Domande e risposte a settembre - 3
di Dario Culot
Angeli, dsegno di Rodafà Sosteno
9. Ma è vero che Dio odia i peccatori? Questo allora non è in contraddizione col fatto che Dio è Amore?
Certo che c’è una contraddizione. Ma cosa diceva la Bibbia? il Signore detesta i peccatori (Sir 12, 6), e li elimina dalla terra (Sal 37, 38; 104, 35). Il Dio della religione premia i buoni, ma castiga duramente i disobbedienti, i peccatori, gl’impuri. Questo ci ha insegnato anche il nostro magistero. E ancora tanti credono a questa verità. Ad esempio, su uno degli ultimi numeri di “Famiglia cristiana” [1] un lettore si duole del fatto che la Chiesa si dimostri pavida e timorosa, non tuonando più contro gli adulteri che abbandonano la propria famiglia per unirsi a un’altra donna, “avviandosi così sulla via della perdizione”. Cioè, questo signore è convinto che, per fortuna, anche se la Chiesa è pavida, Dio metterà le cose a posto punendo duramente questi adulteri.
Ai tempi di Osea, la moglie che veniva colta in adulterio andava semplicemente uccisa[2]. La Bibbia ci racconta che Osea, al momento in cui potrebbe chiedere la morte di sua moglie, si accorge che l’ama ancora, l’accoglie e la perdona anche se è più volte fuggita con degli amanti; ma soprattutto la perdona prima che lei gli chieda il perdono; capisce che prima viene il perdono e poi, eventualmente, nella persona verrà il pentimento: decide di sedurla e di portarla in un nuovo viaggio di nozze (Os 2, 16-18), nel deserto, perché all’epoca il deserto era il luogo della essenzialità, dove si può scoprire chi siamo veramente. Per questo il deserto, come la montagna, pur essendo luoghi profani, possono portare a un’esperienza di pienezza, e al contatto con Dio. E per Osea Dio si comporta con gli uomini come lui si comporta con sua moglie: l’amore prevale. In allora (ma è cambiato qualcosa oggi?) queste idee andavano talmente controcorrente che Osea era stato anche preso per pazzo (Os 9,7), come del resto accadrà a Gesù,[3] né si sa se alla fine egli è riuscito a ricostruire il rapporto affettivo con sua moglie. Ma questa è parola di Dio!
Nella sua breve vita terrena, Gesù ha risanato, ha cercato di alleviare le sofferenze umane, ha affermato che vuole portare la gioia perfetta (Gv 15, 11), ma non ha mai castigato qualcuno,[4] né minacciato di castigare qualcuno neanche quando l’han fatto soffrire (1Pt 2, 23), e men che meno ha ucciso qualcuno, neanche mandandolo a morire per lui (cosa che normalmente fanno i re): e ricordiamo che, per i cristiani, l’immagine di Dio non può essere diversa da quello che Gesù fa o dice. E sempre secondo Gesù, non è vero che Dio punisce duramente i peccatori. Infatti, Luca inizia il suo Vangelo (Lc 2, 8ss.) rovesciando proprio questo pregiudizio religioso che è arrivato fino a noi: la luce dell’amore di Dio avvolge la categoria dei peccatori, rappresentata nello specifico dai pastori, ed essi, dopo un attimo di terrore, restano sconcertati. Sapendo di appartenere alla categoria dei peccatori, sapendo di “essere avviati sulla strada della perdizione”, sanno anche che il Messia con la sua venuta avrebbe dovuto eliminarli dalla faccia della terra; invece, al momento dell’incontro, non solo non vengono ammoniti, non vengono annientati, non vengono castigati, ma vengono avvolti dalla luce dell’amore divino: siamo davanti un Padre che comunica vita abbondante alle persone, qualunque sia il loro comportamento. Questo era talmente sconcertante per allora, che neanche Maria capisce e deve meditare queste cose nel cuor suo.
Dopo duemila anni, questa resta una novità sconcertante difficile da accettare per chi è convinto che l’amore di Dio va meritato con duri sacrifici. Ancora oggi, in buona parte della Chiesa, Dio sarà anche Amore, ma pratica innanzitutto la giustizia, la quale richiede innanzitutto ordine e obbedienza. Perciò la disobbedienza deve essere punita. In tal senso si è espresso ancora papa Benedetto XVI[5] in sintonia con l’art. 470 del Catechismo di Pio X, il quale affermava solennemente che siamo senza dubbio obbligati ad obbedire alla Chiesa. Perché addirittura senza dubbio, visto che già Lattanzio (260-330 d.C.) correttamente osservava che ciascuno di noi, quando ascolta un altro che gli prescrive qualcosa, non vuole che gli sia imposto l’obbligo di obbedire, quasi gli fosse tolto il diritto alla libertà. Se poi colui che predica non osserva per primo quello che vuole imporre agli altri, che spudoratezza è mai quella di imporre a un uomo libero leggi alle quali chi comanda non obbedisce per primo?
E giustamente si chiede il prof. Castillo: bisogna veramente obbedire a tutto ciò che comandano i vescovi (successori degli apostoli)? Quanti vescovi vivono in grandi palazzi episcopali, si muovono con veicoli di lusso, non hanno problemi economici? Ma allora bisogna anche obbedire al loro modo di vivere? Perché dovremmo sottometterci a uomini la cui esemplarità, in non pochi casi, è così lontana dal Vangelo?[6]
È fuor di dubbio che oggi gli uomini preferiscono gli esempi alle parole, perché parlare è facile, agire difficile; e coloro che impongono regole, ma per primi non le osservano, non godono ormai di alcun credito[7]. Tornando allora a Lattanzio, questo teologo antico ben può dire che Gesù è legge vivente,[8] non perché dà precetti, ma perché è coerente nella sua vita col messaggio che trasmette, sì che, visto dall’esterno, il suo seguace si comporta in apparenza come se obbedisse a dei precetti formulati da Gesù, ma in realtà si comporta così perché sta solo imitando con convinzione intima il comportamento di Gesù. “Venir dietro di me” designa la sequela che ha per centro l’imitazione del Maestro, non l’obbedienza pronta e assoluta ai suoi ordini, cosa che del resto Gesù non ha mai chiesto. C’è la conversione. Quando Gesù dà un nuovo comandamento (Gv 15, 12), cioè di amarsi gli uni gli altri, questo non può essere un ordine, perché non si può comandare di amare. Di più, in varie occasioni Gesù fa chiaramente intendere che la sua attività non solo non può essere assoggettata a norme esterne, ma che il bene dell’uomo è l’unica finalità del suo agire, e solo questo bene giudica la validità della legge[9] (Mc 3, 4). Non siamo dunque mai davanti a un’obbedienza fiscale tipica del servo, visto che non siamo servi di Dio.
10. Perché solo il magistero della Chiesa e non un laico può diffondere e spiegare a messa il Vangelo di Gesù?
Si fa così, ma non dovrebbe essere così. Oggi, il vangelo può essere ufficialmente divulgato solo dal magistero della Chiesa perché così – dice sempre la Chiesa – avrebbe voluto Gesù Cristo in persona. Invece il Vangelo di Marco ci dice subito qualcosa di molto diverso, visto che il primo divulgatore della Buona Novella non è un apostolo, non è un sacerdote, ma un lebbroso, cioè un peccatore anonimo che è stato purificato perché ha semplicemente accolto il messaggio di Gesù. Un laico peccatore, che ha appena sperimentato su di sé il perdono di Dio, comincia a predicare questo messaggio evangelico da tutte le parti: «ma quegli (cioè il lebbroso) allontanatosi cominciò a proclamare e a divulgare il messaggio»[10] (Mc. 1, 45). L’ormai ex lebbroso non va al Tempio a ringraziare Dio; non va neanche a raccontare in giro agli altri il fatto della propria guarigione miracolosa, ma è il primo ad andare in giro a divulgare “il messaggio”.
E qual è questo messaggio? Appunto che non è vero che Dio discrimina le persone, non è vero che allontani da sé gli impuri e i peccatori “avviati sulla strada della perdizione”, ma l’amore di Dio è rivolto a tutti. Questa è la Buona Novella per i peccatori: Dio non è il dio terribile predicato dai sacerdoti, non è il dio della religione che discrimina e castiga duramente, ma Dio è un Padre e ancor di più una Madre il cui amore si rivolge a tutte le persone, anche a quelle che la religione ha discriminato. Ricordiamoci che Gesù addirittura sostituisce la parola “Dio” con “abba” (papà).
Sarà sperabilmente questo amore a ricondurre chi sbaglia sulla retta via. Nell’episodio in cui i quattro portano a Gesù il paralitico scoperchiando il tetto (Mc 2, 1ss.), per l’istituzione religiosa di allora Gesù sta bestemmiando perché concede il perdono saltando piè pari le condizioni che Dio stesso aveva dato per concedere il perdono: bisognava andare al Tempio, pregare, digiunare e fare una penitenza. Per di più né il paralitico né i quattro hanno chiesto perdono. Ora, più o meno la Chiesa chiede ancora oggi la stessa trafila. E allora che direbbe l’istituzione di oggi, col suo Catechismo, se il fatto si ripetesse negli stessi termini davanti a un successore degli apostoli? Eppure, ciò che Gesù ha fatto allora col paralitico deve valere anche oggi. I peccati sono perdonati senza nemmeno nominare Dio, senza che il peccatore chieda perdono, senza aver prima confessato i propri peccati, senza aver prima recitato l’atto di dolore, senza aver prima fatto penitenza. L’istituzione di oggi, che ritiene inconcepibile una remissione di peccati ove non venga richiamato il nome di Dio (n.1461 Catechismo), si allarmerebbe come si era allarmata l’istituzione di allora. Secondo Gesù, invece, il rapporto con Dio non si stabilisce attraverso pentimento e l’accoglienza del perdono (al contrario del n.1864 Catechismo), ma con una conversione, con una vita di adesione al suo messaggio, come ha fatto l’ex lebbroso, primo divulgatore delle Buona Novella.
Naturalmente se prendiamo l’episodio del lebbroso come un mero racconto della sua miracolosa guarigione, più che tanto la storiella non ci tocca: visto che diciamo che Gesù è Dio, è ovvio che poteva fare tutti i miracoli che voleva. Ma la Buona Novella, intesa nel senso appena visto, è sempre attuale, ed interessa tutti, perché a tutti interessa un Padre che tifa sempre per tutti i suoi figli, che non smette mai di sostenere l’uomo: «Tu ci ami ogni giorno, anche se noi non sempre lo vediamo. Dacci occhi, Signore, per vederlo, e dacci cuore per crederlo, al di là d'ogni umana percezione. Dacci forza per camminare, ma quando la nostra forza si esaurisce, dacci fede per credere che tu cammini anche per noi»[11]. Se crediamo che in Gesù si manifesta questo Dio-abba, questa è la nuova ed unica immagine di Dio in cui dobbiamo credere, mentre dobbiamo buttare le immagini di Dio che non corrispondono a quella fornitaci da Gesù.
A questo punto, come ha fatto il lebbroso, anche noi possiamo prenderci la libertà di predicare in giro la Buona Novella. Solo, però, se poi il nostro comportamento corrisponde a quello che predichiamo.
11. Perché veniamo al mondo? Ci dicono per prova, ma perché Dio vuole provarci se è già onnisciente? Se deve provarci vuol dire che non sa tutto e non è onnisciente.
In effetti ci è stato spesso spiegato che Dio ci prova per vedere come reagiamo; in questi termini ci hanno spiegato – ad esempio - il sacrificio di Isacco (Gn 22, 1-19). Dio prima ordina ad Abramo di sacrificargli suo figlio Isacco, cosa all’epoca abbastanza comune in quel mondo primitivo; poi, all’ultimo secondo, lo ferma, dopo aver visto che Abramo era pronto a sgozzare suo figlio. Perché? Perché, ci è stato spiegato, Dio ha voluto mettere alla prova Abramo[12] per vedere se amava di più Dio o il proprio figlio, e nessun sacrificio è troppo duro quando il Signore lo esige. Ma così si finisce per trasformare in atto eroico anche il crimine più orrendo. Se prendiamo l’episodio alla lettera, per la nostra mentalità odierna, saremmo davanti a un dio mostruoso sovrapponibile al dio Moloch e peggiore della media degli uomini, e anche Abramo non sarebbe affatto un uomo di grande fede ma semplicemente un padre disumano, capace di compiere un orribile delitto per una malintesa idea di fede perfetta, che si identifica nell’obbedienza cieca, pronta e assoluta. Capite la pericolosità di simile spiegazione? Se domani mi si dice che Dio vuole che ammazzi tutti gli infedeli per dimostrare che lo amo, lo farò volentieri e con gusto. Anzi, ricordava giustamente Alberto Maggi: mai si ammazza con tanto gusto come quando si uccide in nome del proprio Dio unico; che si chiami Yhwh, o Allah, o Signore, non fa alcuna differenza[13].
Invece noi non siamo venuti a questo mondo per prova, per provare che amiamo Dio sopra ogni cosa. E perché mai Dio avrebbe dovuto metterci alla prova? Sarebbe sciocco da parte di Dio volerci provare, visto che si prova solo quanto non si conosce, mentre Dio sa già tutto, per cui sapeva già perfettamente qual era il livello di fedeltà di Abramo, e conosce anche quello di ciascuno di noi.
Allora che significato possiamo dare all’episodio? Ancorché – come mi ha spiegato il rabbino Haddad di Lubiana - la prima spiegazione che qui indico non faccia parte della tradizione ebraica, mi sembra plausibile la tesi (sempre di fra Alberto Maggi) secondo cui si vede che Elhoim (Gn 22, 1) ordina il sacrificio umano, ma Yhwh (Hashèm = il nome) lo ferma (Gn 22,11): questo significa che il nuovo Dio di Israele – a differenza del mondo religioso dei popoli vicini, ancora pieno di divinità crudeli come l’Elohim-Moloch – comincia a imporsi e non vuole sacrifici umani: si verifica cioè una vera e propria rottura con la pratica del passato; la spiritualità cambia e cominciamo ad avere un’immagine di Dio meno crudele e più umana.
Invece secondo la spiegazione datami dal rabbino, la prova non sarebbe tanto uccidere il figlio, cosa abbastanza comune e quindi accettata a quei tempi e in quell’area; uccidendo il proprio figlio, la prova stava nel rinunciare a portare avanti il proprio credo, perché il figlio è colui che porta avanti la fiaccola del credo del proprio padre[14].
Ma già il noto Martin Buber si era posto il problema in termini diversi: “Chi è colui di cui Abramo ode la voce?”[15] Sicuri che sia stato Dio? Infatti aggiunge che Michea (Mich 6, 7-8), di fronte all’uomo che si chiede se dovrà sacrificare il proprio figlio a causa dei propri peccati, Dio risponde: “Ti è stato manifestato… quanto Yhwh chiede da te: praticare la giustizia, amare la misericordia, camminare umilmente col tuo Dio,” escludendo con ciò di aver mai chiesto sacrifici umani. Abbiamo un Dio a due facce? E rimanendo su Martin Buber,[16] egli chiarisce anche che ogni uomo che viene al mondo porta qualcosa di nuovo e di unico che non è mai esistito. Quindi ognuno deve rendersi conto che lui è unico al mondo nel suo genere (anche se nel mondo siamo otto miliardi), e che al mondo non è mai esistito nessun uomo identico a lui: se infatti fosse già esistito al mondo uno identico a lui egli non avrebbe motivo di essere al mondo. Ogni singolo uomo, perciò, deve portare a compimento la propria natura in questo mondo. Ciascuno è tenuto, nel suo cammino di vita, a sviluppare e dar corpo a questa unicità e irripetibilità, non invece a rifare ancora una volta ciò che un altro – fosse pure la persona più grande - ha già realizzato. Dunque, nessuno deve fare il già fatto, ma realizzare quello che ancora c’è da fare. Il rabbino Sussja aveva afferrato talmente bene questo concetto, da esclamare in punto di morte: «Nel mondo futuro non mi si chiederà “Perché non sei stato Mosè?”; mi si chiederà invece: “Perché non sei stato Sussja?”». Abramo, davanti alla tentazione di seguire la tradizione, deve dimostrare chi è veramente: deve essere Abramo. A lui la scelta se sacrificare il figlio o meno. Non necessariamente, dunque, deve aver sentito veramente la voce di Dio, come sembra dal racconto; ben poteva essere la voce della sua coscienza.
Allora, alla fine del nostro cammino probabilmente ci verrà chiesto semplicemente chi siamo diventati. “Chi sei?”[17] Questa sarà la domanda cruciale che ci verrà posta. Non importerà cosa abbiamo fatto nella nostra vita. Se siamo stati uno stimato professionista, un eremita o una prostituta fa ormai parte del passato. Non ci verrà chiesto cosa abbiamo fatto, se abbiamo conquistato il mondo o meno, ma solo chi siamo nel momento in cui abbiamo dato addio al nostro corpo. L’importante allora è cosa siamo diventati attraverso la nostra vita, attraverso le nostre esperienze: ecco perché noi – compiaciuti dall’applauso del mondo – facciamo ancora fatica a capire che le prostitute ci precederanno nel Regno dei cieli (Mt 21, 31) e crediamo che questa sia una semplice battuta da non prendere troppo seriamente. Perché? Per il semplice fatto che non ci fermiamo a pensare che, attraverso la sofferenza di una vita di sfruttamento e umiliazioni sulla strada, la prostituta può aver raggiunto una dimensione spirituale molto più matura, molto più sensibile e aperta nei confronti degli altri, rispetto al riverito professionista, che magari è rimasto un pescecane affamato di denaro, e in realtà se n’è sempre infischiato del prossimo.
L’universalità di Dio prevede una molteplicità infinita di cammini per andare verso di Lui, e ognuno deve fare il cammino partendo da sé stesso, conoscendo sé stesso, le proprie qualità e le proprie tendenze[18]. E per quanto poco possa essere alla fine ciò che abbiamo realizzato, se paragonato alle opere dei grandi, il suo valore risiede comunque nel fatto che siamo stati noi a realizzarlo nel modo a noi proprio e con le nostre forze[19].
12. Come faccio a dirmi credente se non credo alla dottrina? Come faccio a pensare di aver fede se non credo a tutto ciò che insegna la Chiesa?
Credo di aver già risposto varie volte a queste domande, e rovescio la questione che mi viene posta: certamente non basta la conoscenza della dottrina per dirsi cristiani. Vale a dire, se per fede s’intende un insieme di norme (divine) da seguire, ha ragione chi mi pone la domanda: non sono credente. Se per fede s’intende una morale da seguire non sono credente. Se per fede s’intende accettare fiduciosamente il rischio di fidarsi di Dio, rendendolo visibile nei rapporti amorevoli e amichevoli con gli altri (unico modo che l’essere umano ha a disposizione per testimoniare che crede in Dio), mi sforzo con fatica quotidiana di essere credente, e spesso fallisco.
Se non c’è coerenza fra quello che si dice e la propria vita, se non c’è coerenza fra le proprie convinzioni e la propria vita, non si è cristiani. Se non ci si apre all’altro, ricordando che non è possibile incontrare Dio se non nelle relazioni con gli altri esseri umani, non si è cristiani.
Quindi ogni credente deve imparare a distinguere il Dio che non merita più di essere creduto, dal Dio che invece merita tuttora di essere creduto.
Il Dio onnipotente che però si rappacifica con gli uomini soltanto attraverso la sofferenza del figlio (e quindi come si fa a dire che è totalmente buono?) non deve essere creduto. Il Dio onnipotente che può fare tutto ciò che vuole (art. 26 Catechismo Pio X), per il quale non cade foglia che Lui non voglia[20], non deve essere più creduto. Il Dio maschile, con la barba bianca, giudice implacabile, non deve essere più creduto.
Il Dio della parabola del figlio prodigo, che perdona e abbraccia questo figlio scapestrato senza che debba prima umiliarsi con confessione e pentimento, è un Dio che merita di essere creduto, perché questo è l’immagine che Gesù ci dà di Dio nel Vangelo.
NOTE
[1] “Famiglia cristiana” n. 34/2025, 6.
[2] Tosato A., Il matrimonio israelitico, ed. Biblical Institute Press, Roma, 1982, 207.
[3] I familiari lo prendono per pazzo (Mc 3, 21) e vogliono andare a recuperarlo, ma Gesù è di un’altra idea (Mc 3, 31ss.)
[4] Bianchi E., La religione che ri-vela (e non vela) Dio, in E se Dio rifiuta la religione?, ed. Cittadella, Assisi, 2005, 186.
[5] Benedetto XVI, Luce del mondo, ed. Libreria editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2010, 145.
[6] Castillo J.M., Declive de la religión y futuro del Evangelio, Desclée De Brower, Bilabo, 2023, 210.
[7] Riportato in Simonetti M., Letteratura cristiana antica, ed. Piemme, Casale Monferrato (AL), 1996, Vol. 2, 571.
[8]Sempre in Simonetti M., Letteratura cristiana cit., 579.
[9] Mateos J. e Camacho F., Il figlio dell’uomo, ed. Cittadella, Assisi, 2003, 58.
[10] Alcuni testi traducono impropriamente: “cominciò a raccontare quello che gli era capitato” o “a raccontare il fatto”. Ma il testo greco usa il termine logos, che si riferisce a un concetto, a un messaggio.
[11] Attribuita a Zarri Adriana da Bonanate M., Adriana parla con Dio, “Famiglia Cristiana”, n.11/2013, 170.
[12] Anche secondo Maometto Dio ci mette alla prova in questo mondo; il più amato è anche il più provato.
[13] Maggi A., Religione del libro o fede nell’uomo, relazione tenuta in Ancona, 2010, in www.studibiblici.it/Scritti/conferenze.
[14] Uccidendo il figlio si spezza il legame fra generazioni e non verranno trasmessi oltre i propri valori. Cosa che del resto avveniva anche con la sterilità, considerata all’epoca equivalente alla morte proprio per questa impossibilità di trasmettere i propri valori alla generazione futura.
[15] Riportato da Mancuso V., Io e Dio, ed. Garzanti, Milano, 2011, 180
[16] Buber M., Il Cammino dell’uomo, Qiqajon, Magnano (BI), 1990, 27.
[17] Molari C., Per una spiritualità adulta, ed. Cittadella, Assisi, 2008, 111.
[18] Buber M., cit. 28s.
[19] Idem, 26.
[20] «Nonostante quello che è stato predicato per secoli, il Dio che sarebbe onnipotente sino a far cadere questa o quella foglia a volontà, non esiste. Esiste invece Colui che ha un amore infinito anche per un filo d’erba. Ci troviamo in una nuova prospettiva che può cambiare tutta la nostra vita. Non cade foglia dai rami / che Dio non ami!» (S. Vitalini, La fede della vita la vita della fede, Cittadella, Assisi 2017, 89).
Pubblicato il volume di Dario Culot che ripropone in una nuova veste editoriale, ed in un unico libro, molti dei suoi contributi apparsi sul nostro settimanale: https://www.ilpozzodigiacobbe.it/equilibri-precari/gesu-questo-sconosciuto/