Striscia di luce
Il ritornello di Svetlaja Polosa — “Striscia di luce” — suona semplice, quasi innocuo. Eppure, in Russia, quelle parole possono costare la prigione. “Credo ci sarà una striscia di luce in questa oscurità impenetrabile”, canta una voce giovane, limpida, carica di speranza. Una frase che altrove suonerebbe come un messaggio di fiducia, ma che in un Paese soffocato dalla censura diventa un gesto di disobbedienza.
È successo davvero: giovani artisti di strada si sono esibiti sulla Prospettiva Nevskij di San Pietroburgo, intonando canzoni di musicisti messi al bando dal regime. Quello che sembrava un semplice concerto improvvisato si è trasformato in una protesta, in una forma di ribellione silenziosa ma potentissima. In un contesto in cui ogni parola è controllata e ogni nota può essere considerata “sovversiva”, la musica diventa l’unico linguaggio possibile per dire ciò che non si può dire.
La band russa StopTime ne è un simbolo. Condannata a 12 o 13 giorni di detenzione amministrativa con l’accusa di aver organizzato un “raduno di massa”, la formazione ha deciso di non piegarsi. Le loro esibizioni non sono solo canzoni: sono dichiarazioni di libertà. Un atto di sfida nei confronti del Cremlino, un modo per dire che anche in mezzo all’oscurità, esiste ancora una “striscia di luce”.
Quel simbolo, la lettera “Z”, nato per rappresentare l’“operazione militare speciale” in Ucraina, è stato ribaltato nel suo significato. Oggi rappresenta anche un’altra generazione: quella dei giovani che non hanno conosciuto altra figura politica se non Vladimir Putin, ma che ora cercano di dare voce a un sogno diverso, quello della libertà contagiosa, della possibilità di scegliere, di pensare, di cantare senza paura.
Ma la libertà è fragile, e non solo in Russia. Anche in Europa occidentale i segnali sono preoccupanti. Secondo l’Indice mondiale della libertà di stampa 2025 di Reporter sans Frontières (RSF), l’Italia è scesa al 49º posto, perdendo tre posizioni rispetto al 2024. È il risultato peggiore tra i Paesi dell’Europa occidentale. Anche gli Stati Uniti, retrocessi di dieci posizioni, pagano il prezzo di anni di attacchi alla stampa e di una crescente ostilità verso i giornalisti.
I dati si traducono in episodi concreti e inquietanti. Nella notte del 17 ottobre 2025, un ordigno esplosivo ha distrutto l’auto del giornalista Sigfrido Ranucci e quella di sua figlia. Un gesto che molti hanno interpretato come una minaccia diretta contro lui e la sua redazione. Solo poche settimane prima, Giorgia Venturini, cronista di Fanpage, aveva trovato davanti a casa una testa mozzata di capretto: un chiaro avvertimento mafioso.
Questi non sono casi isolati. Secondo Ossigeno per l’informazione, l’osservatorio che monitora le intimidazioni ai giornalisti, dal 2006 al 2024 oltre 7.000 cronisti in Italia hanno subito minacce, aggressioni o querele temerarie. Un numero che fotografa la realtà di un Paese dove fare informazione può ancora significare mettere a rischio la propria sicurezza.
“La libertà di stampa non è una parola vuota”, ha ricordato Ranucci collegandosi alla manifestazione Democrazia al lavoro organizzata dalla CGIL a Roma. “È il diritto di essere informati. È incredibilmente vicina alla gente e ai lavoratori.”
Ed è proprio questo il punto: la libertà, sia di stampa che di espressione, non è un concetto astratto. È un bene comune, quotidiano, che riguarda tutti. Dalla chitarra di un ragazzo a San Pietroburgo al microfono di un giornalista minacciato in Italia, ogni voce che osa parlare rappresenta una scintilla di quella “striscia di luce” che resiste nell’oscurità.
Perché anche quando l’ombra sembra impenetrabile, c’è sempre qualcuno che canta, crede e continua a cercare la sua luce.