Domande e risposte brevi
di Dario Culot
Elaborazione fantastica IA per questo contributo di Dario Culot: nessun dettaglio è reale
Domande e risposte brevi
1. In vari articoli ho parlato dell’Occidente per contrapporlo, nell’attuale situazione geopolitica, ad altre culture del mondo. Ma cosa intendo per Occidente?
Il fulcro dell’Occidente, con la tutela dei diritti individuali, sta nella centralità della singola persona. Non prevale lo Stato (come in Cina o in Russia) che cancella la capacità del singolo di autodeterminarsi, e pone le scelte governative fin al di sopra della dignità delle singole persone. Non prevale la razza (pur con tutti gli episodi di razzismo che affiorano anche da noi), non prevale il censo. Come ben dice l’incipit della nostra Costituzione, la sovranità appartiene al popolo, cioè una collettività libera e fondata sulla centralità del singolo. Il primato del singolo, anche se a volte tradito, anche se a volte porta a ingiustizie, esclude che l’essere umano possa essere ridotto a oggetto, e questo è un valore che tutto l’Occidente condivide.
Altri Paesi, forti anche militarmente ed economicamente, non condividono questi fondamenti etici della nostra cultura.
Inoltre l’Occidente è sostanzialmente laico, nel senso che la religione cristiana è un ambito particolare della nostra cultura, ma – a differenza degli Stati islamici - non è di sicuro più la fonte unitaria di tutte le regole della vita individuale, né delle istituzioni della vita comune.
Si può dire che questa impostazione centrata sui diritti individuali – che non si trova in altre culture - trova origine nel cristianesimo, perché Gesù non ha escluso nessuno e, avendo anzi abbracciato tutti in piena armonia, ha dimostrato che all’essere umano è dovuta un’attenzione per il solo fatto di essere umano: da qui deriva il riconoscimento della dignità di ogni essere umano, anche del più povero ed emarginato. Ovviamente questa grande idea, base della nostra cultura, non ha trovato piena attuazione neanche in Occidente e si deve ancora lavorare molto per realizzarla compiutamente. Forse la si trova attuata nei piccoli paesi dove gli abitanti sono così pochi che ognuno è veramente qualcuno, e quando cessa di esserlo se ne accorgono tutti. Nelle grandi città uno può morire e nessuno se ne accorge per un bel po’ neanche nel suo condominio.
Dunque non tutto nel democratico Occidente è ‘rose e fiori’. Le decisioni in democrazia sono lente perché si deve discutere tanto e spesso non si trova un accordo. Inoltre, dovendo rendere conto agli elettori, è tipico della politica democratica vendere al pubblico l’idea che per ogni problema ci sia una soluzione (anche quando non c’è) e che, per giunta, la suddetta soluzione sia a portata di mano e la si possa ottenere in tempi brevi. Spesso invece la soluzione non c’è proprio o, se c’è, i tempi perché essa maturi possono risultare assai lunghi. Per questo molti guardano con interesse e invidia alle autocrazie dove le decisioni sono rapide, ma spesso a scapito della libertà e dignità dei singoli.
2. Cosa è il Vangelo?
Per me il Vangelo è un insieme di racconti che riguardano Gesù e che espongono un modo di vivere, una prassi. Non è certamente un insieme di dottrine e teorie dogmatiche. Dai vangeli risulta che Gesù ha sfidato l’autorità (i sacerdoti), le regole (ha guarito di sabato), le convenzioni sociali (si è fatto accompagnare da donne discepole). Ma non ha solo messo in crisi un sistema oppressivo, perché una condotta meramente destruens (che distrugge e non costruisce) non porta necessariamente al miglioramento: potrebbe portare al caos o a un’oppressione maggiore. Ha anche indicato una via, quella della libertà, e questo obiettivo non lo si misura in denaro o in potere ma con la qualità dell’esistenza.
Si è allora cristiani vivendo come è vissuto il Gesù dei vangeli. La fede del cristiano si dovrebbe vedere anche oggi nella misura in cui uno promuove la vita attorno a sé. Invece la maggior parte di coloro che si dicono cristiani preferisce di solito dire agli altri ciò che devono fare per essere a posto con Dio, preferisce fungere da doganiere (come diceva papa Francesco) nei confronti di chi vuol rivolgersi a Dio, mentre Gesù non chiedeva nessun documento a nessuno: ascoltava, accoglieva e faceva vivere meglio chi gli si avvicinava.
In parole povere: è difficilissimo essere cristiani.
3. Ho sempre parlato pochissimo del peccato, per cui, trascurando l’importanza del peccato (questo punto è stato fra l’altro usato dal Vaticano nel 1984 per stroncare la teologia della liberazione), vado contro l’insegnamento della Chiesa. Non si deve dimenticare che Gesù stesso ha mandato i suoi discepoli a predicare a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati (Lc 24, 47).
Non c’è dubbio che nella Chiesa cattolica, ma in genere nelle religioni monoteiste, il tema del peccato è fondamentale. Per non cadere nel peccato è quindi fondamentale impostare la propria vita tendendo al perfezionamento della nostra anima.
Ma se leggiamo con la dovuta attenzione i vangeli, mi sembra che per Gesù il peccato non era affatto fondamentale come lo è per la Chiesa: per lui fondamentale era che la nostra vita fosse piena, che ciascuno producesse buoni frutti, il che significa generare vita e armonia attorno a noi. Gesù ha insistito nella sua predicazione sul regno di Dio e questo regno può avvenire solo se noi per primi ci convertiamo, cioè se cambiamo radicalmente il nostro modo di vivere: da egoistico ad altruistico.
Gesù non dice che il peccato non esiste o è irrilevante, ma la sua idea di peccato non è collegata alla colpa del peccatore; piuttosto è collegata all’idea che nel peccato si sta sprecando la vita, ponendo poca attenzione nel non danneggiare le relazioni con gli altri. A conferma di questo, basta ricordare le continue violazioni dei sabati in contrasto con la norma mosaica (quindi asseritamente voluta da Dio), perché Gesù vede che la norma spesso non è vicina alla realtà, e a lui interessa solo curare il bene dell’uomo, non cosa dice la legge. Davanti alla donna adultera (Gv 8, 1-11) che viene messa al centro di un cerchio di morte, con tutti pronti a tirarle le pietre (nel nome di Dio si può purtroppo stare facilmente dalla parte dei carnefici, della violenza, delle guerre), Gesù è l’unico che le rivolge la parola quando gli altri (ferrei custodi della legge ma tutti peccatori) se ne sono andati. E a quel punto non le chiede di riconoscere le sue colpe, non le dà alcun perdono formale; solo l’invita a non sprecare la sua vita in futuro.
La Chiesa ci ha sempre insegnato che se pecchiamo perdiamo l’amore di Dio, ma questo non è vero, come Gesù dimostra proprio nell’episodio dell’adultera, o anche nella parabola del figliol prodigo in cui abbiamo la conferma che il cuore di Dio è talmente pieno d’amore (a differenza dei nostri), che non smette mai di amare gli esseri umani anche se questi non sono al livello delle sue aspettative.
Credo sia stato il biblista Romano Penna a evidenziare che, ogni qualvolta emerge il discorso sui ministeri, Paolo fa anche un discorso sull’amore (cfr. Rm 12, 6-10; Ef 4, 11-16; 1Cor 13,2: «se ho tanta fede da smuovere i monti, ma non ho amore, io non sono niente»). Allora la Chiesa dovrebbe insegnarci che, una volta tanto, ha ragione Paolo quando dice: “chi potrà separarci dall’amore di Dio?” Nessuno (Rm 8, 31-39), neanche quando pecchiamo.
Perciò il continuo severo richiamo all’importanza del peccato individuale, tutta questa teologia che mette il peccato (anziché l’amore) al centro della propria esistenza, non corrisponde all’immagine di Dio che Gesù ci dà nel Vangelo e, in effetti, crea solo grande inquietudine nella nostra anima.
È vero che nelle vecchie traduzioni dei vangeli Giovanni Battista predicava un battesimo di penitenza per il perdono dei peccati (Mc 1, 4) e poi anche Gesù dopo la resurrezione invitava a predicare a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati (Lc 24, 47). Ma oggi sappiamo che queste traduzioni erano legate alla Vulgata latina, mentre il testo greco portava in entrambi i passi le parole μετάνοια (conversione) al posto di <penitenza>, ed εὶς (per) al posto di <e>, sì che non c’è nessuna penitenza da fare, e il perdono non è separato dalla conversione. Allora Gesù sta dicendo in realtà che l’essenziale è il cambiamento individuale, che nessuno può fare al nostro posto. Oggi sappiamo che la parola greca metanoia (cambiamento) significa orientare diversamente la propria vita: se fino ad ora hai vissuto per te, ora vivi per gli altri. Questo cambiamento è di per sé solo sufficiente per il perdono, per la cancellazione dei peccati. Quando uno cambia vita, quando non pensa più a sé stesso, ma orienta la propria vita per gli altri, il passato ingiusto, il passato peccatore gli viene automaticamente e completamente cancellato.
È senz’altro vero che la conversione invocata nei vangeli non concerne le ingiustizie strutturali, ma emenda l’ingiustizia personale, perché col nuovo atteggiamento il singolo rinuncia alla sua precedente egoistica e cattiva condotta[1]. In effetti, Gesù non si è mai presentato come un leader politico, ma come il possessore della pienezza umana e, con essa, della condizione divina. La sua opera salvifica si è sempre concentra perciò sul singolo, non sulla società, perché la comunicazione della vita divina avviene da individuo a individuo. La salvezza non inizia con un grande cambiamento politico-sociale, né con l’instaurazione di un regno terreno, ma col rinnovamento interiore dell’uomo singolo. Sembra facile, ma è difficile, perché come sappiamo, anche se tutti vorremmo cambiare il mondo, facciamo grande difficoltà a cambiare per primi noi stessi. La costruzione di una società nuova sarà poi l’obiettivo e il frutto dello sforzo di questa nuova umanità vivificata[2]. Ecco perché, per il progetto di Dio, serve la collaborazione di ogni singolo uomo.
Più appropriato, allora, mi sarebbe sembrato che la Chiesa insistesse sul fatto che Gesù vuole innanzitutto il cambiamento interiore di ogni persona, vuole che la giustizia sociale nasca dalla confluenza delle giustizie individuali. Finché restano vive negli uomini le radici dell’ingiustizia, cioè gli egoismi e le ambizioni personali, lo sviluppo umano si vedrà ostacolato e non avrà vera e duratura soluzione per la società[3].
E la famosa raccomandazione “A chi perdonerete i peccati saranno perdonati” (Gv 20, 23), che è una delle prime che Gesù fa dopo la risurrezione, è rivolta a tutti i presenti in quel momento (Gv 20, 19), ed erano presenti tutti i discepoli (comprese le donne, e non solo gli apostoli), sì che tutti hanno il compito di perdonare, mentre la Chiesa ha monopolizzato per sé questo compito[4]. Questa idea per cui tutti hanno il potere di perdonare trova conferma piena già in sant’Agostino,[5] il quale sosteneva che era tutta la comunità dei credenti che generava nuovi cristiani, annunciava il regno di Dio, e perdonava i peccati, per cui: “Oso dire che abbiamo tutti noi le chiavi che legano e sciolgono. Cosa dire allora? Che anche noi leghiamo e anche noi assolviamo? Sì. Legate anche voi e assolvete anche voi”.
In conclusione, penso che la continua auto-denigrazione che l’uomo peccatore deve continuamente fare per potersi accostare a Dio sia una pessima idea. Non solo pessima, ma anche sbagliata, perché se la superbia è un vizio, l’autodenigrazione, cioè il suo opposto, lo deve essere allo stesso modo.
3. Col rinverdire la formula “Dio, Patria e Famiglia” la politica non si sta insinuando che Gesù era un patriota? Ma di quale patria? E con quale Patria sta questo Dio? Abbinando Dio alla propria identità nazionale non si viola il comandamento che impone di non nominare il nome di Dio invano?
L’insinuazione c’è, ma non credo che Gesù sia stato un patriota nel senso che s’intende comunemente. Mentre la formula può far intendere che Dio sta decisamente dalla parte di una Patria che s’identifica con l’Italia, sono certo che il Dio che Gesù ci ha presentato era molto ma molto più universale, e non ha mai pensato di identificarsi nell’italianità. Perciò, invocare Dio come se stesse dalla nostra parte, mi sembra una palese violazione del secondo comandamento. In altre parole, è demoniaco usare il nome di Dio per affari squisitamente umani.
Ma soffermandosi sull’identità, il generale Vannacci ha scritto, nel suo libro Il mondo al contrario, che la nostra Paola Egonu, campionessa di pallavolo, in realtà veneta di Cittadella perché parla veneto come i veneti, è pur sempre una straniera, perché i suoi tratti somatici non rappresentano l’italianità. Quello che il generale non ha spiegato è cosa sia l’italianità, anche se ha detto che, se si chiede a un giapponese di disegnare un italiano, disegnerà una persona bianca. Sarebbe da chiedere al generale che ha in mente una sua idea di italianità, se - ad esempio - in guerra il suo volto fosse stato sfigurato, lui avrebbe potuto continuare a rappresentare l’italianità? E visto che l’italianità di oggi si è formata nel corso di secoli e secoli attraverso un miscuglio impressionante di razze (celti, visigoti, longobardi, franchi, arabi, spagnoli, francesi, slavi, ecc.) un siciliano che ha chiaramente ascendenti venuti dall’altra sponda del Mediterraneo può rappresentare l’italianità? E un altro siciliano che ha chiaramente tratti normanni essendo i suoi antenati venuti dal profondo nord può rappresentare l’italianità? Inoltre, se si chiederà all’estero, emergerà anche che tipico dell’italianità è il ‘tengo famiglia’, la mafia, e una grande inventiva nell’eludere o evadere il fisco. Il generale Vannacci si riconosce anche in questa italianità vista dall’estero, o solo nel disegno dell’italiano dalla pelle bianca? E visto che è un militare, riconosce l’italianità nella descrizione che nel ‘500 ha fatto di noi il filosofo Michel de Montaigne: “La sottigliezza degli italiani e la vivacità della loro immaginazione era così grande che essi prevedevano i pericoli, e gli accidenti che potevano loro accadere, così per tempo, che non bisognava trovar strano di vederli spesso in guerra, provvedere alla propria sicurezza prima ancora di avere individuato il pericolo”.[6]
Dunque, l’identità italiana, che il generale invoca, non è mai definita una volta per sempre, perché si evolve nel tempo, come si evolvono tutte le cose. Gridare al resto del mondo un’identità che non muta mai, sventolandola come idea di eccellenza italiana, crea sicurezze illusorie perché la realtà ha come compito anche quello di far vedere alla fine l’erroneità della propria supposta preminenza. Proprio la pretesa del generale di esporre una visione basata sul comune buonsenso (il primo capitolo del suo libro s’intitola, appunto Buonsenso) dimentica perfino che lo stesso homo sapiens è venuto dall’Africa. Chissà, facendo l’esame del suo Dna forse il generale scoprirebbe con sorpresa che anche lui ha antenati che vengono da quei luoghi molto lontani.
Sempre per restare nel buonsenso, e soprattutto nel diritto, sarebbe allora meglio guardare alla nostra Costituzione: chi è italiano? È italiano chi è cittadino italiano, e tutti i cittadini hanno pari dignità sociale senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali (art. 3). Dunque, per essere italiano non è chiesto che si debba rappresentare l’italianità in base ad altri criteri che mostrano solo il proprio pregiudizio. E soprattutto cosa chiede la Costituzione al nostro generale? Innanzitutto il dovere di rispettarla (art. 54), col divieto quindi di sostenere teorie che contrastano il dettato costituzionale.
Ancorare l’identità a dei modelli di cento o più anni fa, quando tutto era forse più chiaro e più facile, quando si parlava della purezza della razza, è oggi non solo anti-costituzionale, ma è anche irrealistico: cento anni fa le donne non votavano, erano subordinate alla volontà del marito. Ma oggi tutto è cambiato e occorre prenderne atto perché neanche questi modelli di pregressa italianità sono oggi sostenibili. Cento anni fa poteva far presa lo slogan Dio-Patria-Famiglia. Oggi simile tipo di slogan può far presa solo fra persone piuttosto fragili che pretendono di rendere comoda la realtà, semplificandola e rifiutando l’idea che il mondo sia complesso. La complessità disturba per cui sono proprio i più fragili ad aderire più facilmente degli altri alle ideologie semplici, che spesso sfociano nell’estremismo, ma che appaiono rassicuranti perché garantiscono loro che il mondo è semplice: o bianco o nero. Così i fragili vengono convinti che basta impedire gli sbarchi (come ovviamente non si sa) e il problema dei migranti sarà automaticamente risolto. Così sono anche convinti che basta eliminare la zizzania, i cattivi, gli impuri, e il bene trionferà automaticamente (ma Gesù ha ricordato nella parabola di duemila anni fa che così non funziona).
Ciò che dovrebbe interessare agli uomini e donne d’Italia oggi non è tanto quello che hanno di italianità, ma quello che potrebbero fare di bello, di generoso, di giusto, di accoglienza per rendere l’intero mondo – e non solo l’Italia - migliore. Credo fosse questo il tentativo di Gesù. E per fare questo occorre gran senso di responsabilità, di apertura e sentirsi liberi.
Cicerone aveva scritto: “ubi patria ibi libertas”. Cioè: dov’è la patria, lì trovo la libertà. Ma la libertà non può esistere in un solo Paese, per cui sarebbe più corretto oggi dire che la patria è ogni luogo nel mondo dove c’è la libertà.
Patriota è allora chi si propone di far valere la libertà nel luogo in cui vive. In questo senso Gesù è stato un patriota. Patriota è colui che lotta per questo obiettivo, anche violando, se necessario le leggi inadeguate del posto dove vive. Ovviamente violare una legge comporta la consapevolezza che la disobbedienza chiede un prezzo da pagare di persona, proprio come ha fatto Gesù, che per mantenere ferma la rotta – ricordiamocelo - è finito anche piuttosto male.
NOTE
[1] Mateos J. e Camacho F., Il figlio dell’uomo, ed. Cittadella, Assisi, 2003, 257.
[2] Idem, 236.
[3] Idem, 290.
[4] Molari C., Amare fino a morirne, Gabrielli editori, San Pietro in Cariano (VR), 2024, 319.
[5] Agostino, De bapt. III, 18, 23 - P.L., 43, 150.
[6] M. E. Montaigne, Saggi, Milano, Adelphi, 1966, II, cap. XI.
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