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Nessuno chiacchieri di Caino. Riflessioni sulla pietas cristiana verso indagati, imputati e condannati


di Francesco Camplani *



Caino e Abele - Jacopo Tintoretto (1519-1594), olio su tela tra gli anni 1550 e il 1553 - Venezia, Gallerie dell’Accademia - immagine tratta da commons.wikimedia.org


La lettura delle cronache giudiziarie pone quotidianamente davanti ad un paradosso: sembra di scorrere un bollettino di guerra fra la “brava gente” e un “esercito del crimine” – variamente identificato ne “i maschi”, “gli immigrati”, “i politici” e molto altro, a seconda delle proprie inclinazioni (a)politiche – o di assistere ad un’esplosione di violenza senza pari.

Se si consultano, subito dopo, i dati ISTAT e degli omologhi a livello europeo, si rimane stupiti di fronte alla constatazione di un’Italia che figura fra i Paesi più sicuri d’Europa e del Mondo. Del pari si rimane disarmati di fronte alle tendenze cronologiche: l’Italia di oggi è un Paese incredibilmente più sicuro dell’Italia di ieri, troppo spesso descritta con i toni nostalgici – indipendentemente dall’adesione a frange politiche estremiste – che la dipingono come un luogo povero ma pieno di persone buone.

Ora, non ci si vuole, con questa riflessione, soffermare sul dato statistico-quantitativo, che potrebbe risultare arido ed “astratto” rispetto alla constatazione che dietro ad ogni fatto di sangue vi è una vittima, e che ogni vittima è a propria volta una persona.

Neanche le vittime, tuttavia, saranno oggetto di discussione. In questa sede, ci si vuole focalizzare, piuttosto, sugli attori maggiormente stigmatizzati – ben al di là di una certa fisiologia legata all’orrore per i fatti o alla solidarietà per la vittima, nel momento in cui si arriva a trascrivere le intercettazioni sugli organi di stampa – delle vicende di crimine: l’indagato, imputato o anche il colpevole.

Non di Abele si parlerà, dunque, ma di Caino, cui il Signore imprime la propria protezione (Genesi 4, 15); non di Gesù sulla croce, ingiustamente condannato ed eseguito, bensì dei suoi carnefici, per i quali Egli stesso chiede perdono al Padre (Luca 23, 34), così come lo chiede per gli astanti che lo insultano e lo sfidano ad esercitare prerogative divine mediante atti mirabolanti, comprimari, in un certo qual modo, del discorso che qui si svolge.

Si sgombri subito il campo da un equivoco. Non si intende seguire la strada di un comodo “impunitismo”, né perorare orientamenti teorici estremamente nobili ed autorevolmente sostenuti ma, nell’ottica di chi scrive, allo stato poco praticabili, quali quelli che sostengono l’abrogazione dell’istituzione penitenziaria, foss’anche per la sola custodia cautelare. Chi viene fondatamente sospettato di un reato deve essere sicuramente indagato ed imputato, e nei casi più gravi sottoposto a misure cautelari; chi viene giudicato colpevole secondo il rigoroso canone dell’”al di là di ogni ragionevole dubbio” deve andare incontro ad una condanna, la quale deve essere eseguita, seppur lasciando spazi sempre più ampi alle forme di giustizia riparatoria che da pochi anni sono allo studio anche del legislatore italiano.

Tuttavia, si ritiene fondamentale affermare un punto di vista personalista – come esigono sia il pensiero cristiano che molte delle carte fondamentali moderne ad esso tributarie, ivi comprese la Costituzione della Repubblica italiana e la Convenzione Europea dei Diritti Umani (CEDU) – e garantista anche e, anzi, soprattutto verso chi si è macchiato di reati gravi. Ci si deve mettere d’accordo, in un certo senso, sia su quale debba essere il trattamento riservato alle persone dell’indagato e dell’imputato prima della sentenza, sia sui contenuti della pena irrogata ed eseguita a carico del condannato dopo l’eventuale condanna.

La continua esposizione delle indagini e dei relativi fatti, con i quali si è aperta la riflessione, non corrisponde a buona informazione, né risponde a principi di civiltà politico-giuridica, o financo a concetti di elementare umanità. Senza neanche prendere in considerazione i problemi che possono sorgere ai fini dello stesso svolgimento del processo – che, quantunque pubblico, si gioverebbe di una certa riservatezza, o comunque di una non-sovraesposizione – ci si può soffermare sulla persona dell’indagato o dell’imputato.

Questi ultimi sono persone per le quali non è ancora caduta la presunzione di innocenza: principio di retta ragione che talora può apparire “scomodo”, se ci si pone l’obiettivo di una punizione sommaria ed esemplare all’autore di fatti odiosi, ma che è irrinunziabile in una società democratica. Non ne beneficiano, infatti, “i criminali”, bensì ciascun cittadino: una società fondata su un principio di (tendenziale) fiducia, anziché di sospetto, aiuta tutti ad essere liberi di agire, osservando quei limiti minimi – o che tali dovrebbero essere – posti dal diritto penale. La vicenda di Gesù – innocente, ma imputato – lo dovrebbe insegnare ad ogni credente: nel suo caso, la condanna era già scritta, al punto che non ci si preoccupò delle palesi contraddizioni dei testimoni.

Quando la stampa, cartacea ed online, ed i mezzi radiotelevisivi parlano di persone sottoposte a processo come di delinquenti già acclarati o come di condannati in pectore, oppure trascrivono le loro intercettazioni – mezzo di ricerca della prova estremamente invasivo e lesivo di diritti fondamentali come l’inviolabilità del domicilio e la libertà e la segretezza delle comunicazioni: in considerazione di ciò, quanto emerge dovrebbe rimanere appannaggio esclusivo di chi indaga – disconoscono questo principio. E così lo disconosce chi, più o meno in buona fede, abbraccia una visione veicolata con tanta insistenza e toni esasperati dagli organi d’informazione.

Come affermato da Vittorio Manes, ordinario di diritto penale presso l’Università degli Studi di Bologna, queste prassi mediatiche denotano quanto la cultura civica sia dominata dai concetti di una “giustizia mediatica” che troppo spesso pretende di fare supplenza, con le sue facili certezze, a quella “cerimoniosa” e necessariamente ricca di incertezze, almeno sino alla sentenza, delle corti di giustizia.

Un impegno necessario per una visione cristiana e civile dell’indagato e dell’imputato deve quindi riportare al centro la retta ragione della presunzione di innocenza, rifiutando che i media condannino coloro che il sistema di giustizia – con il suo impianto accusatorio che esige che l’accusa riesca a saggiare le eccezioni della difesa, abilitata a conoscere gli atti e a rispondere ad ogni tesi avanzata dal pubblico ministero, oltre ogni ragionevole dubbio – ancora deve processare, mantenendo la mente critica ed aperta al dubbio.

La presunzione di innocenza si salda immediatamente ad un altro tema fondamentale. Anche qualora le evidenze dovessero apparire particolarmente schiaccianti, non viene meno un altro principio che, ad oggi, si è pienamente affermato come diritto umano: quello della difesa tecnica nel processo.

I due termini non possono essere disgiunti: il difensore in un processo penale, vale a dire l’avvocato, ha il dovere professionale di ricorrere a tutti gli strumenti che il diritto e la legge – e non mere intuizioni argomentative, come sembrerebbe guardando i cd. legal drama di matrice anglosassone – gli pongono a disposizione. Lo scopo di un siffatto professionista è, per vocazione e statuto professionale, quello di ottenere una pronuncia favorevole o, comunque, il trattamento penale più idoneo possibile a raggiungere gli scopi – sui quali si tornerà – non solo di retribuzione del fatto commesso, ma anche di risocializzazione del reo e di umanità del trattamento, come prescrive l’art. 27, comma III della Costituzione italiana.

La realtà sociale, eccitata da cronache martellanti e dai toni esasperati, fatica ancor troppo a comprendere l’importanza di questo diritto e delle figure tecniche ad esso connesse, sovente scambiando l’avvocato per una sorta di “apologeta morale” del condannato e dei fatti da esso – si sospetta – commessi. Lo dimostrano, da ultimo, le minacce rivolte ad un avvocato e professore universitario che ha assunto la difesa dell’imputato in un notissimo processo presso il Tribunale di Padova.

L’atteggiamento di rispetto, riservatezza, fratellanza non decade laddove si giunga alla condanna, quindi al superamento della presunzione d’innocenza. Ma non del diritto di difesa, che permane per tutta la fase di esecuzione della pena.

Con l’inizio dell’esecuzione della pena, anzi, si richiede ad ogni cittadino e ad ogni cristiano un “supplemento” di umanità e razionalità nei confronti di chi giustamente – lasciando quindi da parte, per semplicità, il tutt’altro che accademico caso della condanna per errore giudiziario e i casi di rovesciamento della condanna con il procedimento di revisione– è condannato. È a tal proposito fondamentale non cedere né a tentazioni violente – pena di morte, tortura, rappresaglie contro i familiari dei condannati – né, senza arrivare a tanto, a quel concetto di “vendetta pubblica”, analizzato con passione e rigore intellettuale dal magistrato Marcello Bortolato e dal giornalista Edoardo Vigna, reso dall’adagio popolare del “buttar via la chiave” o comunque da uno stato delle carceri che induce sofferenza nei detenuti.

La Costituzione italiana parla, appunto, di “senso di umanità” e di “rieducazione”. Il primo termine richiama, nella sua gentile potenza, il fatto essenziale di avere a che fare con esseri umani: i quali, sicuramente, hanno commesso fatti gravi e lesivi di “beni giuridici” essenziali per la collettività, ma che non per questo smettono di essere uomini e donne. De-umanizzare, d’altro canto, è sempre molto pericoloso: è un attimo passare da “i criminali”, specie se già debellati ed assicurati alla giustizia, a categorie deboli ed indifese, come avvenuto soprattutto sotto il regime nazionalsocialista in Germania, ma anche sotto quello fascista in Italia.

Il secondo termine può apparire, in una certa ottica, piuttosto infelice, in quanto sembra richiamare esperienze e concetti derivanti dal comunismo sovietico. Spesso, nel dibattito odierno, lo si volge in “risocializzazione”: ovvero, nel reinserimento nei valori sociali e nella vita della collettività. Vi è, naturalmente, il paradosso di dover conseguire un simile risultato in istituti che, a ben vedere, isolano il condannato dalla collettività: nondimeno, quando i penitenziari rispondono a criteri di civiltà ed organizzazione – e su questo, in Italia, vi è un immenso lavoro da svolgere, implicante anche la necessità di destinare cospicue risorse pubbliche, raccolte tramite l’imposizione fiscale, ad uno scopo che risulta ancor troppo impopolare– e prevedono attività formative e lavorative per gli internati, la pena può diventare un’occasione formidabile di rinnovamento personale.

D’altronde, insegna Victor Hugo, tramite il memorabile personaggio del protagonista de “I miserabili” Jean Valjean, che dal male non si può certo uscire con altro male, bensì con un esercizio di profondo bene quale quello del Vescovo di Digne. Il “profondo bene” non è il lassismo del “lasciar correre”: richiede un sacrificio da tutte le parti e l’impegno di vedere un uomo, una donna, un fratello ed una sorella anche in chi commette il male e deve venir condannato per questo.

In termini di prospettive future, ogni cittadino, ogni cristiano è chiamato a salutare con favore le innovazioni che deriveranno dall’introduzione, auspicabilmente sempre più penetrante e generalizzata, degli istituti della giustizia riparativa. Si tratta di rituali di “riparazione” della lesione concretamente cagionata che intendono superare il risarcimento pecuniario del danno civilistico, che può essere preteso anche forzatamente, e operare anche in assenza di un “ravvedimento operoso” spontaneamente attuato da chi commette un reato quando l’azione si è conclusa, ma il procedimento non è iniziato.

La giustizia riparativa, nelle sue versioni laiche e statali, non obbliga il condannato ad ammettere la colpevolezza – quello di professarsi innocente seppur contro le evidenze è un altro diritto che non viene mai meno – o a chiedere pubblicamente “perdono” umiliandosi. Tuttavia, laddove ricorrano alcuni presupposti, lo spinge progressivamente ad una revisione critica del suo comportamento, ad un incontro con la vittima e ad una collaborazione nella riparazione – almeno simbolica – del “bene giuridico” che è stato offeso, possibilmente in cooperazione con la vittima.

Naturalmente, al compimento di un simile percorso individuale e collettivo sono connessi vantaggi sia prima che dopo la condanna: ma i requisiti della giustizia riparativa sono tali da necessitare che al centro vi sia, innanzitutto, l’intento riparatorio e la ricostruzione di una relazione.

Si tratta, come dice il giurista e padre gesuita Francesco Occhetta, di «Sostituire la spada con l’ago e il filo, perché la giustizia rammenda le relazioni che si sono spezzate, sia personali sia sociali», nell’ottica di «ristabilire la fraternità negata o tradita».

In conclusione. Come cittadini, come cristiani, siamo dunque chiamati a riconoscere senza distinzioni la dignità di essere umano e di fratello a chiunque sia condannato, a prescindere dalla gravità del reato commesso: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io (…) ero (…) carcerato e siete venuti a trovarmi» (Matteo 25, 34-36), lavorando ed investendo per una pena che sia davvero umana e risocializzante.

E quando a condanna non si sia ancora giunti, ci si deve impegnare a non cedere alle sirene del sensazionalismo, sapendo che l’indagato e l’imputato sono ancora presunti innocenti e sono titolari di un diritto di difesa.

Infine, siamo chiamati a salutare la giustizia riparativa non come una facile perdonanza per delinquenti, bensì come uno strumento di ricostruzione del rapporto di fraternità: perché, come insegna Santa Teresa del Bambin Gesù, anche chi abbia commesso il peggiore dei crimini possa mantenere fiducia nei fratelli e nelle sorelle, e perché questi ultimi siano pronti ad accogliere il fratello e la sorella “in errore” disposti a riannodare i fili della fraternità.



*Francesco Camplani è Funzionario presso l’Ufficio Affari Legislativi e Relazioni Parlamentari del Ministero dellInterno. Dottore di Ricerca in Diritto penale, Università degli Studi di Napoli Parthenope, Proff. A. De Vita - F. Rippa. Dottore in Giurisprudenza, Università degli Studi di Roma La Sapienza”. Già Tirocinante ex art. 73 presso la Suprema Corte di Cassazione e post-doc presso lUniversità di Macerata