The Rabbi is in


Il/La Messia e le porte della Città


di Miriam Camerini

“Abbi una buona Pasqua (Pesach) e che arrivi presto il Messia (Mashiach)!” Mi augura un signore accompagnato da un bambino piccolo, vestito di nero, con cappello e peot e tutto il necessario per riconoscerlo come un haredi, (ultra-ortodsso, come dice la stampa con approssimazione), non bastasse a tale scopo il luogo dell’incontro, ossia il quartiere – appunto – haredi di Mea Shearim.

Siamo alla vigilia di Pesach a Gerusalemme e il quartiere pulsa e freme di attività preparatorie: un vecchio libraio espone fuori dal negozio in offerta speciale una cesta di haggadot – il libro che fa da “copione” al seder, la cena di Pesach, nel narrare l’uscita d’Egitto, o meglio: nel narrarne la narrazione, come è cambiata negli anni e nei secoli e nei luoghi.

Le panetterie finiscono il pane, che non potranno vendere, produrre, possedere per tutta la prossima settimana secondo la proibizione biblica di consumare cereali fermentati e lievitati. Nessuno, infatti, potrà consumarne per la settimana di Pesach, nel ricordare la frettolosa uscita dall’Egitto.

Ma non basta: le stoviglie, le posate, le pentole... Tutto deve essere reso kashèr per Pesach, ossia bollito e “pulito” dal contatto con i cibi proibiti durante la Pasqua e cucinati e mangiati il resto dell’anno. Chi non vuole o non può ricomprare tutto nuovo ogni volta bolle in enormi pentoloni di strada l’intera attrezzeria di cucina e le strade sembrano già una strana festa un po’ stregonesca, con uomini (è lavoro pesante, di chili di acciaio e molti litri di acqua) che fanno su e giù dalle case ai cortili per approfittare del pentolone di bollitura comune.

Mentre mi aggiro e guardo e annuso l’odore inebriante dell’attesa, ecco il signore che mi rivolge la parola, stanco, lui, forse, di aspettare: ecco infatti che auspica la pronta venuta del Messia, tradizionalmente atteso ogni anno alla fine di Pesach, l’ultimo giorno, cioè il settimo. “E se non fosse un Messia, ma una Messia?” Gli rispondo: non resisto. La replica ha una sua logica che sulle prime potrebbe sfuggire: “Come può essere una donna? C’è scritto nei testi che danzerà per noi, il Messia: una donna non può danzare per gli uomini... Vedi? Dev’essere un uomo per forza”. Mi ricordo del brano biblico che si legge proprio l’ultimo giorno di Pesach, quello che parla di Miriàm la profetessa, sorella di Mosè e Aronne, la quale – è vero – conduce le donne nella danza e nel canto dopo aver attraversato il Mar Rosso, ma poi - dice il verso – (Esodo 15:21) “E Miriam cantò per loro” (וַתַּ֥עַן לָהֶ֖ם מִרְיָ֑ם) dove per loro è la forma maschile, cioè generica, come ovunque. Il mio simpatico interlocutore non sa tanto che cosa rispondere, non credo abbia voglia di addentrarsi con me in grandi discussioni filologiche, mi domanda se ho figli. “Ne ho tre”, rispondo: ho deciso che d’ora innanzi, a parte che con possibili partner o persone che potrebbero presentarmene, questa sarà la mia versione ufficiale, soprattutto in Israele e nel mondo religioso: andare in giro single e senza figli a quasi quarant’anni ti espone a troppa troppa fatica, che io al momento non ho voglia di fare: spiegare, giustificare... meglio inventarsi una vita parallela e chi c’è c’è. “Che i tuoi figli siano sani!” mi augura il mio cappelluto amico per chiudere la discussione sul sesso del/la Messia. “Amèn, così i tuoi! Pesach felice” rispondo, e corro a casa, in ritardo per la lezione zoom con la mia allieva che preparo al Bat-Mitzvah, la maggiorità religiosa, figlia di una mia amica e appassionata di Torah e di Talmud, altro che Messia uomo e donne che non possono danzare.

Oggi ho tenuto una giornata intera di laboratorio in un oratorio alla periferia sud di Milano, assieme a tre eccellenti amici e colleghi, due ungheresi e un israeliano che vive a Vienna, sul tema della responsabilità e sulla domanda – messianica, anche questa – su chi porta la redenzione, che cosa la affretta.

I ragazzi erano studenti di fine liceo e inizio università, provenienti tutti e tutte da luoghi non facili: tutti vivono “alle porte della città”, proprio come il Messia descritto nel brano talmudico che assieme abbiamo studiato, discusso, recitato: Sanhedrin 98a, dal Talmud di Babilonia. Alcune ragazze vengono da Sarajevo, qualcuna di loro sta digiunando perché siamo nel mese di Ramadan, altre sono cristiane. I ragazzi vengono dalle banlieue di Parigi, molti di loro sono africani, alcuni musulmani. Il concetto di periferia qui non è estraneo a nessuna e a nessuno: facilmente “entrano” in questa storia in cui il Messia siede alla porte di una grande città (forse Roma, la capitale del mondo conosciuto da chi scrive quella storia in quel momento) assieme ai poveri e lebbrosi: mentre tutti gli altri cambiano le medicazioni dei due piedi nello stesso momento, il Messia è riconoscibile perché disfa un bendaggio, lo sostituisce col nuovo, poi toglie l’altro e fa lo stesso, dicendo: “Se fossi chiamato proprio in quel momento, non vorrei tardare”. Una delle ragazze fa notare come sia importante saper prendersi cura di se stessi senza per questo dimenticare le esigenze del prossimo: occuparsi di noi sì, ma senza dimenticare l’altro.

A Budapest lo scorso mese, alla fine dell’ultimo Shabbat che ho trascorso lì cercando di allievare con il pochissimo che potevo fare la sofferenza dei profughi e anche degli ucraini ancora dentro i loro confini, alla partenza per la frontiera del camion che tutta la settimana avevamo lavorato a riempire di cibo in scatola e prodotti di prima necessità, ci siamo abbracciati in un grande cerchio fuori dal centro comunitario dove per settimane avevamo accumulato giocattoli e pannolini, scarpe e cibo e sapone, abbiamo acceso una candela, preso in mano i profumi, versato il vino; un rabbino gentile mi ha chiesto di condurre la cerimonia di havdalà, separazione fra il Sabato di sosta e la settimana di lavoro, celebrare così, assieme, nel canto, nel lume, nel profumo di spezie e nel vino l’inizio di una nuova settimana, la fine dello Shabbat di sospensione. Veder partire il camion diretto al confine, sapere di aver lavorato duro per riempirlo e iniziare così la nuova settimana di lavoro mi ha ricordato la storia del Messia dai piedi piegati: bisogna saper prendersi cura di se stessi senza dimenticare gli altri, bisogna curare gli altri senza perdere noi stessi.


Foto di Paola Cazzaniga