Trieste non è quella di settanta anni fa
di Stefano Sodaro
Cattedrale di San Giusto, Trieste, 3 novembre 2024: mons. Trevisi e mons. Crepaldi - foto per gentile concessione della Diocesi di Trieste
Un insigne docente dell’Università di Trieste mi spiegò qualche anno fa, con una certa severità, che di memoria si può anche morire.
E la città dove ha sede questo settimanale – e dove ha sede pure l’Associazione Culturale Casa Alta – rischia davvero di non riuscire ad avanzare mai, neppure dopo gli sforzi simbolici in tal senso (ma che, appunto, corrono il pericolo di restare soltanto tali, simbolici), da un incapsulamento nel passato, ritenuto unica fonte di autentici valori civici, ideali, religiosi, politici, sociali.
In realtà Trieste si è proprio schiantata contro il muro del Novecento ed il Secolo Breve fa trasparire anche la brevità della storia del capoluogo giuliano che non sembra potersi estendere a prima del Settecento.
Il sedicente culto per la memoria a Trieste è, in realtà, devozione verso una memorialistica, che è ben altro, circoscritta al periodo che va dalla fine della Seconda Guerra Mondiale al Trattato di Osimo, del 1975, con cui fu sancita la sovranità jugoslava sull’allora “Zona B”. E nell’arco di tempo tra il 1945 e il 1954 Trieste fu soggetta all’Amministrazione Militare Alleata sino alla firma del “Memorandum di Londra il 5 ottobre 1954, che sancì, a propria volta, il definitivo passaggio della Venezia Giulia all’Italia.
La Chiesa di Trieste – cattolica, sì, ma anche “Chiesa cristiana” e basta – ha accompagnato, anzi interpretato, vissuto, attraversato, quegli anni che le hanno riconsegnato una memoria assai più dolorosa che lieta.
L’allora vescovo, Mons. Antonio Santin, respinse con sdegno, nel periodo nazifascista che straziò la città, la proposta odiosamente razzista di trasformare la sinagoga locale in chiesa e protestò davanti a Mussolini, sul sagrato della Cattedrale di San Giusto, per l’emanazione delle leggi razziali del 1938. Ma poi don Edoardo Marzari, Presidente del CLN, dovette, dopo la liberazione, lasciare Trieste perché le sue idee, ritenute troppo avanzate, non trovarono il consenso episcopale.
Dopo il congedo di mons. Santin, per disposizione di Paolo VI divenne Amministratore Apostolico mons. Pietro Cocolin, Arcivescovo di Gorizia, dal 28 giugno 1975 all’8 dicembre 1977, giorno dell’entrata in San Giusto del nuovo Vescovo – il primo del postconcilio e dei nuovi tempi postbellici – mons. Lorenzo Bellomi, veronese. Il suo episcopato, quasi ventennale, ha segnato in profondità la storia, non solo ecclesiale, di Trieste. È impossibile farne una qualunque sintesi ora, ma forse si può, a mo’ di lampo di luce, accennare solo, qui, alla sua convinta adesione – nei primi anni Ottanta del Novecento - all’obiezione di coscienza alle spese militari, posizione che gli attirò il dileggio di un ministro del tempo. E, altro bagliore, si può menzionare il suo invito a don Tonino Bello perché predicasse alla Veglia di San Giusto il 2 novembre 1990, pronunziando parole che lasciarono clero e popolo tra commozione ed imbarazzo, per la loro forza profetica.
Bellomi morì mentre era vescovo di Trieste ed il suo successore fu mons. Eugenio Ravignani, già Rettore del Seminario, prete della stessa Diocesi di Trieste e da Bellomi ordinato vescovo per la Diocesi di Vittorio Veneto, che lasciò per Trieste nel 1997. La linea pastorale e lo stile episcopale di Bellomi e Ravignani, in sostanziale continuità, furono archiviati – e consegnati alla memorialistica, per appunto - con l’arrivo di mons. Giampaolo Crepaldi, proveniente dalla Curia Romana e nominato da Benedetto XVI. Si determinò una cesura nella conduzione della diocesi che valorizzò esigenze identitarie e di affermazioni valoriali contrapposte alla cultura progressista laica di Trieste, mentre fu valorizzata la componente, sempre laica ma, conservatrice della sua cultura e dei suoi assetti socio-politici, ritenuta più vicina alla non negoziabilità di quei valori.
La successione di mons. Crepaldi, con gli inizi dell’episcopato triestino di mons. Enrico Trevisi, parroco cremonese, è storia dei nostri giorni, di questi giorni. Mons. Trevisi è stato nominato da Francesco e respira dello stesso afflato pastorale del Papa. È, con buona probabilità, il primo vescovo di Trieste che possa finalmente liberarsi dal peso ossessionante della memorialistica, lasciando che la memoria apra al futuro e non si sterilizzi nella fossilizzazione del passato.
Certo, la chiusura del confine con la Slovenia – sospendendo l’Accordo di Schengen – è esempio emblematico di come il passato ancora incomba sul nostro territorio e sulla nostra storia. Bandiere, alabarde, alte uniformi, parate, corone d’alloro, fanfare e schieramento d’armi sembrano irrinunciabili per affermare l’italianità di Trieste.
Ma il futuro che speriamo e per il quale vogliamo spenderci, è stato disegnato da mons. Trevisi questa mattina nella Cattedrale di San Giusto, celebrando, proprio oggi 3 novembre, la solennità del Patrono. Quel futuro sta precisamente, per chi ci crede (anche tramite la povera scrittura di queste righe) «nella ricerca delle tracce del Dio incarnato nella storia di tanti crocifissi che ci abitano a fianco, che ci camminano a fianco.»
Buona domenica.
Buona Festa di San Giusto.