Il crollo dell’alterità? Una domanda all’ebraismo dopo il 7 ottobre
di Stefano Sodaro
Creazioni digitali tramite IA
C’è una domanda che mi abita da mesi, e che non riesco a tacitare. È una domanda che nasce dal dolore, profondissimo, inascoltato, pare incurabile, non dal giudizio. Dal rispetto, non dalla distanza. È la domanda che rivolgo all’ebraismo mondiale – e a me stesso – dopo il trauma del 7 ottobre 2023.
Quel giorno, l’eccidio disumano compiuto da Hamas ha aperto una ferita profonda, che ha scosso la coscienza ebraica, anzi umana, universale - ma anche la mia persona coscienza -, fino alle sue fondamenta. Il dolore è stato immenso, e la paura reale. Ma proprio per questo, mi chiedo: che ne è oggi di due pilastri del pensiero giudaico-cristiano, ovvero l’alterità e l’autocritica?
Questo editoriale nasce da una tensione interiore, non da una condanna. È scritto con rispetto, ma senza reticenza. Non è un attacco all’ebraismo, figuriamoci: mi suiciderei culturalmente ed emotivamente rispetto a tutto ciò in cui credo. Invece è una domanda rivolta alla coscienza profonda dell’ebraismo che amo. Il tono è forte, perché forte è la crisi che attraversa oggi la tradizione giudaica, e con essa il pensiero giudaico-cristiano. Ed il mio personale pensiero, la mia persona riflessione quotidiana, ne soffrono lacerazione. Se le parole feriscono, è perché la ferita è già aperta. E forse, solo nominandola, possiamo iniziare a guarirla.
Mi ritorna alla mente, ancora più dentro, nei meandri misteriosi della coscienza, quella medesima domanda che mi tortura, mi strazia, non mi fa respirare: che ne è oggi di alterità e autocritica, sommi princìpi della sapienza ebraica? “Alterità” e “autocritica”.
Il pensiero giudaico-cristiano ha sempre cercato di abitare la ferita che resta aperta: quella che ascolta, che si lascia interrogare, che genera alterità e autocritica. Sì, ancora.
È la ferita di Abramo che accoglie l’ospite, di Mosè che intercede per il nemico, di Gesù che muore perdonando. Ma dopo il 7 ottobre 2024, qualcosa si è spezzato. L’eccidio compiuto da Hamas ha provocato un trauma profondo, che ha scosso l’ebraismo mondiale fino alle sue radici. E la risposta, in molti casi, non è stata quella della ferita che resta aperta, ma della corazza che si chiude.
Il dolore è stato assolutizzato, l’alterità sospesa, l’autocritica rimossa.
Il pensiero ebraico, nella sua forma più alta, ha sempre cercato di resistere alla tentazione di trasformare la vittima in carnefice. Ma, oggi, quella resistenza è messa a dura prova. Gaza è diventata un deserto di corpi e di voci, e chi osa parlare di crimini di guerra, o di genocidio - perché anche il proprio sé, divenuto irriconoscibile per la sua brutalità, va guardato negli occhi -, viene accusato di tradimento o antisemitismo.
La Shoah fu il prodotto più oscuro della cultura europea.
Europea, però, non di chissà dove.
È figlia, orrenda, della nostra stessa cultura la Shoah, non della cultura palestinese.
Dopo il 1945, l’Occidente si trovò di fronte a una tragedia che aveva messo in crisi la sua stessa idea di civiltà. La risposta fu duplice e fu convulsa, concitata, imbarazzata: la giustizia vendicativa — di per sé giuridicamente lecita, e tuttavia ben diversa dalla semplice “vendetta”, la distinzione è sottile, si pensi da un lato ai processi di Norimberga e dall’altro, invece, al bombardamento sistematico e indiscriminato della Germania, con centinaia di migliaia di morti — e una riparazione morale, sempre al di qua di un risarcimento comunque impossibile, che prese la forma della fondazione dello Stato di Israele.
Però questa riparazione non fu attuata in Europa, dove la Shoah era avvenuta, dove la cultura dello sterminio era germinata culturalmente, pianificata, eseguita con modalità addirittura orrendamente industriali (“la macchina della morte”), bensì in Palestina — una terra già abitata, coinvolta in modo tragicamente strumentale in una soluzione decisa altrove, senza voce né consenso. La eticamente doverosa, necessaria, indifferibile, e sempre insufficiente - merita ribadirlo -riparazione per lo sterminio delle figlie e dei figli di Israele fu pagata non dai carnefici, alcuni processati, sì, ma molti, moltissimi, scappati e fatti scappare, bensì da un altro popolo, che non aveva avuto alcuna responsabilità diretta nella Shoah, se non per la controversa collaborazione di una figura come Amin al-Husseini, Gran Muftì di Gerusalemme, con il regime nazista. Quella collaborazione, per quanto grave e documentata, non può essere estesa al popolo palestinese nel suo insieme, né può giustificare l’espulsione di centinaia di migliaia di civili nel 1948.
Bisognerebbe trovare il coraggio di dirlo: la raffinatissima, eppure luciferina, cultura europea, nostra cultura europea, pensò di lavarsi la propria coscienza antisemita, madre mostruosa della Shoah, trasferendo altrove, e facendolo pagare ad altri, il debito morale incommensurabile contratto verso le figlie e i figli del popolo d’Israele.
La responsabilità storica della Shoah resta tutta e solo europea, e la Palestina ne fu coinvolta in modo tragico, non come colpevole, ma come terreno su cui si è cinicamente giocata una riparazione decisa da altri. Questo è.
Il popolo palestinese fu ignorato nei calcoli geopolitici. La sua espulsione e la distruzione dei suoi villaggi — la Naqba — non furono considerate una tragedia da evitare, ma un effetto collaterale della necessità storica di fondare Israele per dovuto risarcimento morale. Costasse quel che costasse. La Risoluzione 181 dell’ONU del 1947, accettata da Israele e rifiutata dai Palestinesi, proponeva la partizione della Palestina, ma non era vincolante. Israele nacque con una forte legittimità morale agli occhi, velati d’ipocrisia, dell’Occidente e tuttavia senza una legittimità giuridica pienamente condivisa con i popoli arabi e palestinesi.
La Naqba, la “catastrofe” palestinese del 1948, non ha mai ricevuto una legittimazione giuridica internazionale. La Risoluzione 194 dell’ONU riconosceva il diritto al ritorno dei profughi palestinesi, ma non fu mai attuata. Israele ha sempre rifiutato di riconoscere quel diritto, temendo che avrebbe compromesso la maggioranza demografica ebraica. La memoria della Naqba è stata spesso marginalizzata, anche per evitare confronti scomodi con altre tragedie storiche.
Eppure, eppure: ci sono voci che resistono.
Gideon Levy, giornalista di Haaretz, denuncia ogni giorno la disumanizzazione dei palestinesi e la violenza dell’occupazione.
Avraham Burg, ex presidente della Knesset, ha assunto posizioni post-sioniste e sostiene che ogni individuo tra il Giordano e il Mediterraneo dovrebbe godere di diritti uguali.
Peter Beinart parla della necessità di riconoscere la piena umanità dei palestinesi.
Queste voci ci ricordano che l’etica ebraica non è proprietà dello Stato, ma eredità della coscienza. Che la giustizia non è mai unilaterale. Che la ferita può ancora restare aperta.
Vorremmo che ad esse si unissero quelle di ebraiste ed ebraisti del nostro Paese, delle cultrici e dei cultori delle scienze giudaistiche, che oggi sembrano assenti, silenti, distanti rispetto a quanto a quanto accade a Gaza. A Gaza, appunto, non in Israele. C’è chi ha tenuto persino una rubrica fissa su questo nostro settimanale, ed oggi tace.
Questo editoriale è, vorrebbe essere, un invito. Piccolissimo. Ma convinto.
A tornare alla ferita che ascolta.
A riconoscere il volto dell’altro, anche quando ci fa paura.
A non rinunciare all’autocritica, perché è lì che abita Dio.
Se il pensiero giudaico-cristiano perde la capacità di ascoltare il dolore dell’altro, allora non è più pensiero: è ideologia.
Se non sa mettere in discussione la propria giustizia, allora non è più etica: è potere.