The Rabbi is in


Ricorda, Osserva, Onora. Dai peso, dai tempo, dai spazio


di Miriam Camerini

Un mese e quattro giorni, da un venerdì a un venerdì: sono arrivata a Gerusalemme a metà Dicembre e me ne vado oggi, 5 Sabati più tardi. Sono state settimane molto belle, le prime con mia madre, padrona di casa impeccabile, pasti cucinati, spesa fatta, radio accesa su buona musica, non un cuscino fuori posto, letto rifatto dieci minuti dopo averlo lasciato: come tornare all’adolescenza, insomma.

Bello passeggiare con lei in città vecchia la sera dopo Natale e scoprire - fra il Muro del pianto e il santo Sepolcro - i nuovi mercatini con le lucine, il sachlav, budino di latte caldo e speziato di pistacchio e cannella, che sostituisce per tutti, ebrei e cristiani qui in terra d’Islam, il vin brûlé delle notti del Nord; bello tornare a cercare il panettone del pasticciere arabo che ha studiato a Milano, incontrato per caso anni fa, un altro Natale a Gerusalemme.

Bello andare a un concerto di Mozart padre e a una rassegna di commedie italiane degli anni ’50, con Sofia Loren e Franca Valeri nel loro splendore.

Bello tornare a casa da scuola e trovare le luci accese, l’acqua per il the già calda, qualcuno a cui raccontare la giornata: non sono abituata e a volte mi piace.

Altre invece preferisco avere il tempo e il silenzio (fra le due cose più preziose a cui posso pensare in generale) per starmene da sola, digerire tutto quel che ho sentito, appreso, compreso o non compreso, pensato e discusso in yeshiva, alla mia scuola rabbinica.

Un intero anno dedicato allo studio del Sabato, dello Shabbat, con le sue norme e i suoi concetti meta-normativi di una profondità arcana e futurista assieme: che cosa definisce una azione? L’attività o il motivo? L’obiettivo o l’intenzione? Il risultato o la partenza? Sono 38 anni che “osservo” lo Shabbat, nel senso che lo studio e che ne applico i divieti e gli obblighi, ricordo e consacro il giorno di sosta e di festa... e tuttavia più mi inoltro in questo anno - che per di più è “sabbatico”, poiché la Terra di Israele quest’anno riposa come da comandamento biblico - meno mi pare di aver “afferrato” questo mistero, l’invenzione più geniale di tutta la creazione: il non-creare.

Cessare, togliersi, guardare senza fare, aspettare, respirare, stare zitti dopo aver costruito mondi con la parola, e averli distrutti... Questo è shabbat, fra tante altre cose.

Un tempo recintato e invalicabile, dove le necessità del fare non entrano, davanti al quale si arrende la fretta, l’ansia, il bisogno di usare e spremere ogni minuto.

Di Shabbat precetto è dormire, bere e mangiare, cantare e pregare, passeggiare, studiare, leggere e parlare, stare con chi si ama.

Questo sabato si legge la porzione di Torah che contiene il Sinai, la “rivelazione”, i Dieci Comandamenti (tutte parole approssimative, espressioni usate in modo convenzionale per abitare un temporaneo linguaggio comune, ognuna delle quali meriterebbe molta più profondità, ma si sa: la lingua è convenzione, fa il meglio che può, che in questo caso è ben distante dal perfetto) e il “patto” tra la Divinità e il popolo di Israele, da poco redento dall’Egitto e già bello faticoso col suo “collo duro”.

Mentre lo leggo penso al mal di collo col quale sono arrivata qui un mese fa, a quanti giorni e arnica e massaggi sono serviti prima che smettesse di farmi male, il collo duro dell’ansia e dell’insonnia.

Lo Shabbat è il IV dei comandamenti e in questa fase ci viene chiesto di ricordarlo (più tardi, nel Deuteronomio, si comanderà di “osservarlo” o “conservarlo”), renderlo speciale, sacro, separato, diverso, di festa.

La riga successiva sulle due Tavole, la V, comanda il rispetto dei genitori, ordina di dar loro peso (come se fosse davvero possibile fare altrimenti): il mio compagno di studi mi ha appena mandata una bella riflessione che ha scritto per questo shabbat in cui collega le due “parole”, la quarta e la quinta, il Sabato e i genitori: l’abitudine, imparata in casa, di sostare a riflettere, la libertà e il tempo di far domande che solo il giorno di festa concede, con il suo scorrere così diverso, “garantito”, già un po’ messianico.

Un commento chassidico che abbiamo studiato questa settimana anche collega il Sabato ai genitori, invita a prendere responsabilità dei nostri errori e delle nostre difficoltà, non attribuirli a chi ci ha creati, che è poi l’unico modo per riconoscerci anche la capacità di fare meglio: “Arriva un’età in cui non conta più che cosa ti hanno fatto, ma che cosa tu sei stata in grado di farne”, mi cita spesso il mio psicoterapeuta, non ricordo mai da dove, ma sicuramente non da un Maestro chassidico, motivo per cui sobbalzo nel ritrovare qui lo stesso insegnamento. Chi ha sbagliato porta al Tempio un’offerta e poi ricomincia, e cerca di fare meglio, dice il pietista di fine ‘700, pensando a un Santuario che non esiste più da 17 secoli.. “L’olocausto che noi portiamo oggi sono i soldi, il tempo e le lacrime che spendiamo in terapia! Questo offriamo a quella relazione”, suggerisco io in un momento di illuminazione, e il mio rabbino ride di cuore, con l’aria di uno che ci è passato anche lui.

Un mio amico ha appena ricevuto le bozze del suo primo libro, una raccolta di poesie meravigliose che ha scritto mentre studiava per diventar rabbino e durante il suo primo lavoro in una comunità in Australia all’inizio della pandemia. Viene a cena da me una sera che nevischia e tira fuori il libro “provvisorio”, stampato alla buona, da sotto la giacca, dove l’ha nascosto per proteggere l’opera delle sue mani dall’inclemente tempo di Gerusalemme oggi: passiamo la sera a leggere e mi spiega fra le parole ebraiche quelle che non so: l’emozione di leggere l’opera prima di una persona a cui voglio tanto bene riempie l’aria e lo spazio fra noi, la sua felicità la conosco anch’io, è quella che Petrarca descrive così: “La penna stretta tra le dita dà piacere, posata dà compiacimento, e dona godimento non soltanto a quelli che sono presenti, ma anche a quelli che sono lontani e ancora ad altri che nasceranno”.. Una frase che ho letto al liceo e mai più scordato. Solo una ferita e basta si chiama il libro, i panni stesi in copertina sono un disegno del fratello dell’autore, cui è anche ispirata la poesia su Esaù e Giacobbe. “La cosa non dipende che da te”, recita una citazione dal Talmud Babilonese, trattato delle Benedizioni, che apre la sezione dedicata alle poesie “famigliari”, e torniamo alla frase del Maestro chassidico.

Sono state giornate piene e calme al tempo stesso, queste, per me. Con un ritmo mediorientale, notti silenziose, soprattutto più quiete dentro, che era ciò di cui avevo disperato bisogno. Il ritmo preciso e sereno dato alle prime giornate mie qui da mia madre ha avuto un impatto benefico e sano anche sul resto del soggiorno, la sua musica e il profumo del suo cibo, con le ore dei pasti regolari, il sonno e la veglia ben scanditi, sono rimasti nella casa anche dopo che lei è partita e io di nuovo ho avuto per me tutto lo spazio e tutto il tempo.

Sono stata in grado di sentire e studiare, pensare e scrivere, incontrare amici e amiche con calma e attenzione, avere conversazioni di una densità tangibile, momenti di musica e preghiera come da tempo non avevo.

Mentre volo verso l’Europa, verso nuovi giorni di treni e lezioni e concerti, palchi e microfoni e telefoni mi auguro solo che il collo possa restarmi così com’è ora: morbido.


Foto di Paola Cazzaniga

Numero 645 - 23 gennaio 2022