DIRITTO ECCLESIALE E LIBERTÀ
Rubrica a cura di Maria Giovanna Titone
Il diritto canonico nel tempo dell’incertezza: oltre il tramonto delle ideologie
All’interno di una conversazione privata mi è stata posta la domanda: «Ha ancora senso studiare diritto canonico?» La domanda era sincera, non provocatoria, ma affondava nel cuore di un dubbio moderno: che valore può avere, oggi, dedicarsi a un corpus normativo antico, nato in seno a un’istituzione religiosa in un’epoca in cui Dio sembra essersi ritirato dal discorso pubblico?
La questione è tutt’altro che banale. Nel secolo breve, dominato da ideologie totalizzanti e dalla secolarizzazione accelerata, il diritto canonico è spesso stato percepito come un fossile giuridico, materia per specialisti o per ecclesiastici. Ma oggi, con il tramonto delle grandi narrazioni ideologiche e la crescente fragilità del pensiero giuridico contemporaneo, qualcosa è cambiato.
Il diritto canonico, infatti, ha attraversato i secoli non solo come insieme di regole, ma come sistema organico capace di riflettere sul rapporto tra autorità e coscienza, tra norma e spiritualità. In un tempo in cui le istituzioni arrancano nel dare senso alle proprie legittimità e in cui il diritto si piega spesso alle logiche del consenso o dell’efficienza, il diritto canonico offre una prospettiva alternativa: quella di un diritto che non nasce per amministrare potere, ma per custodire una comunità.
Non è un diritto neutro, ma profondamente orientato: alla dignità della persona, alla verità, alla giustizia come carità in atto. Il Codex Iuris Canonici lo afferma con nettezza: salus animarum suprema lex esto (can. 1752). La salvezza delle anime – principio di vertice dell’ordinamento canonico – non è solo un’affermazione teologica, ma anche una direzione etica e giuridica: ogni norma deve tendere al bene integrale della persona, anche laddove ciò richieda prudenza, discernimento, pazienza.
In questa luce si comprende il valore della pastoralità del diritto, una dimensione che distingue radicalmente il diritto canonico dagli ordinamenti civili. La legge, nella Chiesa, non è una macchina punitiva, ma un mezzo per accompagnare, per guarire, per ricomporre. Il giudice canonico, per esempio, non è chiamato solo ad accertare fatti e applicare sanzioni, ma a cogliere il cuore delle situazioni, a promuovere la riconciliazione, a proteggere l’integrità della coscienza.
Pensiamo al processo di nullità matrimoniale: non si tratta di dissolvere un vincolo, ma di cercare la verità di un legame alla luce del bene delle persone coinvolte. Giustizia, in questo contesto, è fare verità nella carità.
Anche la pena canonica non è mai fine a sé stessa. Ha una funzione medicinale, educativa, orientata alla conversione e alla restaurazione della comunione. È, ancora una volta, un diritto che si prende cura. Che ascolta. Che non rinuncia alla verità, ma la annuncia nella forma della misericordia.
In un’epoca di crisi antropologica e di impoverimento del linguaggio giuridico, il diritto canonico ha qualcosa da dire proprio perché viene da un’altra logica: non quella del potere, ma quella del servizio. È un diritto che ricorda al giurista – e non solo a quello ecclesiastico – che il fine ultimo della legge non è la norma, ma la persona. Non l’ordine per l’ordine, ma la giustizia come armonia vivente.
Torno allora alla domanda iniziale: «Ha ancora senso studiare diritto canonico?» La mia risposta è sì, ha più senso che mai. Perché studiare diritto canonico significa confrontarsi con una visione del diritto che ha ancora un’anima, che osa porre domande radicali, che non separa mai il diritto dalla vita. In un tempo che tende a dimenticare la persona, il diritto canonico la rimette al centro. E questo, oggi, è un atto di resistenza culturale. Ma anche di speranza.