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Viaggio in Italia

di Stefano Agnelli


2. Il bar “malfamato”




Frequento molto i bar. Sarà perché nel piccolo paese in cui sono cresciuto era il punto di ritrovo di tutte le generazioni, dove ricevevi l’imprimatur, cioé quell'insieme di regole che dovevi assolutamente seguire per far parte del mondo degli adulti un domani. Pochissime per la verità: i più grandi hanno sempre ragione; vola basso e non fare il furbo o lo spaccone; questa è la tua comunità, rispettala e cerca di accettare tutti. Potrà sembrare strano, ma proprio questo punto è quello maggiormente seguito in quel genere di locale, oramai in via d'estinzione, che per intenderci chiamerò: il bar “malfamato”. Anche se quest'ultimo termine andrebbe riveduto, cancellato, perché creato dai benpensanti per essere discriminante, mentre esiste più rispetto e solidarietà qui, in questo tipo di locale, che nei loro bar d’élite, tutti o quasi posizionati attorno al centro storico e rigorosamente bar pasticcerie, dove si consuma il rito dell'aperitivo, o della colazione tardi, la domenica mattina.

Per prima cosa dirò che non è difficile farsi accettare nel bar malfamato, contrariamente a quanto avviene nei bar d’élite (dei cremini, si dice a Ferrara), anzi. Basta sedersi nella distesa esterna un paio di volte, mescolarsi agli avventori abituali, con una bibita o un caffé, forse meglio ancora una birra, ma l’alcool in fondo non è necessario. È invece fondamentale ascoltare i discorsi di chi sta attorno a te, farsi un’idea dei frequentatori abituali, ma non per curiosità o per solitudine e bisogno di sentirsi accettati, piuttosto animati da vero desiderio di umana condivisione e solidarietà. Poi, dopo un certo periodo, iniziare a interagire con gli avventori. Ma andiamo con ordine.

Le prime volte che mi sono fermato nel mio bar malfamato preferito, dove oramai mi chiamano “prof.”, è stato per comodità e per mancanza di remore, di timore delle barriere sociali. I bar cittadini infatti li frequento quasi tutti, compatibilmente con il tempo libero che ho a disposizione. Ad esempio, c’è un piccolissimo bar del centro – una stanzetta con quattro tavoli all'esterno – dove amo sostare a lungo per guardare il puro e semplice viavai delle persone nella zona pedonale, soprattutto nei giorni festivi. Qui gli avventori sono quasi tutti occasionali, non si conoscono fra loro, oppure sono divisi per tavoli: ogni tavolo un gruppetto di amici. Al bar malfamato no. Prima di tutto ci sono persone di ogni età – ad esclusione degli adolescenti, che oramai non frequentano più questo tipo di bar, e anche quando lo fanno, hanno i loro. Quasi tutti gli avventori fanno un lavoro manuale e si conoscono da anni, molti sono cresciuti assieme, spesso nei quartieri peggiori della città, ma non per questo non vengono accettati, o peggio emarginati, i nuovi arrivati, cosa che succede spesso nei bar dei “cremini”. Solitamente si forma un unico grande cerchio attorno a due o tre tavoli riuniti, ed anche gli altri tavoli esterni sono in realtà dei satelliti. Tutti, ad esclusione dei “nuovi”, perché ancora non sanno, poi col tempo potranno farlo, interagiscono nelle discussioni, che hanno quasi sempre un tono divertito, allegro e canzonatorio, in cui uno o più avventori sono presi di mira. Si parte quasi sempre da un ricordo, comune a pochi, che però viene sempre condiviso, e tutti, tranne i “nuovi” appunto, hanno almeno qualche elemento per decodificarlo e commentarlo, tra l'ilarità generale. Si parla molto di sport, di cibo, citando i ristoranti noti (a cui spesso ci si reca a fine discussione), e di cosa si è mangiato o si vorrebbe mangiare, del modo “vero” di cucinarlo – e qui i dibattiti si fanno eterni. Questo atteggiamento è consolatorio: toglie pesantezza alla quotidianità, crea legami solidali contro il reale, la quotidianità, il mondo del lavoro, della politica, della burocrazia senza senso, e va di pari passo con la quantità di birra, spritz e vino che si consuma, nonché con le molte sigarette fumate, pur nelle poche ore in cui si sta insieme nelle pause dal lavoro.

Certo, non è sano, dal punto di vista fisico. Personalmente, prendo solo qualche caffè o una birra soltanto, ma è inutile negarlo: fumo almeno il doppio. Qualche stortura da compensare, direbbe lo psicologo di turno, ma diffido sempre delle persone che non hanno vizi. E poi, stare qui, al bar malfamato, fa bene all’anima. Come diceva un personaggio di Requiem, forse il romanzo capolavoro di Antonio Tabucchi: “L’Inconscio è roba della borghesia viennese d’inizio secolo, (…) noi siamo roba del Sud, la civiltà greco-romana, non abbiamo niente a che fare con la Mitteleuropa, scusi sa, noi abbiamo l’anima.”

Fa bene all'anima, vedere fra gli avventori una mutua solidarietà: si offrono da bere l'un l'altro – si paga “un giro” - e ogni tanto si sente una richiesta: “dammi 10 euro” e l'interpellato li tira fuori, magari con una lieve canzonatura, ma senza battere ciglio, così, a fondo perduto, perché sa che l'altro, in quel momento ne ha bisogno, non importa per cosa. Sa anche che un giorno o l'altro potrebbe essere lui a chiedere, e gli sarà dato. Mi ha sempre infastidito quel modus operandi, che a volte ho visto, specie fra i cattolici, di fronte ad una richiesta di denaro da parte di un mendicante: “hai fame? Ti compro un panino invece di darti i soldi”. È un modo indiretto di giudicare, di ergersi sopra l’altro. Per sopportare certe vite, mi spiace dirlo al benpensante di turno, l'alcool è meglio del panino. Non si vuole essere complici? Ricordo la nonna del mio amico Daniele, di fronte alle critiche in questo senso (“Maria perché gli hai dato dei soldi? Adesso se li va a bere”), che rispondeva – da vera donna di fede, e conoscendo solo il dialetto - “Mi ‘a fag’ la carità in tal nom dal Sgnor”, ovvero: “Io faccio la carità nel nome del Signore”, come a dire “poi ci penserà Lui”.

Ricordo il Natale scorso. Ero seduto fuori, nonostante il freddo, ed il bar era deserto. D’improvviso hanno cominciato ad arrivare quasi tutti gli avventori, uno per volta, alla spicciolata. Hanno iniziato ad abbracciarsi ed a fare festa, con scoppi di gioia improvvisa e grida di piacere al riconoscere l’altro, esagerando volutamente i gesti. Mi sono sentito il cuore lieve, ho iniziato a ridere di fronte a quella scena di affetto sincero, ma più che comica, ripetendo: “No, basta, basta acsì: tropp’ sumar par un sol’ profesor!” (“basta così, troppi somari per un professore solo!”). Delle loro storie però, per quanto oramai conosca molto della maggior parte dei clienti di questo bar, non dirò proprio nulla, neanche un dettaglio e mi dispiace per chi avesse curiosità pruriginose. Non è una forma di omertà la mia, prima di tutto vedo le vite, non certo leggere, di alcuni fra loro e le rispetto. Poi credo sia una forma di virtù, appresa proprio qui, dove gli assenti vengono nominati solo a titolo informativo o in un racconto, un aneddoto, e quasi sempre in modo positivo, persino i più difficili da sopportare. È una regola condivisa: non si parla male dei propri amici, specie quando non ci sono, e conosco pochi ambienti dove questo precetto, quasi evangelico, viene rispettato. Piuttosto, iniziate a sedervi da soli nei bar, malfamati e non - appena la morsa del Covid si sarà allentata - così, a caso, fermatevi ad osservare, ad ascoltare. È ora di tornare a farlo, ne abbiamo bisogno, e quando vi fermate, tenete lo smartphone in tasca. Credetemi, c’è molto da imparare, anche e soprattutto su noi stessi, sulla nostra capacità di capire e accogliere l’altro, chiunque sia.