Intervista
a
Farian Sabahi
Professoressa Sabahi, nel nostro contesto, culturale e socio-politico, italiano pare molto difficile, almeno a livello diffuso, dare un’idea dell’Islam che esca da stereotipi, pregiudizi e luoghi comuni. Secondo lei, perché?
Stereotipi, pregiudizi e luoghi comuni sono tipici di una società che si vuole omogenea. La multiculturalità è altrove, in Medio Oriente e in Asia Centrale, dove vi è una lunga storia di popoli e religioni abituati a convivere e a dover convivere. Il mio primo pensiero va all’Uzbekistan, un paese dell’Asia centrale dove mi reco assiduamente dal 2002. Qui convivono in pace uzbeki (di ceppo turco), tagiki (di lingua persiana), russi (di religione cristiana ortodossa), tatari (qui deportati da Stalin), coreani (anche loro deportati durante la Seconda guerra mondiale) e tanti altri: appartengono a etnie diverse, professano religioni differenti e parlano lingue a loro volta diverse. Nel caso dell’Italia, a impedire di ragionare al di là di stereotipi, pregiudizi e luoghi comuni è una visione eurocentrica che si rispecchia in libri scolastici in cui si ignorano episodi importanti della storia di altri paesi. E qui il mio pensiero va all’Iran: nei libri di testo italiani non vi è menzione né del fatto che nel 1941 migliaia di polacchi ebrei e cattolici vi trovarono scampo dalle persecuzioni naziste, né del colpo di Stato anglo statunitense del 1953 ai danni del premier iraniano Mossadeq che due anni prima aveva osato nazionalizzare il petrolio, fino a quel momento sfruttato dagli inglesi. Inoltre, anche i bassi investimenti nella cultura hanno ripercussioni importanti. Secondo i dati Eurostat, la spesa statale in cultura vede l’Italia ancora al terzultimo posto in Europa. Secondo l’Istat, nel 2023 è aumentata lievemente la quota di lettori di libri, pari al 40,1% della popolazione di 6 anni e più. Tra questi, il 43,7% legge fino a 3 libri l'anno, mentre i “lettori forti” (12 o più libri letti in un anno) sono il 15,4%. La lettura di libri è soprattutto prerogativa dei giovani (fascia d’età 11-24 anni) e delle donne. Purtroppo, la diminuzione degli investimenti nell’istruzione e nella cultura, a favore di quelli nella difesa, non è stata e non sarà di aiuto per una migliore comprensione delle evoluzioni delle nostre società.
Lei è esperta della storia, cultura e società dell’Iran, anche in ragione della Sua biografia. In questo momento che cosa sta accadendo in Iran? Qual è – come si usa dire – “la posta in gioco”?
La Repubblica islamica dell’Iran sta attraversando un momento difficile, per motivi molteplici. In primis, in seguito agli attacchi israeliani il cosiddetto Asse della resistenza risulta assai indebolito. In secondo luogo, l’economia è in gravi condizioni a causa delle sanzioni internazionali, della pessima gestione della cosa pubblica e della corruzione. Inflazione e disoccupazione sono alle stelle, e due terzi della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà sebbene l’Iran sia ai primi posti al mondo per riserve accertate di petrolio e di gas. Nonostante la repressione di regime, in Iran il dissenso continua a covare sotto la cenere. Di pari passo, le prigioni si riempiono e le condanne a morte sono aumentate nel 2024 del 6 percento rispetto all’anno precedente. Sul fronte politico interno, la fazione che si fa chiamare “riformista” è messa alle strette dai falchi che controllano anche la magistratura. A dire l’ultima parola su tutto è comunque, sempre, la Guida suprema Ali Khamemei. È in questo contesto, complesso, che è stata arrestata la giornalista Cecilia Sala.
Parlando di Iran, non possiamo non fare un riferimento alla vicenda della giornalista Cecilia Sala. Lei che idea s’è fatta al riguardo?
Sono felice che Cecilia Sala sia stata liberata. Un risultato rapido, non scontato, in cui è stato determinante il lavoro congiunto della diplomazia, dei servizi e della premier Meloni. Credo però che abbia avuto anche un ruolo non irrilevante la Santa Sede. Il 3 gennaio mi trovavo in Iraq, quando ho ricevuto la telefonata di un giornalista iraniano che vive a Teheran e si occupa della pagina Telegram in italiano della Guida suprema. Mi ha detto che Cecilia Sala sarebbe stata liberata nel giro di qualche giorno e l’indizio era nel quadretto con le frasi di Gesù che il Dottor Mokhtari avrebbe donato al Pontefice. Ero in viaggio, al mio rientro in Italia la famiglia di Cecilia Sala aveva chiesto il silenzio stampa. Avrei voluto parlarne con Mario Calabresi, direttore di Chora Media, ma non volevo creare false aspettative. Solo quando il Pontefice ha criticato il premier Netanyahu, in occasione della visita del diplomatico iraniano in Vaticano, ho compreso che forse la situazione di Cecilia Sala si sarebbe sbloccata, in tempi più rapidi del previsto.
Che rapporto c’è tra la strage del 7 ottobre in Israele, Hamas, i bombardamenti su Gaza, la Palestina e l’Iran? Glielo chiedo così, in forma – me ne rendo conto – un po’ grossolana, perché un simile intreccio compare costantemente, appunto, nel dibattito in Italia.
L’Iran è la testa del serpente, ovvero del cosiddetto Asse della resistenza di cui fanno parte Hamas, gli Hezbollah libanesi, gli Huthi yemeniti, le milizie sciite in Iraq e – fino alla caduta del regime di Assad, la Siria. Da quanto è stato dichiarato dalla leadership di Teheran, Hamas avrebbe compiuto gli attentati terroristici del 7 ottobre all’insaputa dell’Iran e contro il parere sfavorevole di ayatollah e pasdaran. Ma documenti segreti a cui il New York Times ha avuto accesso [https://www.nytimes.com/2024/10/12/world/middleeast/hamas-israel-war.html] rivelano il contrario. In ogni caso, quegli attentati terroristici sono stati presi a pretesto dal premier israeliano Netanyahu per radere al suolo Gaza e uccidere 45.000 persone. Di fatto, quelli commessi dall’IDF ai danni dei palestinesi – musulmani e cristiani – sono crimini di guerra e crimini contro l’umanità. In questo massacro, l’Iran ha cercato di tenersi fuori il più possibile, nella consapevolezza di non avere la potenza di fuoco di Israele. Due eventi rilevanti hanno però coinvolto Teheran nella guerra: il bombardamento israeliano del consolato iraniano di Damasco il 1° aprile 2024 e l’uccisione a Teheran di Ismail Haniyeh, il capo politico di Hamas, il 31 luglio 2024.
Tutti parlano di liberazione della Siria. A suo avviso, è davvero così? Siamo davanti ad una svolta della storia della Siria verso la libertà e il riconoscimento dei diritti delle minoranze?
L’Occidente ha rapidamente sdoganato al-Jolani, che da jihadista è diventato un politico ribelle. Si è tolto la mimetica, per indossare l’abito blu. Da quello che sappiamo, la Siria non andrà però ad elezioni in tempi rapidi e nei libri scolastici sono stati apportati cambiamenti importanti, in direzione islamica integralista. A preoccupare dovrebbe essere il cambiamento dei curricula scolastici senza consultare il resto della società siriana, ovvero prima della Conferenza del dialogo nazionale che dovrebbe mettere insieme le diverse comunità della Siria (cristiani e curdi inclusi), intellettuali e artisti. Nei nuovi curricula sono stati inseriti riferimenti islamici. Per esempio, laddove c’era scritto dell’importanza di difendere la nazione, ora c’è scritto che bisogna difendere l’Islam. Nel programma di scienze sono state cancellate le pagine sull’evoluzione e sul Big Bang. Nel curriculum di storia delle religioni non vi sono più i riferimenti alle divinità venerate prima dell’avvento dell’Islam e le immagini delle loro statue sono state rimosse dai libri di scuola, perché l’Islam salafita di al-Jolani è iconoclasta. Inoltre, è stata ridimensionata l’importanza della Regina Zenobia, fino a pochi mesi fa considerata un’eroina siriana: prese il potere a Palmira nel 267 d.C. e trasformò il suo Stato in una monarchia indipendente, sfuggendo al controllo di Roma. L’epoca di Assad è stata ovviamente cancellata dai libri di scuola, e di pari passo anche le poesie in arabo in onore del padre Hafez e del figlio Bashar al-Assad. Di questi cambiamenti parte dei siriani sono contenti, altri spaventati, soprattutto coloro che sono rientrati in patria dopo tanti anni.
Ritiene abbia un significato particolare la nomina a cardinale dell’Arcivescovo latino di Teheran?
Ho avuto modo di sentire gli amici a Teheran, e mi è stato riferito che questa nomina non ha avuto particolare risonanza nel Paese. Non ho competenze specifiche sulle nomine all’interno della Chiesa, ma di certo il cardinale Dominique Joseph Mathieu ha maturato esperienza in Libano a partire dal 2013, dove era incardinato nella Custodia Provinciale d’Oriente di Terra Santa, dopodiché dal 2021 è a Teheran. La comunità cristiana in Iran non può fare proselitismo, ma ha due deputati in Parlamento, un Parlamento che ha più di cent’anni perché è il risultato della Rivoluzione costituzionale del 1906-1911. Nella Repubblica islamica dell’Iran le chiese sono aperte al culto e nel solo quartiere Jolfa di Isfahan, voluto da Shah Abbas nel XVI secolo, se ne contano una cinquantina. Molte di queste erano state restaurate durante la presidenza del presidente riformatore Mohammad Khatami (1997-2005). Tenuto conto delle numerose violazioni di diritti umani perpetrate dal regime di Teheran nei confronti dei suoi cittadini, quella dei cristiani in Iran non è una situazione ottimale, ma decisamente migliore rispetto ad altri Paesi mediorientali alleati dell’Occidente. Come dicevamo in apertura, in Italia non vi è però molta consapevolezza su questi argomenti, e molto spesso si cade negli stereotipi.
Molte grazie, Professoressa.