Le nozze di Cana - Paolo Veronese, 1563 - Museo del Louvre - immagine tratta da commons.wikimedia.org
Il matrimonio
In Le nozze di Cana di Paolo Veronese, dipinta nel 1563 per il refettorio del convento di San Giorgio Maggiore a Venezia, il miracolo evangelico si trasfigura in una sontuosa celebrazione rinascimentale. Il Cristo, quasi marginale nella composizione, siede tra una folla eterogenea di musici, aristocratici, servitori e mercanti: più che una scena sacra, sembra un ballo di corte, un banchetto della mondanità. Ma è proprio lì, nel cuore del quotidiano, nel chiacchiericcio dei commensali, che accade il prodigio: l’acqua si fa vino. Un gesto discreto, nascosto tra le pieghe dell’ordinario, che sembra dirci che l’unione tra due persone, per quanto celebrata in pompa magna, conserva la sua verità nel piccolo, nel sommesso, nel condiviso.
Il matrimonio, insomma, non si misura con l’oro delle cornici, ma con la pazienza del servire e la capacità di accogliere il miracolo dell’altro.
È a partire da questo nucleo – fragile, intimo, ma esposto alla dimensione pubblica – che si può riflettere sul matrimonio come istituzione giuridica, come costruzione simbolica e, forse, come forma di resistenza. Perché se è vero che nel nostro tempo tutto tende alla smaterializzazione – dai rapporti di lavoro ai legami affettivi – il matrimonio resta un gesto che chiede forma, rito, dichiarazione.
È un atto che produce effetti giuridici, certo, ma anche un’esposizione volontaria: dire “sì” non è solo pronunciare una formula, è mettere il proprio desiderio dentro una struttura che implica reciprocità, vincolo, memoria.
L’articolo 143 del codice civile italiano parla chiaro: i coniugi hanno l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia. È una norma essenziale, quasi asciutta, che si scontra – o dialoga? – con le ambivalenze del sentimento. Perché se l’amore è per sua natura un atto libero, il matrimonio lo incapsula in una grammatica istituzionale.
Il paradosso è evidente: vogliamo legami che ci liberino, e insieme strutture che ci proteggano.
Cerchiamo l’immediatezza dell’incontro, ma ci affidiamo alla durata della forma.
Questa ambivalenza non è nuova. Il matrimonio è sempre stato attraversato da tensioni. Nell’antica Roma, più che un atto sacrale, era una funzione sociale: un’unione regolata da status, dote, discendenza. Il Cristianesimo lo spiritualizza, lo eleva a sacramento, ma nello stesso tempo ne irrigidisce la disciplina. La modernità tenta di emanciparlo dalla morale collettiva, ancorandolo alla libertà dei coniugi.
E la contemporaneità? Sembra oscillare tra due estremi: da un lato la smaterializzazione del vincolo, con forme flessibili di convivenza; dall’altro il ritorno al rito, come bisogno simbolico di fondazione.
Chi si sposa oggi, infatti, lo fa spesso con più consapevolezza che in passato. Non è più un passaggio obbligato, né un’imposizione sociale. È una scelta. E proprio per questo è più carica di aspettative, più esposta alla delusione. Ci si sposa per amore, certo, ma anche per cercare una forma: una struttura dentro cui abitare il proprio desiderio.
Il matrimonio, in questo senso, diventa una forma di architettura affettiva. E come ogni architettura, ha bisogno di equilibrio, di manutenzione, di proporzione.
Nel diritto, ciò si traduce in un’attenzione crescente alla volontà individuale, alla personalizzazione dei patti, alla tutela della persona. Il matrimonio non è più soltanto una struttura rigida, ma uno spazio da costruire a due, anche nei suoi aspetti giuridici. I patti prematrimoniali, ad esempio, sebbene non ancora pienamente riconosciuti nel nostro ordinamento, testimoniano questa esigenza di modellare il vincolo sulle specificità delle storie individuali. Si tratta di una tensione continua tra universalità della norma e singolarità del vissuto.
E tuttavia, questa flessibilità non cancella la potenza simbolica del gesto. Pronunciare un “sì” davanti a testimoni, assumersi obblighi giuridici, impegnarsi a costruire una storia che duri nel tempo, sono atti che – nonostante le crisi, le separazioni, le fragilità – conservano una forza rara.
In un mondo dove tutto si consuma rapidamente, il matrimonio è un gesto lento, deliberato, che chiede perseveranza. Non è un atto eroico. È piuttosto un atto umano. Esposto all’errore, alla noia, al fraintendimento.
Ma anche aperto alla trasformazione, alla complicità, alla rinascita. Come nel quadro di Veronese, non è l’eccezionalità che fa il miracolo, ma il quotidiano.
Il vino migliore, suggerisce il Vangelo, arriva alla fine. Dopo che si è bevuto tutto il resto, dopo che si è stati insieme anche nei giorni mediocri. Il matrimonio è questo: un cammino nella normalità, con lampi di grazia.
E se in queste riflessioni vi è un tono più raccolto del solito, forse è perché qualcosa, all’orizzonte, si muove. Non tutto può essere detto. Ma talvolta, anche nei pensieri più teorici, si insinua una vibrazione più personale. Un gesto che si prepara. Una data che si avvicina.
Un “sì” che aspetta di diventare parola reale, concreta, viva.