Intervista a don Pino Rabita, della Segreteria della Conferenza Episcopale Siciliana (CES)
di Angelo Maddalena
Don Pino Rabita - Foto tratta dalla rete, si resta a disposizione per il riconoscimento di eventuali diritti
1) Don Pino Rabita è responsabile della Segreteria Pastorale della Conferenza Episcopale siciliana dal 2017, giornalista, direttore della rivista Settegiorni dagli Erei al Golfo, periodico della diocesi di Piazza Armerina. A che punto è la Chiesa in Sicilia? Cosa è rimasto delle tracce di don Luigi Sturzo, di don Baldassarre Meli, di don Rocco Rindone e di altri che tu potresti nominare perché reputi importanti, storicamente o conosciuti e ancora oggi viventi?
La Chiesa siciliana, pur nella sua tipicità, è parte della chiesa italiana con la quale condivide il cammino attraverso la CEI. Il pontificato di Francesco l’ha spinta verso attenzioni pastorali che ne hanno tracciato la direzione. Sottolineo in particolare l’attenzione verso il fenomeno migratorio segnato incisamente per la chiesa siciliana, ma non solo, dalla prima visita pastorale di Francesco a Lampedusa. Le diocesi di Sicilia hanno contribuito non poco ad organizzare l’accoglienza mettendo a disposizione attraverso le Caritas risorse economiche e umane. La stessa Conferenza Episcopale ha provveduto a finanziare con 100.000 euro l’acquisto di materiali necessari all’accoglienza (tamponi per l’emergenza Covid, coperte termiche, vestiario). Ma ha svolto anche un’opera di sensibilizzazione dell’opinione pubblica attraverso vari pronunciamenti. Significative le parole del vescovo delegato mons. Antonino Stagliano del maggio 2020: “Non possiamo passare oltre senza fermarci, soccorrere, costruire un mondo più giusto. Per noi cristiani i migranti (quelli che arrivano nelle nostre coste, ma anche i nostri giovani costretti a migrare in cerca di lavoro pure loro) sono visita di Dio, sacramento del suo agire nella storia. La carità di questo tempo di emergenza, vera perché verso tutti (poveri del territorio, nuovi poveri anche tra le fasce medie, migranti), rafforza il senso dell’eucaristia che di nuovo ci apprestiamo a celebrare in forme comunitarie, come fonte e culmine di vita cristiana”.
Ma l’impegno verso gli ultimi, le cosiddette periferie esistenziali, come amava chiamarle Papa Francesco, non è rimasto un monopolio di don Meli o di don Rindone. Sono figure che hanno ispirato sacerdoti e laici nell’impegno verso le tante povertà che ancora segnano i nostri territori. Per tutti cito l’esempio di Biagio Conte, missionario laico, che con il suo modo di vivere è stato capace di smuovere le coscienze. Ha pregato, digiunato e attraversato in pellegrinaggio l’Italia e l’Europa intera, per sensibilizzare i cuori dei cittadini e delle istituzioni all’impegno per la pace, all’attenzione verso i più fragili, alla convivenza fra i popoli. Non meno significativo l’esempio e il martirio di don Pino Puglisi di cui tutti conosciamo la testimonianza, o del giudice Livatino e il suo impegno per la giustizia che scaturiva dalla sua fede. Sono figure che la Chiesa siciliana tiene in grande considerazione e di cui cerca di raccogliere l’esempio.
2) Sei stato ordinato alla fine degli anni Ottanta, primo parroco di Pietraperzia dell’era post Concilio Vaticano II, come hai vissuto il confronto con i parroci del tuo paese tutti già ordinati nel periodo pre Concilio o poco dopo?
Il Concilio è stato un evento di portata storica difficilmente assimilabile nelle sue conseguenze nell’arco di pochi anni. Ancora oggi rimane molta strada da fare. È perciò comprensibile una certa resistenza da parte del clero nei confronti di quelle che venivano etichettate solo come novità, a volte definite sacrileghe o eretiche. Da parte mia ho tentato di avviare un dialogo e un confronto su aspetti della pastorale ordinaria, direi quotidiana, che urtavano la mia sensibilità scaturita dagli studi impartiti nella Facoltà teologica e nel Seminario. Certe consuetudini erano legate soprattutto al denaro con una concezione della parrocchia stazione di servizio dove si va per soddisfare a pagamento il proprio bisogno di religiosità. Inutile dire che le proposte di cambiamento trovavano resistenze difficili da superare, venivano considerate rivoluzionarie, inadatte per l’ambiente, destabilizzanti per chi era abituato a gestire le cose in un certo modo improntato al “si è fatto sempre così”. Ricordo un parroco di un altro paese che mi disse: “se aspetti che siano d’accordo passerà tutta la vita, perciò fai le cose che ritieni giuste, vedrai che col tempo si adegueranno”. Questo mi spinse ad agire secondo quanto avevo imparato dai libri come principi e attingendo alle esperienze di coloro che si studiavano di tradurre gli insegnamenti conciliari nella pastorale ordinaria. Veni tacciato di essere esibizionista, rivoluzionario, innovatore. Ma alla fine il tempo diede ragione a quel prete. Oggi la situazione è totalmente cambiata. Il crollo della frequenza da parte dei fedeli, l’individualismo, la crisi dell’associazionismo ecclesiale e civile hanno svuotato le nostre parrocchie e si è smarrito il senso della comunità. Come clero ci sentiamo un po’ smarriti, senza soluzioni, quasi in attesa che succeda qualcosa che cambi la situazione.
3) Tanti anni fa mi hai detto che la tua vocazione è stata “ispirata” fortemente dalla testimonianza di don Lorenzo Milani, mi puoi dire qualcosa al riguardo? Perché don Lorenzo Milani ti ha spinto a farti prete e in che senso? Come lo hai conosciuto? Nella tua prassi in che modo fai rivivere lo spirito di don Lorenzo?
La vita di don Milani scritta da Neera Fallaci (Dalla parte dell’ultimo) fu il primo libro che lessi entrando in seminario e fu un esempio folgorante per il prosieguo del mio cammino vocazionale. Quello che mi colpì maggiormente fu la sua scelta di incarnarsi profondamente nell’ambiente nel quale il vescovo lo aveva inviato: quella insignificante Barbiana, costituita da appena 18 famiglie di allevatori, che grazie a lui e al suo metodo pedagogico ispirato all’amore per i suoi ragazzi, divenne un laboratorio di sperimentazione, ma soprattutto, dal mio punto di vista, un metodo pastorale: assumere ciò che si vuole salvare. Perciò, semplicemente, mi sforzo di amare ciò che faccio.
4) In un dialogo tra noi qualche tempo fa ho percepito la fatica e il carico quotidiano del tuo lavoro di sacerdote con diversi incarichi: c’è un vulnus in questo? Conosco preti anziani che continuano a dire messa più volte ogni domenica in paesi di montagna, perché mancano preti e la diocesi non riesce a mandare sostituti o assistenti ai preti anziani: c’è un problema di vocazioni carenti o è anche una forma di individualismo di molti preti che non riescono a collaborare con altri preti più giovani o, peggio ancora, con i laici?
Quello del carico pastorale è diventato ormai un problema endemico in Italia soprattutto nelle regioni settentrionali. In Sicilia il numero annuale di ordinazioni sacerdotali si mantiene ancora sufficiente, anche se negli ultimi anni si è registrato un forte calo. Nel 2024 infatti il numero di seminaristi in Sicilia era di 187 unità rispetto ai circa 250 di dieci anni fa. Certamente c’è poi anche il problema del gap generazionale che separa i preti anziani dai giovani, apportatori di mentalità totalmente diversa, impregnati della cultura del proprio tempo caratterizzata dalla tecnologia che ha tagliato fuori il clero più anziano.
5) Il 25 aprile hai partecipato ad un convegno della Chiesa siciliana sul tema dei detenuti: quali sono stati gli spunti di questo convegno?
Da qualche anno la chiesa siciliana ha istituito il Servizio di Pastorale carceraria cui fanno parte i referenti delle 18 diocesi dell’Isola e i cappellani delle 32 Case di reclusione della Sicilia. Il servizio, guidato da don Raffaele Grimaldi, dal 1° gennaio 2017 Ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane, e da don Paolo Giurato per la Regione Sicilia, si occupa di coordinare l’azione che i cappellani e le diocesi organizzano per aiutare i detenuti e le loro famiglie a vivere in modo umano e civile l’esperienza della detenzione. A tal proposito organizzano annualmente la cosiddetta Festa della Misericordia che si svolge in prossimità della domenica successiva alla Pasqua, quest’anno il 25 aprile. Quest’anno ovviamente l’attenzione è stata catalizzata dalla morte di Papa Francesco che è morto il 21 e che ha avuto tanta attenzione verso il mondo carcerario. Queste le parole di don Grimaldi: “Noi cappellani, tutta l’amministrazione penitenziaria, i carcerati, il mondo del volontariato, esprimiamo profonda gratitudine al Papa degli ultimi, dei senza voce, dei marchiati, nei suoi molteplici viaggi apostolici, ha sempre incontrato nelle diverse carceri i molti reclusi. Ogni Giovedì Santo – ha proseguito l’Ispettore generale – si è chinato davanti ai carcerati, con grande umiltà e senza pregiudizi, lavando loro i piedi. Con i suoi gesti profetici, ha insegnato a tutti, la via dell’attenzione all’altro incarnando “la chiesa del grembiule” . In questo Giubileo della Speranza, non ha fatto mancare alla chiesa tutta, lo sguardo verso i reclusi, aprendo una Porta Santa nel Carcere di Rebibbia. È stato un martire dell’ Amore e un Profeta scomodo, con i suoi gesti, con le sue parole, ha messo in crisi molte coscienze, riportando la Chiesa alle origini del Vangelo: “una Chiesa povera con i poveri”. Francesco – ha concluso don Grimaldi – ritorna tra le braccia di Dio per ricevere la ricompensa giusta”.
6) Ci sono molte esperienze di laici che stanno riabitando canoniche o eremi disabitati, famiglie o eremiti laici, ne conosco in Umbria, Toscana, io stesso l’ho fatto per poco tempo in Calabria, anche nella diocesi di Bologna esiste un progetto in questo senso, con l’incoraggiamento di monsignor Matteo Zuppi, pensi che sia un modo appropriato per rivitalizzare spazi e stili clericali?
Quello degli immobili di proprietà ecclesiale abbandonati per mancanza di vocazioni è un grosso problema soprattutto per le congregazioni religiose. Molte istituzioni, piuttosto che alienarli o lasciarli in abbandono stanno cercando di valorizzare l’immenso patrimonio acquisito nel tempo, alcuni trasformando gli immobili in case di ospitalità o, come dici tu, affidandolo a famiglie o eremiti laici. Anche in Sicilia ci sono esempi in tal senso. Penso che sia un modo opportuno di valorizzare il patrimonio ecclesiale.
7) Tu sei giornalista, hai studiato le comunicazioni di massa e il rischio di farsi avvelenare, mi dici qualcosa al riguardo, anche alla luce del settimanale Sette giorni che dirigi da quasi vent’anni ma che da qualche anno non esce più in forma cartacea? Ed eventualmente alla luce del mutamento antropologico dei social?
L’avvento dei social è una rivoluzione antropologica di cui ancora non comprendiamo appieno le conseguenze e il punto di arrivo. Certamente se per un verso ha dato la parola a tutti dall’altro ha portato o alla scomparsa di tanti organi di informazione o di opinione che non potevano più sostenere l’onere economico legato alla carta stampata o al ridimensionamento delle redazioni anche dei grandi giornali. Tutti sono migrati sul web e la comunicazione si è fatta interattiva con tutti i vantaggi e i rischi che ciò comporta. Anche il nostro piccolo settimanale ha fatto la stessa fine, smarrito in un oceano di siti vicino a sfiorare l’inconsistenza. Pertanto dal 2023, anno della sospensione della forma cartacea ci chiediamo quale sarà il modo di conservare la memoria della vita di una Chiesa e del suo territorio. Pertanto, in accordo col nostro vescovo, stiamo pensando ad un modo per poter fissare gli eventi su un supporto meno labile tornendo, seppur in forma diversa, alla carta stampata.
8) Qualche anno fa, durante la rappresentazione sacra per la festa di San Giuseppe, hai detto che San Giuseppe e la Madonna erano migranti. C’era un contesto “torbido” a Pietraperzia, poco prima che aprissero il primo centro di accoglienza per migranti, poi però ne hanno aperti due: ciò dimostra che tanta canea mediatica alla fine è anche “fuffa”? Nel senso che poi le cose vanno per il verso giusto, perché oggettivamente ci sono bisogni fisiologici storici che non possono essere fermati neanche dalle fucilate (purtroppo non è una metafora, a Pietraperzia qualcuno sparò nel febbraio del 2018, alla finestra del centro di accoglienza appena inaugurato)? Quali sono le responsabilità delle diocesi in questo senso? Delle parrocchie? E quali le cause strutturali?
Purtroppo il tema immigrati era e rimane divisivo, cavalcato dalle forze politiche per propaganda elettorale e tale fu in quella circostanza. È stata davanti agli occhi di tutti l’umiliazione del vescovo Gisana davanti ad una assemblea cittadina convocata in Chiesa Madre per dar conto della scelta della Chiesa diocesana e delle parrocchie di Pietraperzia di mettere a disposizione la casa canonica interparrocchiale per ospitare una comunità di minori non accompagnati. Un popolo sobillato e ostinato non volle sentire ragioni e il vescovo fu costretto a lasciare la sua chiesa scortato dalle forze dell’ordine. Tuttavia i ragazzi arrivarono e questo provocò quella reazione violenta qualche giorno dopo dello sparo alla finestra della canonica. Ma miracolosamente quell’attentato appianò tutte le cose e le acque si calmarono. Avrei voluto titolare il mio giornale con “Benedetta fucilata”. Infatti la presenza di ragazzini pacifici, che giocavano in mezzo alla strada, che aiutavano le vecchiette a portare i pacchi della spesa fece cambiare totalmente idea a tutta la popolazione, segno che le paure verso la diversità si volatilizzano con la conoscenza.
9) Francesco aveva chiesto indagini approfondite su pedofilia e altri intrecci di membri del clero. Il vulnus è l’impossibilità di sposarsi per i preti? Adriana Zarri profetizzava un papa con la moglie e una papessa col marito! Solo una diocesi, quella di Bressanone, ha aperto indagini serie su casi di preti coinvolti in situazioni di abusi su minori, è grave o ce ne sono altre? O col tempo si apriranno altri varchi?
Il tema degli abusi nel clero è molto delicato e la Chiesa italiana, su impulso prima di Papa Benedetto e poi di Francesco, ha dato seguito ad una indagine seria dei casi nelle diverse diocesi. Ogni anno viene pubblicato un report in cui si da contezza di ciò che avviene. Inoltre in tutte le diocesi è stato istituito il Servizio Tutela Minori che si occupa di mettere in atto un’opera di sensibilizzazione ed educazione nei confronti del clero e degli operatori pastorali delle parrocchie che hanno contatti con i minori o le persone vulnerabili (catechisti, animatori, insegnanti di religione, ecc). Sappiamo bene che il problema non riguarda solo la Chiesa ma l’intera società e che la gran parte degli abusi sui minori avviene nelle famiglie. Purtroppo il risalto viene dato solo quando si tratta del coinvolgimento del clero e la stampa cavalca l’onda dello scandalo. Non si tratta di fare sposare i preti. È un falso problema. La crisi delle vocazioni non è legata al celibato. Anche tra il clero ortodosso che è uxorato si verificano simili fenomeni e si soffre la mancanza d vocazioni. A mio avviso si tratta della decadenza della nostra cultura che ha portato all’eclissi della pratica religiosa. Ma il cuore dell’uomo è sempre lo stesso. Mai nessuno potrà cancellare il bisogno di Assoluto.