Foto di Paola Cazzaniga

Martedì, o la visita del Messia


di Miriam Camerini




Martedì qui a Gerusalemme sono successe un paio di altre cose: alla scuola che frequento per diventare rabbino abbiamo studiato un’altra parola, quasi contraria a quel disinteressarsi di cui ho scritto la settimana scorsa; pakod: visitare, andare a trovare, ma anche ricordarsi di, prendere in considerazione, esaudire. Il contesto, anche in questo caso, era strettamente normativo e legato alle specifiche regole che stiamo studiando riguardo i rapporti fra moglie e marito e il ciclo mestruale che scandisce la vita della coppia. Secondo il Talmud, un uomo che sta per partire e sa che quando tornerà troverà la moglie già in stato di impurità, ha il dovere di “andarla a trovare” prima di mettersi in viaggio, per non perdere l’ultima occasione di un’intimità fisica che poi potrà essere ripristinata solo dopo circa due settimane. Un commento medievale al testo rabbinico (dei primi secoli dopo Cristo) prova a spiegare diversamente questo strano verbo, che più spesso nella Bibbia è attribuito al divino, il quale più che congiungersi carnalmente “visita” o “si ricorda”. Allora il marito più che preoccuparsi di trascorrere un’ultima romantica notte d’amore dovrebbe proprio “passare a salutare” l’amata, renderle visita, congedarsi, segnalare un affetto che possa compensare - nei giorni a venire - la distanza di kilometri prima e di leggi antiche e dure poi. Amo questo cortocircuito fra il verbo che nella Genesi è riferito al Creatore che mantiene ciò che ha promesso, sebbene a distanza di anni, rendendo Sara madre, come in Genesi 21:1, o traendo il Suo popolo dall’Egitto, secondo la profezia di Giuseppe sul letto di morte negli ultimi versi della Genesi 50:25 (“Dio si ricorderà di voi sicuramente e porterete via le mie ossa da qui”) e l’immagine cristiana dell’arcangelo Gabriele che visita Maria con il bell’annuncio: anche lei sarà madre, anche per il suo popolo verrà la salvezza. Redenzioni private come quella di Sara, di tutto il popolo in Egitto e di un tempo dopo il tempo, tempo addirittura non ancora venuto per il mio popolo che il messia ancora lo aspetta...

 

C’è dunque qualche cosa di salvifico in questo poked che ora tradurrei come: prendersi cura di, tenere in conto ... avere in nota, direbbe mia madre. A casa mia non aver in nota è più o meno la peggior cosa che si possa fare a una persona. Forse è per questo che quando in quello stesso pomeriggio un amico mi porta con sé a visitare un suo conoscente, bell’uomo, colto, capace, brillante, che gestisce uno spazio interessantissimo dedicato alla lingua ebraica, ma anche alla letteratura ebraico-tedesca, insomma un luogo in cui io potrei fare faville, spettacoli, concerti, letture e incontri, e quest’uomo non mi degna di uno sguardo né una parola di ciò che dico pare interessarlo, che pare non sentire nemmeno ciò che propongo, decido di alzarmi e girovagare fra libri e alberi. La mia, di redenzione, questo pomeriggio in mezzo a parole a me tanto care, è non lasciarmi ignorare, non stare dove non mi si vuole, che poi significa più semplicemente (“l’inconscio non conosce il negativo”, mi disse una volta il mio psicoterapeuta): andare verso chi mi vuole, smettere di cercare chi mi rifiuta, accogliere chi mi cerca, per imparare a dare proprio a chi non chiede, ma - come tutti - ha probabilmente bisogno.