DIRITTO ECCLESIALE E LIBERTÀ
Rubrica a cura di Maria Giovanna Titone
Quando Dio sceglie la vita com’è: una Chiesa chiamata a cambiare
Dopo la riflessione della scorsa settimana sull’interculturalità, è naturale compiere un passo ulteriore. Non basta riconoscere che la Chiesa vive nelle culture; bisogna comprendere perché questo appartenga alla sua stessa natura. E il punto di partenza non può che essere il mistero dell’Incarnazione.
L’Incarnazione non è un concetto astratto: è un fatto storico. Dio entra nel mondo scegliendo un luogo preciso, un tempo determinato, una cultura concreta. Non appare in un punto neutro della storia umana, ma in un crocevia complesso fatto di poteri imperiali, tradizioni religiose, tensioni sociali e attese messianiche. E, troppo spesso, questo mistero è stato raccontato in una chiave un po’ romantica o drammatica: Gesù nasce povero, emarginato, profugo.
Tutto vero, certo. Ma ridurre l’Incarnazione a una scelta teatrale del “dramma del mondo” significa perderne la profondità spirituale. Dio non sceglie il contesto più disgraziato per fare scena: sceglie la vita così com’è, concreta, segnata da limiti, tessuta di gioie e fatiche, splendori e fratture. Sceglie un mondo reale, non ideale. In questo senso, dire che il Verbo si è fatto carne significa riconoscere che si è fatto compagno di cammino dentro una storia che porta con sé segni di dolore, ma anche segni di bellezza che non possono essere cancellati. L’Incarnazione non è la glorificazione della marginalità, ma l’assunzione del reale: è il luogo in cui Dio accetta di scrivere la salvezza non al di sopra della storia, ma dentro la storia, in un atto di fiducia nell’umano.
Se Dio accetta la concretezza di un tempo e di un luogo, chiede a ciascuno di noi di fare lo stesso. La vita cristiana non è mai un copione già scritto, ma un testo in continua revisione, scritto a quattro mani: la nostra libertà e la sua grazia, le nostre circostanze e il suo sguardo, le nostre fragilità e la sua fedeltà. Le contingenze storiche non sono un ostacolo al Vangelo, ma il suo ambiente naturale. Sono il campo dove la Parola prende carne anche oggi: nelle famiglie, nei lavori, nelle città, nelle scelte politiche, nelle culture che abitiamo.
E allora, se questo è vero, una domanda diventa inevitabile: come può la Chiesa essere fedele all’Incarnazione se resta prigioniera di forme, strutture e linguaggi nati in altri secoli? Molte istituzioni ecclesiali, consuetudini pastorali, modalità di governo e persino sensibilità liturgiche sono figlie di momenti storici particolari. Non sono sbagliate: erano intelligenti, feconde, necessarie allora. Ma l’Incarnazione chiede il coraggio della verifica: ciò che era significativo in un certo contesto culturale lo è ancora oggi? Ciò che un tempo rispondeva a bisogni reali risponde ancora alle esigenze attuali? Le forme che custodiamo servono il Vangelo o servono solo noi? Una Chiesa che non accetta questo discernimento rischia di mancare il suo appuntamento con l’Incarnazione. Perché l’Incarnazione non è un fatto da commemorare, è un principio da assumere.
Significa credere che il Vangelo è così vivo da sapersi esprimere in culture diverse, così libero da non temere il cambiamento, così concreto da non rifugiarsi nelle nostalgie, così attuale da non temere il futuro.
L’Incarnazione è la garanzia che Dio non ha paura della storia. E noi? Se vogliamo essere una Chiesa fedele, dobbiamo imparare ancora una volta a nascere nel mondo reale, dentro le sue rughe e le sue promesse. Non per adeguarci alla storia, ma per abitarla con il coraggio di Cristo, che ha scelto di entrare non nel mondo dei sogni, ma nella verità dei giorni. Solo così l’inculturazione non sarà una strategia pastorale, ma il prolungamento della logica stessa di Dio.