DIRITTO ECCLESIALE E LIBERTÀ
Rubrica a cura di Maria Giovanna Titone
Obbedienza nella Chiesa: virtù, ambiguità e responsabilità
L’obbedienza è tradizionalmente considerata una delle virtù cardine della vita cristiana. Nel cuore della Chiesa cattolica, essa assume un valore teologico e istituzionale: imitazione del Cristo obbediente fino alla morte, ma anche adesione alla struttura gerarchica che regge il corpo ecclesiale. Eppure, questa stessa obbedienza, quando mal compresa o male applicata, può trasformarsi da via di santità in strumento di silenzio, paura o abuso. È su questo sottile crinale che vale la pena riflettere oggi.
Ma cosa si intende, davvero, per obbedienza nella Chiesa?
L’etimologia del termine, dal latino oboedire – “prestare ascolto” – ci suggerisce già una direzione: l’obbedienza non nasce come sottomissione passiva, ma come ascolto attivo, attento e responsabile, della volontà di Dio, mediata attraverso la Scrittura, la coscienza personale, la comunità e, certo, anche l’autorità ecclesiastica. Obbedire significa, innanzitutto, essere in ascolto della verità e disposti a conformare a essa la propria vita. È un atto interiore, spirituale, che coinvolge la libertà del credente, non la annulla.
In questo senso, l’obbedienza ecclesiale si articola su più livelli. Vi è l’obbedienza a Dio, che ha sempre la priorità assoluta. Vi è poi l’obbedienza alla Chiesa, intesa come Popolo di Dio e comunità guidata dallo Spirito. E infine, l’obbedienza ai Pastori, che nella Chiesa cattolica esercitano un’autorità reale, ma non arbitraria: un’autorità che, come insegna il Vangelo, è servizio (Mt 20,26) e non potere.
Il Codice di Diritto Canonico, al can. 212 §1-3, stabilisce che i fedeli «sono tenuti a seguire, con cristiana obbedienza, ciò che i sacri Pastori, quali rappresentanti di Cristo, dichiarano come maestri della fede o stabiliscono come capi della Chiesa». Ma lo stesso canone riconosce che i fedeli «hanno il diritto e talvolta anche il dovere di far conoscere ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa». Questa duplice indicazione mostra che l’obbedienza autentica è inseparabile dal discernimento, dal dialogo, dalla responsabilità personale.
L’obbedienza nella Chiesa non è cieca. San Tommaso d’Aquino, nel De regimine principum, ricorda che “si deve obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (Act 5,29). Quando l’autorità umana si discosta dalla verità evangelica o dalla giustizia, essa perde il suo diritto all’obbedienza incondizionata. Anche il Concilio Vaticano II, nella Lumen Gentium (§37), riconosce che i laici «hanno il diritto, anzi talvolta il dovere, di manifestare il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa», e che questa espressione deve essere ascoltata “con rispetto” da parte dei Pastori.
Storicamente, l’obbedienza ha rappresentato una tensione interna alla Chiesa, fonte di conflitti e persino di scismi ed eresie. Il primo grande scisma d’Oriente del 1054 si innestò anche su questioni di autorità e obbedienza tra la sede romana e quella costantinopolitana. Nei secoli successivi, le controversie sull’obbedienza si manifestarono nelle lotte contro eresie come quelle degli Albigesi, dei Lollardi o dei protestanti, che spesso contestavano l’autorità percepita come ingiusta o corrotta. L’obbedienza richiesta ai fedeli e ai religiosi talvolta cozzava con la coscienza e con una diversa interpretazione della fede, generando fratture dolorose.
In epoca più recente, la rigidità nell’interpretazione del dovere di obbedienza ha alimentato tensioni che hanno portato a movimenti di riforma o a prese di distanza dalla gerarchia, a volte sfociate in vere e proprie scissioni. Questi episodi dimostrano che un’autorità che pretende un’obbedienza senza spazio per il discernimento e la partecipazione rischia di allontanare anziché unire.
Eppure, nella prassi ecclesiale, non sono mancati – e non mancano – atteggiamenti che scivolano verso una concezione autoritaria dell’obbedienza. I casi di abusi di coscienza e di potere, ampiamente documentati anche in tempi recenti, trovano spesso terreno fertile in un'obbedienza distorta, in cui il silenzio è scambiato per virtù e la critica per ribellione. In alcuni ambienti ecclesiastici, si è giunti a considerare ogni richiesta di trasparenza come un segno di disobbedienza, ogni appello al Vangelo come un tentativo di “fare confusione”.
L’obbedienza, per essere cristiana, deve essere fondata sulla verità e sulla libertà. Giovanni Paolo II, nell’esortazione apostolica Vita Consecrata (§92), sottolineava come l’obbedienza evangelica non sia “annullamento della persona”, ma “esercizio di libertà nella verità e nella carità”. L’obbedienza non è mai un fine in sé: è un mezzo per la comunione, per la fedeltà al Vangelo, per la costruzione di un corpo ecclesiale autenticamente sinodale.
Il rischio, oggi, è duplice. Da un lato, il relativismo individualista può svuotare l’obbedienza del suo significato spirituale, riducendola a mera formalità. Dall’altro, il clericalismo può utilizzarla come scudo contro ogni forma di riforma o autocritica. Entrambe le derive sono pericolose. Come ha ricordato Papa Francesco più volte, «il clericalismo è una perversione» che «snatura la vera vocazione della Chiesa» (Discorso al Comitato per l’America Latina, 1 marzo 2014).
Una Chiesa adulta, fedele a Cristo e al suo Spirito, non ha paura di una obbedienza matura, fatta di ascolto, discernimento e – se necessario – di parola profetica. Non si tratta di erodere l’autorità, ma di liberarla da ogni ambiguità, perché sia davvero ministero, e non dominio.
L’obbedienza, se evangelica, non teme la verità. Se teme la verità, non è più evangelica.