Ferite aperte
Non tutte le ferite chiedono di essere curate. Alcune restano per abitudine, come ombre che conoscono la strada di casa. All’inizio provi a scacciarle, poi impari a conviverci. Io la mia la tengo accanto, non per masochismo ma per riconoscenza. Mi ricorda che sono viva, che non tutto si dimentica, che esiste un equilibrio anche nel difetto. Si dice che il tempo guarisca, ma spesso si limita a cambiare la forma del male, a renderlo più silenzioso e più educato. Col passare degli anni, ho smesso di pensare alla leggerezza come a una virtù: serve peso per non farsi portare via dal vento.
Il diritto, con la sua mania di ordinare il disordine, cerca di classificare ogni sofferenza, di tradurla in cifre e responsabilità. Ma ciò che resta dentro, ciò che diventa identità, non entra in nessun codice. È ciò che sopravvive alle perizie, un resto invincibile che chiede solo di essere nominato. Forse la vera giustizia non è quella che ripara, ma quella che riconosce.
A volte penso alla Pietà Rondanini di Michelangelo. Maria e Cristo quasi fusi, due fragilità che si sostengono a vicenda. Nessun eroismo, solo accoglienza. Quell’opera incompiuta ha la verità dei corpi che hanno smesso di resistere e hanno imparato a stare. Così accade anche dentro di noi: ciò che ferisce a lungo finisce per scolpire, togliendo materia fino a rivelare una forma più essenziale.
Mi sono affezionata alla mia mancanza, non per abitudine ma per gratitudine. Senza di lei non saprei distinguere la quiete dalla distrazione. È un’educazione lenta, quasi un dialetto dell’anima. Ogni tanto la prendo in giro, la invito a un caffè, e per un momento mi sembra perfino lieve. Forse la resilienza non è altro che questo, un’ironia gentile verso le proprie crepe.
Poi guardo la vita che ricomincia ogni mattina. Le mail, il traffico, i piccoli riti di sopravvivenza. E mi rendo conto che la mia ferita è un lusso. Posso osservarla, scriverne, trasformarla in pensiero. Altrove non c’è tempo per farlo. In quelle strisce di terra dove il cielo è un miraggio e le case si sbriciolano come pane secco, la sofferenza non si elabora, si attraversa. Lì la tragedia non è concetto, ma condizione. Bambini che imparano a distinguere il rumore dei missili da quello del vento, madri che seppelliscono figli e poi devono tornare a cercare acqua.
E io, che posso scegliere parole e silenzi, sento la vergogna sottile di chi sa di vivere in una tregua temporanea. La nostra quotidianità occidentale, ordinata e pavida, si consola con la distanza. Scrolliamo le notizie come si spolvera un mobile, per poi tornare ai nostri caffè tiepidi e ai buoni propositi. Ci indigniamo in modo educato, come si fa davanti a un film triste. Ma ogni giorno in cui restiamo in silenzio diventa una piccola complicità.
Forse, sarà scontato, l’unico modo per restare umani è non abituarsi mai. Conservare un minimo di disagio, di vergogna, di inquietudine. Tenere aperta la ferita come si tiene aperta una finestra. Perché se imparassimo davvero a non sentire più nulla, non saremmo più vivi e non ci resterebbe che una pace finta, quella peggiore, quella dei cuori disertati.