita al cristianesimo. Siamo davanti a un’intuizione, non alla constatata rianimazione fisica di un cadavere: Gesù è stato ripensato di lì a poco come colui che ha aperto una strada a un nuovo significato di Dio, a una nuova potenza che ci permette di vivere, di amare e di esistere. Il messaggero del sepolcro, nel vangelo di Marco, sembra dire: comprenderete il significato della risurrezione quando tornerete nelle vostre case e ricomincerete le faccende della vostra vita quotidiana. È qualcosa che accade a Gesù, ma anche a ciascuno di noi. Ecco perché Paolo può dire che siamo già risorti, il che accade quando capiamo che Dio è presente, quando viviamo pienamente, amiamo prodigalmente e crescendo diventiamo tutto ciò che siamo in grado di essere[35].

Che la vita non cessi con la morte, che la vita sia in grado di passare indenne attraverso la porta della morte, i primi cristiani lo avevano capito meglio di noi, tanto che non credevano che i morti sarebbero tornati in vita, ma credevano appunto che i viventi non sarebbero mai morti perché erano già risuscitati. Questo in linea con quanto aveva affermato fin dall’inizio Paolo, quando aveva scritto che non solo Lazzaro ma tutti, da morti che eravamo, siamo stati già risuscitati (Ef 2, 6: «ci ha risuscitati»). In diverse lettere di Paolo troviamo delle espressioni che a noi possono sembrare piuttosto strane (Ef 2, 6: «ci ha risuscitati»; Col 2, 12: «Siete stati sepolti con lui nel battesimo, nel quale anche siete risuscitati»; Col 3, 1: «Se dunque siete risorti con Cristo»)[36]. Perfino il Vangelo apocrifo di Filippo, §90, ci offre ancora più chiaramente questa stessa idea: “Chi dice: prima si muore e poi si risorge, erra. Se non si risuscita prima, mentre si è ancora in vita, morendo, non si risuscita più”. È chiaro allora che, secondo questa linea di pensiero, Dio non risuscita i morti, ma comunica la sua stessa vita indistruttibile ai viventi che così non conoscono la morte: ecco perché si può affermare che il Dio di Gesù è il Dio dei viventi e non il Dio dei morti. È stato anche giustamente detto: “Che senso avrebbe sperare nella resurrezione eterna, e addirittura nella resurrezione dei corpi, se qui, sulla terra, non siamo capaci di far risorgere chi è oppresso, chi è ai margini, i “diversi”, i poveri, gli ultimi, i migranti. Noi dobbiamo impegnarci a farli risorgere qui!”[37]

Questa è – a mio avviso,- una spiegazione ragionevole della risurrezione. La risurrezione è la trasformazione della vita, non la rianimazione di un cadavere che torna alla vita di prima, e questa trasformazione, avvenuta già nel corso della vita terrena in base a come si è concretamente vissuto, ci permetterà di passare indenni attraverso la porta della prima morte (quella biologica). Nello stesso senso si pone l’Apocalisse (Ap 14, 13) che paradossalmente definisce beati i morti: «Beati fin d’ora i morti che muoiono nel Signore… perché le loro opere li seguono», il che significa che chi ama la vita, chi si è dato da fare immettendo vita in questo mondo (e non togliendola), vivrà gioiosamente per sempre grazie a come si è comportato in terra. Anche se muore fisicamente costui gode comunque del bene che ha compiuto, raggiungendo evidentemente una nuova dimensione, non più biologica, che continua a incrementare la sua vita. La vita è una sola: con la morte finisce la dimensione terrena, ma non la vita, che la morte anzi incrementa perché ci libera da tutti i limiti e condizionamenti della vita terrena. Al cimitero vanno i resti materiali, ma lì non c’è quella persona, la cui vita continua nella dimensione divina, e non resta distrutta dalla prima morte. Con la morte non si lascia la vita, la si cambia. Pertanto, nessun altro può uccidere la nostra vita: solo noi possiamo porle un termine in base a come ci siamo comportati su questa terra.

È inevitabile allora chiedersi: ma allora quelle persone che si dicono credenti e che poi, di fronte alla morte di un loro caro, restano inconsolabili per il resto dei loro giorni rinchiudendosi nel proprio dolore? Forse non sono proprio credenti come pensano, ma solo pensano di esserlo. Il miglior modo per onorare i morti è vivere per gli altri, vivere questa nostra vita al massimo della nostra potenzialità umana senza mai rinchiudersi nel proprio lutto.

Il problema è che ci è stata purtroppo insegnata una spiritualità dogmatica listata a lutto. Perché, infatti, nel mondo cattolico, la morte è sempre un tema assai sgradito? Perché i funerali sono così mesti? Perché le campane a morto hanno un suono così lugubre? Perché i nostri cimiteri sono così tetri? Perché quando la gente parla di uno che è morto parla di lui come di un “poveretto?” Perché non si lascia andare secondo natura uno che è giunto alla fine dei suoi giorni e si cerca di trattenerlo in questa vita anche a costo di farlo con accanimento terapeutico? Non lo so. Chiedetelo al magistero, che ha evidentemente insistito su un insegnamento piuttosto lontano dal messaggio di speranza del vangelo. Mi sembra evidente che per Gesù la morte non esiste, anzi è un guadagno rispetto alla vita limitata che abbiamo qui in terra, per cui non ci può essere tristezza; invece noi, seguendo quello che era l’insegnamento ebraico, ancora la concepiamo come uno stop definitivo della vita, come una distruzione conclusiva dell’individuo, come una perdita devastante e, ancor peggio, come il minaccioso momento del dies irae. Oppure, sempre seguendo l’insegnamento farisaico, molti pensano che la resurrezione avverrà solo alla fine dei giorni, vivendo nel frattempo come ombre. Invece, stando al vangelo di Gesù, sembra proprio che la vita continui subito, sotto altra forma, e non si è dormienti per centinaia di millenni in attesa della resurrezione finale dei morti. Per resuscitare, cioè per nascere una seconda volta e questa volta definitivamente, non occorre aspettare il momento lontanissimo del giudizio universale[38].

Il Credo non ci dice a quale di queste risurrezioni dobbiamo credere, e spetta a noi indagare e meditare. Ma ricordiamoci che Gesù non ha scritto nessun Credo, né testi di ortodossia per stabilire chi è il vero credente, sì che il cristianesimo non è qualcosa in cui si deve credere, ma una fede all’interno della quale si deve vivere[39]. I vari Credo, allora, non sono che tentativi di spiegare l’esperienza di Dio[40]. E come diceva la teologa Adriana Zarri, spesso quando pensiamo di pregare stiamo solo recitando formule,[41] e se non ci rendiamo conto di cosa stiamo realmente dicendo vuol dire che le formule hanno perduto il loro significato e il loro valore, e quindi sono ormai vuote di senso. In estrema sintesi: il Credo è frutto di idee che uomini come noi hanno messo insieme per definire le basi del cristianesimo, ma le idee – anche se provenienti da uomini più intelligenti di noi - non devono mai diventare una gabbia entro la quale costringere gli altri, con le buone o con le cattive, a conformarsi a forme di pensiero chiuse una volta per tutte. Immaginate solo se fossimo ancora obbligati a credere che la terra è al centro dell’universo e che il sole gira attorno alla terra.

Pensiamoci, quando recitiamo a messa il Credo.


NOTE

[1] Pagola J.A., Gesù, un approccio storico, ed. Borla, Roma, 2009, 470: Quella che sembra morte è una nuova creazione.

[2] Secondo il libro della Sapienza l'ingiusto e il peccatore muore perché la sua morte è “alla morte” (Sap 1, 12; 5, 9-14), mentre la morte del giusto è "alla vita" (Sap 1, 15; 5, 15).

[3] Proprio focalizzandosi sulla promessa di Dio dell'Alleanza, prese piede la convinzione che Dio avrebbe onorato quel patto se, a sua volta, l'uomo l'avesse onorato in vita. Poiché Dio non è mendace, era suo preciso dovere compensare la morte subita per essere rimasti fedeli all'Alleanza, con una seconda vita sulla terra, non nel cielo inaccessibile, e con un corpo perché l'essere umano è un corpo animato. Per questo motivo i morti veniva inumati e non cremati, perché da morti dormivano, ed erano in attesa di un risveglio. Dunque questa idea di dormire e svegliarsi, giacere e alzarsi (e resurrezione significa appunto alzarsi di nuovo) è frutto di un ragionamento teologico. Infatti è chiaro che un corpo disteso può rialzarsi, la cenere dopo la sua cremazione no (Lenaers R., Il sogno di Nabucodonosor, Massari, Bolsena (VT), 2009, 191ss.). Questa stessa idea è passata nel cristianesimo, come si vede, ad es. da questo inno: "svegliati tu che dormi, sorgi fra i morti" (Ef 5, 14). Dunque il giudaismo credeva alla resurrezione finale dei giusti, in vista di una loro partecipazione al regno messianico (Daniélou J., La risurrezione, Borla, Torino, 1970, 90).

[4] Saramago J., Il Vangelo secondo Gesù Cristo, ed. Bompiani, 1999, 353.

[5] La resistenza dei Maccabei era stata anche letteraria, e allo scopo era stato concepito un linguaggio nuovo, cifrato, simbolico, apparentemente riguardante altre epoche e altri personaggi, ma chiarissimo per gli adepti (appunto il cd. genere apocalittico).

Il linguaggio apocalittico si distingue nella Bibbia dal genere profetico (Marchetti R., Corso sull’Apocalisse, tenuto a Trieste al centro Veritas, ottobre-dicembre 2013).

Il genere profetico guarda alla storia sulla terra: passato (alleanza), presente (analizza il presente, tenendo conto che Dio è più forte e interverrà), futuro (esortazione a ravvedersi, perché c’è ancora tempo prima della punizione). Il profeta è un ascoltatore. Vede il progetto di Dio nella storia e attende la soluzione nella storia; ma vede soprattutto Israele: qui e ora.

Il genere apocalittico non parla della storia umana. Guarda al progetto di Dio che si realizza senza fallo, a prescindere dal ravvedimento o meno dell’uomo. Si muove fra la fine della storia e quello che ci sarà dopo. Siamo cioè su un piano diverso dove lottano un bene e un male cosmici. Le forze del male muovono gli uomini come burattini, ma Dio si oppone, ed essendo il più forte si sa già che prevarrà il bene, con la nuova creazione. A differenza del genere profetico, qui l’uomo non è affatto protagonista, ma un mero spettatore che deve rendersi conto di quel che succede attorno a lui, senza poter cambiare nulla. L’apocalittico è un veggente: vede il progetto di Dio, al di fuori della storia. Toglie il velo, vede i cieli aperti e un altro mondo, luogo della soluzione finale. Sta un su un piano cosmico: sempre e ovunque.

[6] Placher W.C., A history of christian theology, ed.Westminster John Knox Press, Louisville-London, 1983, 26.

[7] Schillebeeckx E., Gesù, la storia di un vivente, Queriniana, Brescia,1976, 549s.

Il concetto ebraico del giudizio finale è passato anche nel cristianesimo: al momento della fine del mondo anima e corpo si sarebbero riuniti, ciò per buoni e cattivi, seguendo appunto l’idea di Daniele.

[8] Penna R., Gesù di Nazaret nelle culture del suo tempo, EDB, Bologna, 2012, 75.

[9] E questa era un’idea che valeva anche fuori Israele. Basta ricordare l’Iliade (I, 3) dove finiscono le anime forti degli eroi uccisi in combattimento; l’Odissea (XI), dove Ulisse scende nell’Ade, ottenendo uno scorcio sul suo destino. Vedasi in proposito Graves R., I miti greci, CDE, Milano, 1985, 106ss.

[10] In Israele, a differenza dei farisei, i sadducei non credevano alla resurrezione, né all’esistenza di demoni e angeli (At 23, 8), e per questo avevano posto a Gesù la domanda maliziosa (“se una donna sarà moglie di ben sette mariti, e rimane vedova di tutti, di chi sarà moglie al momento della resurrezione? - Mt 22, 28). Gesù, affermando che alla resurrezione non si prende né marito, né moglie, sembra negare una lettura materialistica della resurrezione: ci sarà una nuova creazione, in cui forse anche i vincoli parentali saranno trasfigurati (Ravasi G., I sette mariti, “Famiglia Cristiana”, n.31/2012, 119). Quale sarà questa nuova forma di vita? Non lo sappiamo, e soprattutto ci mancano gli elementi per saperlo.

[11] La Chiesa continua a proclamare che nel Credo è stata catturata per sempre la verità definitiva. Ma proprio per questa pretesa il cristianesimo sembra sempre meno credibile visto che oggi sappiamo che nessuno possiede la Verità assoluta e si è sempre in ricerca. Oggi sappiamo che le spiegazioni dogmatiche dei primi secoli riflettono inevitabilmente la visione del mondo di quei secoli. Se interpretiamo letteralmente le spiegazioni espresse in quei secoli, interpretiamo letteralmente il quadro di riferimento in cui tali spiegazioni sono state concepite, mentre la cultura e la mentalità di allora sono scomparse (Spong J.S., Incredibile, Mimesis, Milano-Udine, 2020, 43).

[12] Ricordo che i vangeli sono stati originariamente scritti in greco.

[13] At 2, 31; 1Pt 3, 19; il Simbolo degli apostoli recita: "discese agli inferi; il terzo giorno risuscitò da morte". Ma fino a non molto tempo fa, quand’ero ancora piccolo, a causa di un’errata traduzione, si parlava di discesa all’inferno anziché agli inferi. Oggi, in effetti, c’imbattiamo in questa parola ‘inferno’ solo se ci capita fra le mani qualche vecchio testo del vangelo: ma nella nuova traduzione delle Scritture della CEI (che è il testo ufficiale della Chiesa Italiana) la parola è stata cancellata; è sparita completamente, e si dice che Gesù è sceso agli inferi per liberare i giusti che l’avevano preceduto (n. 633 Catechismo). In altri termini, l’azione salvifica non è rivolta solo al presente e alle generazioni future, ma riguarda anche tutto il passato dell’umanità (Lorizio P., La discesa di Gesù agli inferi, “Famiglia Cristiana”, n.42/2012, 13). Discendendo nell’Ade (o inferi) Gesù dimostra di possedere lui – e non Plutone,- anche le chiavi del soggiorno dei morti (Ap 1, 18); ciò significa che nella sua discesa egli porta la vita anche là dove regnava la morte: anche per coloro che erano morti prima dell’arrivo di Gesù in terra c’è la salvezza, perché la vita è più forte della morte anche per tutti quelli che erano morti prima di lui (1Pt 4, 6; 1Cor 15, 20).

[14] I vangeli non sono una cronaca di fatti che riguardano la storia, ma sono insegnamenti di verità che riguardano la vita dei credenti sì che devono essere sempre attuali (Maggi A., La verità ci rende liberi, Garzanti, Milano, 2020, 57).

[15] Certo, si potrebbe anche pensare che il morto resterà con noi, perché quello che ha detto e insegnato con il suo modo di agire non può essere dimenticato da chi l'ha conosciuto. Ma dopo una, o qualche altra generazione, anche questa memoria è destinata a sparire, e allora Gesù sembra intendere qualcosa di più quando dice che la vita diventa indistruttibile, cioè il morto non morirà mai.

[16] L’amore è il senso della vita che riusciamo a comunicare a un’altra persona. L’amore dona vita, ma non ha origine né termina in noi. Ci attraversa, nel senso che lo riceviamo e solo dopo averlo ricevuto siamo in grado di ritrasmetterlo. Chi non riceve amore è destinato a morire. È interessante sul punto ricordare l’esperimento fatto – si dice,- da Federico di Svevia: alcuni neonati vennero affidati a delle donne che dovevano dar loro da mangiare e bere, ma non dovevano assolutamente coccolarli, parlare con loro, amarli. In pochissimo tempo tutti quei bambini erano morti.

L’amore ci mette in relazione con qualcosa che è reale, ma che non possiamo né creare né distruggere. Dio è il nome con cui chiamiamo questa esperienza di amore. Se Dio è amore, l’unico modo con cui possiamo adorare Dio è amando gli altri. Più diamo amore, più rendiamo visibile l’esperienza di Dio. Questo significa che Dio esiste? “Non lo so” ha detto il vescovo americano John Shelby Spong, “io sperimento Dio, non posso spiegarlo; confido nella mia esperienza” (Spong J.S., Incredibile, Mimesis, Milano-Udine, 2020, 83s.). Se gli apostoli hanno potuto fare quest’esperienza che ha cambiato loro la vita, si sono sentiti rinascere e possono aver parlato di risurrezione.

[17] La linea di divisione fra la morte e la vita, allora, non è, nel cristianesimo, quella che s'intende nel linguaggio corrente. Non separa quelli che sono sulla terra da quelli che non ci sono più. Separa quelli che appartengono alla sfera dell'esistenza divinizzata, siano o meno sulla terra (siano cioè sofferenti o gloriosi), da quelli che sono fuori di questa sfera e costituiscono quel che il NT chiama le tenebre (Daniélou J., La risurrezione, Borla, Torino, 1970, 73).

[18] Come diceva Gandhi, nessun uomo è inutile se allevia il peso di qualcun altro.

[19] Lettera a Diogneto, X, 5-6.

[20] Gesù usa questa immagine per chiarire il suo messaggio sulla vita indistruttibile (o resurrezione dopo la morte biologica). Sul messaggio che al momento della morte si attraversa questa porta entrando in una potenza di vita più grande di quella che si aveva prima, ognuno farà il suo ragionamento, ma nessuno sa cosa veramente avverrà e come.

[21] Vedi precedente nota 3.

[22] “Morire non è morire. È chiudere gli occhi per vedere meglio. È attendere una chiamata di Dio e andare felici ad incontrarlo” (dall’elogio funebre, per il cardinale Arns, di Leonardo Boff, 16.12.2016 nella cattedrale di San Paolo - Brasile).

[23] Molari C., Per una spiritualità adulta, ed. Cittadella, Assisi, 2008, 145.

[24] Maggi A., Le cipolle di Marta, ed. Cittadella, Assisi, 2007, 99.

[25] In Giovanni si parla più volte della ‘glorificazione’ sia del Padre (Gv 13,31; 17 1.4), che del Figlio (Gv 7,39; 12,16.23; 13.31), ed è sconcertante per noi che Gesù parli in questi termini quando, di lì a pochissimo, sarà ucciso e assisteremo al suo apparente totale fallimento. Non è pazzesco pensare che la crocifissione sia vista come glorificazione? Eppure Gesù ci sta dicendo che l’amore umano arriva al culmine quando è disposto a giungere – e giunge – al limite ultimo e finale della sofferenza, della morte e del fallimento. Nel comandamento «nuovo» (Gv 13, 34) Gesù non parla più dell’amore di Dio e del prossimo. Anzi, Gesù non menziona più neanche Dio. Chi ama l’essere umano, chiunque sia, ama Dio, e in questa somiglianza a Dio sta la chiave di tutto il cristianesimo (Castillo J.M.).

[26] Maggi A., La follia di Dio, Cittadella, Assisi, 2010, 131.

[27] Ma allora anche Gesù è resuscitato subito e non dopo tre giorni. In effetti, se pensiamo che è morto il venerdì pomeriggio e già la domenica mattina non è stato trovato nel sepolcro, non sono passati tre giorni: anzi, non sono passate neanche 48 ore. Inoltre, se Maria Maddalena e le altre donne non sono andate al sepolcro di sabato, è solo perché volevano rispettare il sabato ebraico. Se fossero andate sabato mattina (cosa vietata dalla legge), anziché domenica mattina, avrebbero già trovato il sepolcro vuoto?

[28] Chiaramente ammesso anche dall’Apocalisse: «Vieni, ti farò vedere il giudizio» (Ap 17, 1).

[29] Papa Clemente I, Lettera ai Corinti, XXXV, 10, in www.documentacatholicaomnia.eu.

[30] Nell’articolo Guai a voi! – nel n. 487 del 2019 di questo giornale, si chiarisce come anche i famosi “Guai!” sono in realtà lamentazioni (v. https://sites.google.com/site/liturgiadelquotidiano/numero-487---13-gennaio-2019/guai-a-voi)

[31] Per secoli, invece, la Chiesa ci ha inculcato il sano timor di Dio e la paura dell’inferno, dove “il fuoco inestinguibile roderà e brucerà il corpo di fuori; i vermi di dentro roderanno e bruceranno il cuore” (Papa Innocenzo III, De Contemptu mundi (Il disprezzo del mondo), Cantagalli, Siena, 1970, Libro III, 111).

[32] Maggi A., Parabole come pietre, Cittadella, Assisi, 2007, 130.

[33] Schillebeeckx E., Per amore del Vangelo, Cittadella, Assisi, 1993, 19 ss.

[34] Cavalcoli G., L’inferno esiste, Fede&Cultura, Verona, 2010, 88s. Però forse sarebbe bene spiegare perché la teoria sostenuta anche da Schillebeeckx dovrebbe essere assolutamente inadeguata; troppo facile dirlo, senza dire il perché.

[35] Spong J.S., Incredibile, Mimesis, Milano-Udine, 2020, 198ss.

[36] Strano poi che lo stesso Paolo, in 2Tm 2, 18, critichi Imeneo e Filete che vanno dicendo che la resurrezione è già avvenuta. A dimostrazione che anche in Paolo vi sono contraddizioni, o che sotto il nome di Paolo si riuniscono più autori. Altro esempio di grande contraddizione in Paolo: in Galati 3, 28 Paolo fa cadere ogni muro di disuguaglianza ed esclusione (perfino fra schiavo e padrone), ma in Efesini detta regole restrittive per le donne contraddicendo, se non uccidendo, il suo precedente e forte invito alla piena libertà. Queste contraddizioni si spiegano facilmente sapendo oggi che non tutte le lettere sono di Paolo, ma provengono anche della sua scuola, e la Chiesa che dice di aver seguito Paolo le ha in realtà spesso strumentalizzate. Questo dimostra anche che il cristianesimo insegnato non è sempre necessariamente quello giusto.

[37] Don Luigi Ciotti (dal ricordo di don Pierluigi Di Piazza nel giorno delle esequie, martedì 17 maggio 2022).

[38] Proprio perché il tempo dell’attesa sembra troppo lontano, non pochi teologi parlano ormai di resurrezione nella morte (Frosini G., Cosa succede dopo la morte?, “Famiglia cristiana”, n. 38/2012, 13).

[39] Spong J.S., Un cristianesimo nuovo per un mondo nuovo, Massari, Bolsena, (VT), 2010, 329 e 346.

[40] Spong J.S., Incredibile, Mimesis, Milano-Udine, 2020, 80.

[41] Zarri A., Nostro Signore del deserto, Cittadella, Assisi, 1978, 211.