Una speranza attiva
Riflessioni a partire da un documento ecumenico,
nel contesto del XVII centenario del primo concilio di Nicea
di Carlo Pertusati
Apertura del Concilio di Nicea I da parte di Costantino il Grande, imperatore - Dipinto di Cesare Nebbia (1536-1614) risalente al 1560, immagine tratta da commons.wikimedia.org
“Speranza” è la parola chiave del 2025 per quanto riguarda la Chiesa Cattolica, ma vorremmo collocare una riflessione su questa virtù in ambito ecumenico, nel contesto del XVII centenario del primo concilio ecumenico di Nicea. Riportiamo un auspicio tra tutti: “Il ricordo di quell’importante evento rafforzerà sicuramente i legami già esistenti e incoraggerà tutte le Chiese ad una rinnovata testimonianza nel mondo di oggi” (Papa Francesco, Messaggio al patriarca ecumenico Bartolomeo I, 30-11-2024).
Nonostante studi recenti abbiano dimostrato che il “Credo niceno-costantinopolitano” anticamente non abbia goduto di un utilizzo liturgico puntuale, come invece spesso si legge nei manuali di storia, il suo valore simbolico è stato da subito fondamentale come affermazione della fede comune della Grande Chiesa e pilastro dell’ortodossia (cfr. Henryk Pietras, Concilio di Nicea (325) nel suo contesto, Gregorian & Biblical Press 2021).
Il fatto che questo Credo risalga al sec. IV, lo rende comune fino ad oggi a tutte le Chiese, come il Credo Apostolico. Di qui l’opportunità di riscoprirlo come risorsa ecumenica.
Il segretario generale del Consiglio Ecumenico delle Chiese (CEC), prof. Jerry Pillary, ha recentemente rivolto un invito a tutti i cristiani, in riferimento alla VI Conferenza Mondiale di Fede e Costituzione, che si svolgerà dal 24 al 28 ottobre 2025 a Wadi El Natrun, nelle vicinanze di Alessandria d’Egitto, sul tema “Dove ora l’unità visibile?”. Ricordiamo che si tratta di una commissione di studio e dialogo teologico del CEC, a cui appartengono rappresentanti di tutte le Chiese, compresa quella Cattolica a partire dal 1968 (che, come sappiamo, non aderisce al CEC). La conferenza sarà il fulcro delle attività del CEC che segnano il XVII centenario del primo concilio niceno. Leggiamo le parole di Pillary: “La VI Conferenza Mondiale di Fede e Costituzione sarà una delle più importanti pietre miliari nella storia del movimento ecumenico, permettendoci di riflettere sull’eredità e sull’attualità del Concilio di Nicea e di abbracciare la nostra identità di persone di fede, per annunciare la Buona Novella di Cristo nel mondo di oggi. Ricordando il significato del Concilio di Nicea rinnoviamo il nostro appello per la piena unità visibile, fondamento del movimento ecumenico. Esso ci ricorda che il nostro obiettivo non è solo incrementare l’accordo teologico ma l'unità visibile e tangibile, che rifletta l'unicità del corpo di Cristo. In mezzo alle divisioni, alle ingiustizie e alla disperazione, impegniamoci a proclamare la speranza per un mondo migliore, trasformato dalla misericordia divina. Impegniamoci a lavorare per l'unità visibile della Chiesa, camminando insieme nel pellegrinaggio di giustizia, riconciliazione e unità. Ti invitiamo ad unirti a noi in questo viaggio”.
Accogliendo quest’invito, proponiamo di riprendere in mano un testo di Fede e Costituzione, che, negli anni ’80, si era impegnata in un lungo percorso di studio e confronto sul Credo niceno-costantinopolitano. Nel 1991 venne pubblicato un documento di sintesi: Confessare una sola fede. Una spiegazione ecumenica della fede apostolica come è confessata nel Credo niceno-costantinopolitano (381). L’importanza del documento è stata ribadita dal testo di convergenza della stessa commissione, intitolato: “La Chiesa: verso una visione comune” e pubblicato nel 2013. Vi è scritto: “Nel 1991, il testo di studio Confessing the One Faith non solo è riuscito a mostrare un sostanziale accordo fra i cristiani riguardo al significato del Credo di Nicea professato nelle liturgie di molte Chiese, ma ha chiarito anche che la fede del Credo è basata sulla Scrittura, è confessata nel simbolo ecumenico e deve essere confessata di nuovo in relazione alle sfide del mondo contemporaneo. Con quel testo di studio i redattori intendevano non solo aiutare le Chiese a riconoscere la fedeltà a quella fede in loro stesse e in altre Chiese, ma anche offrire uno strumento ecumenico credibile per la proclamazione della fede oggi” (n. 39).
Ci concentriamo sulla parte dedicata all’attualizzazione delle ultime parole del Credo: “Aspettiamo la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”, per cogliere spunti sul tema della speranza.
Il documento definisce la Chiesa “una comunione di speranza nell’ambito di un mondo che si confronta con la morte e la distruzione” (n. 272). La sacra Scrittura indica la sola speranza della Chiesa: “Una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione” (Ef 4,4). “Quest’unica speranza comporta la speranza nella risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. Tali speranze sono indissolubili, affermano e sostengono la speranza cristiana nelle sue dimensioni sociale, individuale e cosmica” (n. 273).
Anni dopo, Benedetto XVI sintetizzerà mirabilmente le diverse dimensioni della speranza, soffermandosi su un versetto della Lettera agli Ebrei: “La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono” (11,1). Lasciamo la parola a papa Ratzinger: “La fede non è soltanto un personale protendersi verso le cose che devono venire ma sono ancora totalmente assenti; essa ci dà qualcosa. Ci dà già ora qualcosa della realtà attesa, e questa realtà presente costituisce per noi una «prova» delle cose che ancora non si vedono. Essa attira dentro il presente il futuro, così che quest'ultimo non è più il puro «non-ancora». Il fatto che questo futuro esista, cambia il presente; il presente viene toccato dalla realtà futura, e così le cose future si riversano in quelle presenti e le presenti in quelle future” (Spe salvi, 7).
Torniamo al testo di Fede e Costituzione, che continua con due numeri cruciali (276-277), invitando a radicarsi nella speranza e a rifiutare la fuga dal mondo. Tramite la fede, affermiamo la nostra speranza per questo mondo e per questo dobbiamo rifiutare “ogni forma di fuga da questo mondo e dai suoi problemi”. Vengono indicati in quattro punti altrettante tentazioni di fuga.
1) “I tentativi di assicurare il nostro futuro a spese del mondo, specialmente attraverso la minaccia della distruzione nucleare o ecologica”. Come sappiamo, nelle Chiese della Riforma e nelle Chiese Ortodosse, il tema ecologico è presente da alcuni decenni ed è proprio attraverso i contatti e gli stimoli ecumenici che la Chiesa Cattolica lo ha portato in evidenza (il 2025 segna anche il decennale dell’enciclica Laudato si’).
2) La concezione del regno futuro di Dio “che lo separi da questo mondo e dalla sua vita o che lo identifichi con una qualche realtà storica”; questo punto è strettamente legato al 4) che individua una ulteriore possibile deviazione: sostenere che “le forze che sembrano governare la storia finiranno col determinare il suo significato e il suo destino”. A questo proposito, mi piace citare un brano di Michela Murgia: “La speranza vissuta nella fede non è la semplice fiducia nel fatto che le cose che facciamo andranno a buon fine. È piuttosto la certezza che fare determinate cose abbia un senso a prescindere dal modo in cui andranno a finire” (God Save the Queer. Catechismo femminista, Einaudi 2022). C’è un “oltre” che dà motivazione all’impegno nel nostro “qui e oggi”: oltre noi stessi e oltre questo tempo.
3) L’incapacità di “vedere l’integralità della redenzione divina degli individui, della comunità umana, o di tutta la creazione”. Mi sembra che un’immagine possa esprimere con chiarezza quanto è scritto nel documento; la riceviamo da uno dei più grandi Padri della Chiesa, attraverso la narrazione di un autore contemporaneo. “Origene, il grande teologo alessandrino, ha scritto un sermone che viene di solito pubblicato con questo titolo: «Gesù in cielo non beve vino». Vi si legge che perfino Gesù nella sua esaltazione celeste non vive una condizione di gioia perfetta. È seduto nella sua gloria, intorno alla tavola del banchetto finale, circondato da una moltitudine immensa, ma non se la sente ancora di alzare la coppa del vino. Aspetta che l'ultimo degli esseri umani termini il pellegrinaggio, torni a casa e si sieda a tavola: l’ultimo, il più lento, il più attardato, il più ostinato. Solo allora la comunione sarà totale ed egli alzerà la coppa del vino, simbolo evidente della gioia perfetta” (Giorgio Gonella, Nel deserto il profumo del vento. Sulle tracce di Dio, tra solitudine e prossimità, EDB 2020). Dovremmo imparare a percepire l’imperfezione della gioia innanzitutto qui e ora, nella speranza dell’apocatastasi futura. Il termine “apocatastasi” è una traslitterazione del greco “apokatastasis” (reintegrazione) e nei primi secoli del Cristianesimo, grazie al citato Origene (185-254), assume il significato di salvezza universale, che può includere i dannati e i demoni. Questa teoria fu condannata a più riprese dalla Chiesa, ma alcuni mistici hanno continuato ad auspicarla come manifestazione dell’amore di Dio e della redenzione totale attuata per mezzo di Gesù Cristo. Nell’epoca moderna e contemporanea c’è chi si è chiesto se sia giusta o addirittura plausibile una pena eterna di fronte ad una colpa commessa nel tempo, da persone che oltretutto potrebbero desiderare la redenzione. Ma restando nella dimensione temporale ci chiediamo: sono concepibili il perdono ed il riscatto di fronte allo sterminio di popoli e alla distruzione del pianeta che abitiamo? Un testo recente, a cui rimandiamo, propone il “principio apocatastasi” come base di itinerari morali e forse giuridici di riparazione del male (cfr. Francesco Ghia, Principio Apocatastasi. La vita restituita come postulato di una filosofia morale, Morcelliana 2023).
Il documento di Fede e Costituzione enumera, quindi, cinque ambiti di “speranza attiva nell’amore nell’ambito di questo mondo, pur guardando al mondo che verrà”. Riportiamo integralmente le lucide e attuali parole del testo ecumenico, che non necessitano di essere commentate. “Di fronte alla disperazione in questo mondo, la nostra speranza si rifiuta di essere acquiescente verso le cose così come stanno. Di fronte alla crescente disperazione, la nostra speranza non dichiarerà nessuna situazione o persona al di là di ogni speranza. Di fronte all’oppressione, la nostra speranza afferma che l’oppressione non esisterà per sempre. Di fronte a prospettive religiose strumentalizzate per giustificare programmi politici, la nostra speranza afferma che l’avvento del regno di Dio non è in nostro potere, ma resta nelle mani della sorprendente iniziativa di Dio. Di fronte al dolore insopportabile, alla malattia incurabile e all’handicap irreversibile, la nostra speranza afferma la presenza amorevole di Cristo che può rendere possibile ciò che è impossibile alle forze umane”.
Concludendo la spiegazione per l’oggi dell’ultima espressione del Credo, il documento afferma: “La nostra speranza per questa vita e per questo mondo si basa sulla croce e risurrezione di Gesù Cristo. […] In Dio soltanto è riposta la nostra fiducia” (n. 278).