Vergine Annunciata (1475 ca.) - Antonello da Messina (1430-1479), Galleria Regionale della Sicilia - immagine tratta da commons.wikimedia.org
La stima
C’è una forma di apprendimento che non passa dai manuali, non si sedimenta con i riassunti né si rafforza con le mappe concettuali a colori: è quella che si costruisce silenziosamente, giorno dopo giorno, nella stima. Una parola démodé, certo, che non fa rumore, non buca lo schermo e non è stata ancora brevettata come hashtag motivazionale. Eppure è proprio la stima, quel sentimento sobrio ma profondissimo, a rendere possibile il miracolo più raro della formazione: voler imparare da qualcuno senza sentirsi costretti, volerlo seguire non per dovere ma per inclinazione, come il girasole con il sole – per citare un Caravaggio che, guarda caso, aveva ben chiara la differenza tra luce e apparenza. La stima è ciò che ci fa accettare la superiorità altrui senza umiliarci, anzi, elevandoci. È ciò che trasforma l’autorità in autorevolezza e l’insegnamento in eredità morale. Quando c’è, persino la critica più dura diventa un dono, un atto di fiducia; quando manca, anche il complimento più sfavillante sa di plastica, di protocollo, di frasi fatte che rimbalzano come palline da ping pong nei corridoi delle istituzioni.
E non è una questione anagrafica, intendiamoci: si può avere bisogno di un maestro a vent’anni come a cinquanta, perché imparare non è un’attività a tempo determinato, non scade con l’età né si esaurisce con i titoli. Al contrario, con il tempo si affina il gusto per ciò che conta davvero, e si comprende che i maestri non sono quelli che parlano di più, ma quelli che vivono in modo tale che, osservandoli, ti viene voglia di diventare migliore. È una forma alta di pedagogia silenziosa, che ricorda certe Madonne di Antonello da Messina: uno sguardo calmo, uno spazio di quiete, e dentro quello spazio tutta la verità possibile. La stima nasce lì, in quel margine sottile tra l’ammirazione e l’affidamento, tra il riconoscere un’intelligenza e decidere di fidarsi di essa.
Chi insegna – nella scuola, nell’università, in un’aula di tribunale o in un consiglio comunale – ha un potere delicato e pericolosissimo: può ispirare o può stancare. E non ci si illuda che basti conoscere bene la materia: il sapere, da solo, non scalda. Si può essere un dizionario ambulante e non lasciare traccia, mentre un gesto giusto, un silenzio eloquente, una coerenza tenace possono trasformare anche la più arida delle discipline in una scuola di vita. Ma questo richiede una qualità che nel nostro tempo è merce rara quanto il pudore nei talk show: la responsabilità verso chi ci guarda. Perché, diciamolo, chi è in alto non è mai solo: è specchio, è misura, è promessa. E quando chi dovrebbe guidare si mostra meschino, narcisista o semplicemente mediocre, non tradisce solo se stesso: delude chi lo guarda, e quel disincanto lascia cicatrici invisibili, come certe crepe nei muri antichi che nessuno ripara perché “sono lì da sempre”.
La stima, quando è autentica, non chiede orpelli: le basta la semplicità di un gesto coerente, la discrezione di chi non ha bisogno di farsi notare per esserci, come Virgilio nella Commedia, che non salva Dante con effetti speciali ma con fermezza, misura, e quella strana, rara umiltà di chi sa di essere guida ma mai protagonista. Ecco il vero maestro: colui che sa stare un passo indietro per lasciare l’altro andare avanti. E alla fine, forse, non serve molto altro: basta una presenza limpida, una parola giusta, una coerenza tra il dire e il fare. Perché la stima non genera potere, non produce consenso, ma restituisce solo riverberi felici – quelli che restano, silenziosi ma incancellabili, quando tutto il resto svanisce. E allora il monito è per ciascuno di noi, perché in ogni ruolo, in ogni gesto, siamo sempre entrambe le cose: qualcuno che osserva, e qualcuno che viene osservato.