Il dossier delle Cinque di Rodafà
di Stefano Sodaro
Editoriale lungo in forma di romanzo a puntate
Prima puntata in 7 capitoli
Premessa
Tempo estivo, penultima domenica di luglio. I saggi lasciano, forse, il passo ai romanzi.
Da oggi, per qualche settimana – anche se non in forma continuativa, ma diranno lettrici e lettori, se vogliono, per quanto settimane -, torniamo alle remotissime origini del nostro settimanale, che consistevano in una narrazione a puntate, proponendo già oggi un editoriale siffatto.
Tutti i nomi riportati, quando hanno colorazione negativa, da personaggi oscuri, sono del tutto inventati ed ogni riferimento a fatti e persone è da ritenersi puramente e assolutamente casuale, senza alcuna relazione con la realtà effettiva. Non così, invece, quando i personaggi sono solari, positivi, danno l’esempio, ed i nomi di cose e persone sono forieri di bellezza, non solo etica. Magari gli eventi, piuttosto, sono sempre inventati, in ogni caso, belli e brutti.
Buona lettura estiva.
Capitolo 1 – L’eco del modernismo
Le colonne bianche del Palazzo della Congregazione per la Dottrina della Fede sembravano affacciarsi su un tempo sospeso. Era l’alba. E Roma, incerta tra sonno e veglia, si preparava a custodire ancora una volta i suoi silenzi.
Seduta davanti a una pila di documenti, Livia Donati, direttrice responsabile de Il giornale di Rodafà, accarezzava con lo sguardo una lettera vergata a mano, ingiallita dal tempo. Il mittente del tempo corrispondeva a padre Salvatore Minocchi, teologo del primo Novecento, emarginato dai suoi confratelli per aver difeso un’idea scomoda: quella che l’amore erotico, anche coniugale, potesse avere cittadinanza nella Chiesa. Modernismo, lo chiamarono. E lo condannarono.
«Questo non è solo un articolo, è una chiave», disse Maria Teresa Bauman, la sua collega storica, esperta di diritto canonico orientale. «I Keshi studiati nel 2000 da Sodaro, i preti sposati cioè della Chiesa d’Oriente di Eritrea, non sono un’anomalia, ma la prova che la tradizione ecclesiastico ha già accolto il presbiterato nello stato matrimoniale. Da secoli. Solo che lo ha sancito solennemente il Concilio – il Vaticano II, al n. 16 di Presbyterorum Ordinis -, ma ora non lo dice più nessuno.»
Livia annuì. La redazione del giornale, piccola ma agguerrita, era composta interamente da donne: storiche, teologhe, giornaliste, tutte animate da un’unica tensione etica — raccontare ciò che viene nascosto. Giulia Rodighiero, giovane archivista e nipote di un sopravvissuto all’eccidio di Marzabotto, portava nel sangue una memoria silenziosa e incandescente. Ogni volta che leggeva di omertà, corruzione o potere distorto, sentiva risuonare in sé una sola parola: “Resistenza”.
Il dossier sul tavolo era esplosivo: una società assicurativa, MAR S.p.A., aveva richiesto un aumento del 38% del premio per coprire i casi di abuso clericale. E la Santa Sede, per non esporre il bilancio né la reputazione, avrebbe attivato, almeno così riferivano le fonti del giornale, un meccanismo oscuro di triangolazione finanziaria, con una società tedesca denominata Dream Now, una banca armena compiacente e una Fondazione di studi gnostici quale schermo legale.
Maria Teresa, scorrendo le carte, si fermò su un nome: Don Matthias K., sacerdote di rito bizantino, sposato, canonista esperto di ecclesiologia orientale. «Lui potrebbe parlare», sussurrò. «Lui conosce le contraddizioni. Le ha vissute.»
Giulia sollevò lo sguardo. «Ma se è sposato, non può essere stato accettato nel sistema di potere della Curia.»
«Eppure c’è. Nascosto. Come quei teologi modernisti che scrivevano sotto pseudonimo per non essere scomunicati.»
Livia prese fiato. «Allora dobbiamo fare come loro. Scrivere con coraggio. Ma senza rabbia.»
Quel giorno, nella piccola redazione de Il giornale di Rodafà, iniziò un’indagine che avrebbe intrecciato voci dimenticate, amori proibiti, e ricordi di guerra. E nel cuore del Vaticano, tra archivi blindati e sale damascate, una verità cominciò a tremare.
Capitolo 2 – Le quattro voci e il teologo scomunicato
La redazione de Il giornale di Rodafà non era un luogo, ma un’alleanza. Vi erano, in particolare, quattro donne, quattro voci, quattro sguardi, di cui non si può tacere.
Paola, con la sua scrittura che apriva spazi dove la teologia diventava carne e respiro, stava rileggendo un vecchio editoriale del 1931. Lo aveva scritto Ernesto Buonaiuti, il prete scomunicato, il professore radiato, il pellegrino di Roma. «Aveva capito tutto», disse. «Ma troppo presto.»
Maria Giovanna, seduta accanto a lei, sfogliava un volume di diritto canonico orientale. «I Keshi sono la prova vivente che il celibato non è mai stato dogma. È disciplina. E la disciplina può cambiare. Lo sapevano al Vaticano II, sembra che se ne siano dimenticati tutti oggi.»
Martina osservava una riproduzione del Cantico dei Cantici illustrata da Marc Chagall. «Buonaiuti diceva che l’eros è teologico. Che il corpo è il primo sacramento. E per questo lo hanno espulso.»
Emanuela, con il suo taccuino pieno di versi, annotava: “La scomunica è il modo in cui il potere punisce chi ama troppo la verità.”
Il nome di Buonaiuti era tornato nei documenti ricevuti da un’altra fonte anonima ancora. Una lettera, un estratto conto, una nota interna della Fondazione per lo studio dei testi gnostici. Tutto riconduceva a lui. O meglio, alla sua eredità.
«Dream Now è una struttura che nasce da una ferita», disse Paola. «Una ferita che Buonaiuti ha vissuto sulla propria pelle. La Chiesa lo ha espulso, ma ha continuato a usare le sue intuizioni. In segreto.»
Maria Giovanna annuì. «E ora, con i Keshi, la contraddizione esplode. Perché se un prete sposato può essere canonista, teologo, confessore... allora cos’è che davvero lo rende indegno? Il matrimonio? O la libertà?»
Martina si alzò. «Dobbiamo raccontarlo. Non come se un keshi fosse un martire. Ma quale reale testimone.»
Emanuela chiuse il taccuino. «Allora cominciamo da qui. Da una domanda: Chi ha paura dell’amore che pensa?»
Fu così che nacque l’inchiesta. Non contro la Chiesa. Ma per la Chiesa. Per quella parte che ancora crede che la verità non sia un pericolo, ma una promessa.
Capitolo 3 – Il Ricatto e la quinta voce
Il confessionale era vuoto, ma l’aria dentro era densa come se mille peccati vi fossero rimasti intrappolati. Don Matthias, sacerdote di rito bizantino, sedeva in silenzio, le mani tremanti, lo sguardo perso nel vuoto. Non era lì per ascoltare. Era lì per ricordare.
Aveva firmato. Aveva accettato. Aveva partecipato.
Non per avidità. Non per potere. Ma per paura.
La Fondazione per lo studio dei testi gnostici, di cui era membro fondatore, era solo una facciata. Dietro di essa si celava un sistema di controllo perfetto. Ogni membro era legato all’altro da un filo invisibile fatto di segreti, vergogna e colpa. E lui, Don Matthias, era forse il più fragile di tutti.
Aveva ceduto anni prima, quando la solitudine e il desiderio avevano superato la fede. Aveva cercato amore, ma aveva trovato solo ricatto. Ora, ogni sua azione era guidata da una voce che gli ricordava costantemente: “Se parli, cadi. E con te, cadranno tutti.”
Ma qualcosa in lui stava cambiando. Forse era la stanchezza. Forse era la verità che, come un seme, aveva cominciato a germogliare nel buio.
Una sera, in forma anonima, scrisse una lettera. La inviò a Il giornale di Rodafà. La ricevette Melissa, giovane redattrice con formazione filosofica e una passione per l’estetica del dissenso. Aveva studiato lo straniamento come forma di resistenza, e ora si trovava davanti a un testo che sembrava scritto proprio per lei.
Melissa lo lesse più volte. Era abituata a decostruire narrazioni, ma quella era diversa. Era intima. Umana. Vera.
Ne parlò con le altre: Paola, Maria Giovanna, Martina, Emanuela. E tutte capirono che quella voce anonima non era solo una denuncia. Era una confessione. E forse, una richiesta di aiuto.
Melissa scrisse una nota interna: “Il corpo del prete non è solo luogo di peccato. È anche luogo di redenzione. Se lo si ascolta.”
Fu Maria Giovanna a suggerire di contattare un altro esperto di diritto canonico orientale. Fu Martina a proporre di rileggere il Cantico dei Cantici come chiave teologica. Fu Emanuela a scrivere un editoriale poetico sul silenzio che protegge e quello che uccide. Fu Paola a dire: “Questa storia non è solo ecclesiale. È umana.”
E fu Melissa, infine, a rispondere alla lettera anonima con una domanda: “Se l’amore è davvero forte come la morte, perché abbiamo così tanta paura di viverlo e raccontarlo?”
Capitolo 4 – Il Tavolo di Vetro
Nella saletta vetrata della Casa dell’Editoria Libera, nel cuore del quartiere Testaccio, il sole filtrava obliquo tra gli alberi di piazza Santa Maria Liberatrice. Otto donne sedevano attorno a un tavolo circolare: era la prima riunione collegiale della redazione de Il giornale di Rodafà da quando le due anime del progetto — la storica direzione di Livia Donati, e le rubriche editoriali curate da Paola, Maria Giovanna, Martina, Emanuela e Melissa — avevano deciso di camminare insieme.
Maria Teresa Bauman e Giulia Rodighiero, fedeli collaboratrici di Livia, avevano portato le ultime carte ricevute dalla fonte anonima. Contratti, e-mail criptate, riferimenti canonici, ma anche una scheda manoscritta con il nome di Ernesto Buonaiuti, accanto a quello di un certo “Keshi Mathias”.
«È come se ci fosse un filo rosso che lega tutto,» disse Giulia, posando i fogli con delicatezza. «Il ricatto, il modernismo condannato, i Keshi... e ora anche l’amore. Non come problema, ma come chiave.»
Paola annuì, sfogliando la sua copia del Diario intimo di Buonaiuti. «Il problema non è che la Chiesa non conosca queste storie. È che le racconta solo quando è troppo tardi.»
Melissa sorseggiava lentamente il suo tè ai fiori blu. Sul quaderno aveva disegnato un diagramma: al centro, la parola “libertà”. Intorno, sette nodi: corpo, desiderio, vocazione, disciplina, memoria, silenzio, linguaggio. «Credo che dobbiamo partire da qui. Ogni nodo è una domanda. Ogni domanda, un articolo.»
Maria Giovanna intervenne con tono fermo: «E ogni articolo deve avere radici nel diritto. Non possiamo solo narrare. Dobbiamo documentare.»
Martina mostrò una fotografia di un affresco medievale, dove il Cantico dei Cantici era rappresentato come un duello d’amore tra Dio e l’anima. «E se fosse tutto lì? Nel desiderio come via di conoscenza?»
Emanuela chiuse il suo taccuino poetico e disse sottovoce: «Livia, la tua idea di raccontare la verità senza gridarla... sta diventando metodo. Non solo stile.»
Livia Donati le sorrise. «Questo giornale è come il modernismo cattolico: troppo vivo per essere sepolto. Troppo umano per essere ignorato.»
Fu allora che, in quel momento silenzioso, emerse una decisione condivisa. L’inchiesta non sarebbe stata divisa in rubriche, articoli o sezioni. Sarebbe diventata un dossier corale. Un mosaico di voci, competenze e memorie. Ogni redattrice avrebbe curato un nodo. Ogni nodo, una parte dell’enigma: dai Keshi alle implicazioni canoniche, dai ricatti alle teologie marginali, dalla figura di Buonaiuti all’ombra di Marzabotto.
In fondo alla sala, una radio accesa trasmetteva il suono delle campane del Gianicolo. E quando il rintocco finì, nessuno parlò. Ma tutte sapevano che l’indagine era davvero cominciata. Non più tra le pagine. Ma dentro di loro.
Foto di persone immaginarie, generata tramite IA per questo numero del nostro settimanale
Capitolo 5 – L’editore e il codice silenzioso
La luce era quella d’autunno, obliqua e dorata, che trasformava anche le stanze più modeste in piccoli teatri. Nel salone della Fondazione Rodafà, dove il giornale aveva il suo archivio storico, si respirava un’atmosfera sospesa. Come in attesa.
Livia Donati sfiorava con reverenza una copertina rigida: Keshi. Preti sposati nel diritto canonico orientale. Lo aveva scritto Stefano Sodaro, amico di Donato Forasse, ultra-centenario, ormai, fondatore del giornale, nato agli inizi del Novecento. Veniva considerato teologo, canonista, ma soprattutto appassionato di storia dell’amore nella Chiesa. Quando decise di creare Il giornale di Rodafà, lo fece con un solo intento: custodire la complessità. E la nascita del periodico era avvenuta a Trieste, in tempi decisamente non facili.
«Senza le sue idee, noi non saremmo qui», disse Maria Giovanna, mentre prendeva nota di un passaggio del libro. «Qui non si parla solo di diritto. Si parla di identità. Di riconoscimento.»
Giulia osservava una foto in bianco e nero: Donato, giovane, con una cartella piena di appunti e un sorriso ironico. «Diceva sempre: la teologia non è per spiegare Dio, ma per capire come lo tradiscono gli uomini.»
Melissa, assorta nel suo diagramma concettuale, tracciò un cerchio intorno a tre parole: Keshi, Modernismo, Memoria. Poi alzò lo sguardo. «E se fosse un codice? Un modo per decifrare la Chiesa dal margine?»
Martina si avvicinò alla vetrina dei volumi antichi e notò una lettera incorniciata. Era firmata da Ernesto Buonaiuti, indirizzata proprio a Forasse. “La ringrazio per la sua fiducia. Il margine è il luogo da cui nasce il senso.” Era datata 1937.
Paola sorrise. «Quindi Buonaiuti e Donato Forasse si sono scritti? Questo cambia tutto.»
Emanuela annotò sul bordo della sua pagina: “Il giornale è stato fondato da chi non ha avuto paura di pensare l’amore come resistenza.”
Fu allora che decisero. Il cuore dell’inchiesta non sarebbe stato solo la denuncia. Ma il racconto di un’eredità: quella di Donato Forasse, che aveva intrecciato il diritto e la poesia, l’Oriente e il modernismo, la Chiesa e la memoria delle donne.
Livia si alzò e guardò la fotografia appesa sopra la porta: Forasse, davanti alla prima macchina da scrivere del giornale, circondato da carte e sogni. «È tempo di scrivere di nuovo. Ma stavolta, insieme.»
Le otto si guardarono. E la stanza, che sembrava silenziosa, si riempì di voci.
Capitolo 6 – Superstar
La redazione era silenziosa, ma non per mancanza di idee. Era il silenzio che precede una domanda difficile.
Melissa aveva appena ricevuto una notifica sul suo telefono. La notizia rimbalzava ovunque: Cynthia Erivo sarà Gesù in Jesus Christ Superstar. Tre serate, dal primo al 3 agosto, all’Hollywood Bowl di Los Angeles. Una donna nera, queer, pluripremiata, nel ruolo più sacro e controverso della storia del teatro musicale.
«È solo un musical», aveva detto Erivo in un’intervista. «Nel posto più inclusivo del mondo.»
Melissa lesse la frase ad alta voce. Martina si fermò, la penna sospesa sopra un disegno. «È provocazione. Ma anche teologia incarnata.»
Paola annuì. «Il corpo di Gesù interpretato da chi è stato escluso. È il rovesciamento perfetto. Come i Keshi. Come Buonaiuti.»
Maria Giovanna sfogliava il codice canonico. «La reazione dei conservatori è identica. Blasfemia, dicono. Ma non è forse blasfemo negare che Dio possa parlare anche attraverso chi non corrisponde ai nostri schemi?»
Emanuela scrisse sul suo taccuino: “Gesù queer, Buonaiuti scomunicato, i Keshi ignorati. Forse la verità non è dove la cerchiamo. Ma dove ci scandalizza.”
Giulia Rodighiero, che aveva appena ritrovato una lettera del 1944 scritta da un parroco di Marzabotto, la lesse in silenzio. Parlava di perdono, di corpi straziati, di fede che non salva. «Anche lì», disse, «la verità era nel corpo. E il corpo era stato distrutto.»
Livia Donati si alzò. «Cynthia Erivo non è solo un’attrice. È un segno. Come lo sono i nostri articoli. Come lo è questo giornale.»
Fu allora che decisero di scrivere un editoriale collettivo: “Superstar: quando il corpo diventa teologia”. Un testo che avrebbe intrecciato l’evento teatrale con la storia dei Keshi, con Buonaiuti, con Marzabotto, con la domanda che non smetteva di bruciare: Chi ha il diritto di incarnare il sacro?
E mentre fuori Roma si preparava all’afa di agosto, dentro la redazione si accendeva una luce. Non quella della polemica. Ma quella della comprensione.
Capitolo 7 – Il Ricatto del Silenzio
Il vento di agosto non portava sollievo. Solo polvere, e un senso di attesa. Nella sede della Fondazione per lo studio dei testi gnostici, una stanza era rimasta chiusa per anni. Nessuno osava entrarvi. Nessuno, tranne Elena Verri.
Aveva ricevuto una chiave. Nessuna lettera, nessuna spiegazione. Solo una chiave, e un biglietto: “Il silenzio non è sempre protezione. A volte è complicità.”
La stanza era piccola, con scaffali di legno antico e una scrivania coperta da fogli ingialliti. Al centro, una cartella con il logo della società Dream Now S.p.A.. Dentro, documenti contabili, visure, contratti. Ma ciò che colpì Elena fu una lettera manoscritta, firmata Don Matthias.
“Ho accettato il ricatto. Non per debolezza, ma per disperazione. Mi hanno usato come garante, come esperto, come complice. Ma io volevo solo amare. E nella Chiesa, l’amore fisico non ha cittadinanza, ormai ne sono certo.”
Elena lesse e rilesse. Ogni parola era una ferita. Ogni frase, una richiesta di redenzione.
Nel frattempo, Andrea Leoni ricevette una chiamata da un numero sconosciuto. Una voce femminile, decisa: «Lei ha raccontato la verità. Ma non tutta. C’è un secondo livello. Un archivio parallelo. Una banca in Sud America. Un nuovo schema. E un nome: Rodafà.»
Andrea rimase in silenzio. Quel nome lo aveva già sentito. Era il titolo di un giornale molto vicino alle teologie femministe, nato come progetto editoriale e diventato luogo di resistenza teologica. Alcune redattrici — Emanuela, Maria Giovanna, Martina, Melissa e Paola — avevano denunciato il sistema di potere patriarcale ecclesiastico, ma in forma, per così dire, poetica. Ora, forse, era tempo di tornare alla prosa.
Don Matthias, nel monastero di Heiligenkreuz, ricevette una copia dell’articolo Superstar. Lo lesse in silenzio, poi scrisse una frase nel suo diario: “Se una donna può interpretare Cristo, forse un uomo può confessare l’amore.”
Fu allora che Elena, letta la frase del prete tedesco di rito bizantino, decise di convocare un incontro. Non in un’aula universitaria. Ma nella cappella sconsacrata di San Giovanni in Laterano. Lì, tra le pietre e le ombre, si sarebbero riuniti: teologi, giornalisti, redattrici, ex sacerdoti. Non per accusare. Ma per ascoltare.
Il titolo dell’incontro era semplice:
“Il Vangelo del Corpo: teologia, eros e verità nella Chiesa ferita.”
E mentre Roma si preparava alla festa dell’Assunta, un’altra assunzione prendeva forma: quella della responsabilità.
Tutte le foto presenti in questo editoriale sono di persone immaginarie, generate tramite IA