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Il vuoto e il mare


di Stefano Sodaro


Golfo di Trieste - foto del direttore 

Sarebbe bene riconoscerlo: nessuna manifestazione, presa di posizione, esibizione artistica, convegno, seminario, o comunque somma organizzata di parole, ci soddisfa in questo momento a fronte di ciò che sta accadendo in Medio Oriente, in Israele, nella Striscia di Gaza.

Sarebbe bene – a sommesso parere del qui scrivente – sospendere ogni pubblico appuntamento che preveda voci e/o movenze, e fare soltanto silenzio.

Sembra un’ipotesi folle. Sì.

Eppure il Vescovo di Trieste, Enrico Trevisi, ha annunciato per questa domenica la proposta di un singolare spazio di silenzio davanti al mare per 15 minuti, insieme al Rabbino Capo di Trieste, al Presidente della Comunità Islamica ed ai Rappresentanti di ogni altra Fede Religiosa che vogliano unirsi a questo stare gli uni accanto agli altri senza proferir parola e guardando, invece, il silenzio, in questi giorni roboante, del mare.

Si può apprendere dell’iniziativa qui, al sito della Diocesi di Trieste.

Il mare ha parole sue da consegnarci, molto sgradevoli, ma necessarie per continuare a vivere come esseri umani. 

Il linguaggio del mare è diverso da tutti gli altri, anche dalla supposta sublimità degli ascetismi montani. 

Il mare è orizzontale, non verticale; non sopporta metafisiche e squisite elevazioni mistiche. Anzi, si presenta addirittura come il simbolo del male in alcuni libri biblici.

Se proprio proprio dovessimo aggettivare l’iniziativa silenziosa triestina di questa domenica, ci verrebbe da definirla “quacchera”, pensando a come il culto settimanale della Società degli Amici consista tutto ed esclusivamente in una condivisione del silenzio, e basta.

Ma il silenzio è anche quello della morte ed il disagio allora diventa sommo, quasi insopportabile.

In effetti che cos’è la morte? 

È la sensazione, fisica, concretissima, persino evidente, oggettiva, “inemendabile” direbbero i non più di moda filosofi neo-realisti, che l’amore s’è spezzato, che un amore se n’è andato, è affogato, è sparito, è stato sommerso dal buio, è tramontato per sempre. 

Sinceri: della morte dei “cattivi” nulla c’importa, anzi ce ne compiacciamo. Anzi ci sembra esito ben meritato. Non è quella la morte che ci fa piangere. Il consenso verso la pena di morte ha picchi altissimi. Piangiamo, invece, per il vuoto d’amore che la morte scava.

E le delusioni nelle relazioni interpersonali – tutte riconducibili, in ogni caso, al suffisso “am”, che siano “am”orose o che siano “am”icali – disegnano orridi sprazzi di morte nelle nostre vite. Pene di morte immeritate. Queste non le vogliamo.

Che faremo allora? Silenzio soltanto?

Anche il silenzio può essere un vuoto, per nulla eloquente. Anche la morte, appunto, impone silenzio, nonostante preci d’ogni foggia e riti d’ogni credo.

Eppure qualcosa c’è.

Riflettiamoci.

Come un baluginio, appena appena accennato, di una luce lontana, lontanissima, ma molto bella ed attraente.

Il lume fioco, abbastanza indistinto, di una qualche presenza – concetto, quello di presenza, così avversato da Martin Heidegger, perché ritenuto, di nuovo, introduttore abusivo di una riedizione della metafisica con le sue pesantezze logiche esistenzialmente inaccettabili -: una qualche presenza che abbozza anche un volto. E dunque anche un corpo. 

Non si riesce a dire molto di più. Si violerebbe, ancora una volta, la potentissima capacità maieutica del silenzio. Che, fra l’altro, ci portiamo anche dentro, non è solo una condizione a noi esterna, ma con la quale fatichiamo a convivere. 

Il silenzio dentro può anche essere l’incapacità di far parlare qualunque speranza. 

Come la tragedia dei suicidi, che segna in questi giorni proprio Trieste. Quarantun anni e togliersi la vita: come può essere accettato in una società che si dice civile?

In questi giorni basta una parola appena non ben calibrata e si diventa o islamofobi o antisemiti e, specularmente, o sostenitori di Hamas o complici delle politiche di Netanyahu. In altre circostanze farebbe sorridere, se non ci fossero dimensioni da tragedia, la posizione imbarazzata del governo statunitense.

Cosa può venire dalla violenza? Altra violenza. E altra ancora. E ancora. E ancora. Sino a quando il linguaggio non cambierà. Ed il silenzio, davanti al mare, sarà ascoltato.

Nel frattempo, essendo variata la ribalta degli eventi internazionali, in Ucraina la guerra continua, con un silenzio mediatico che quell’altro silenzio – quello del mare – ci contesta e ci ributta in faccia. Per chiederci chi siamo e cosa siamo diventati, e diventate.

Davvero è il caso di fare silenzio. Di smetterla.

Buona domenica.