Melencolia I (1514) - Albrecht Dürer, Städelsches Kunstinstitut und Städtische Galerie, Frankfurt, Germania - immagine tratta da commons.wikimedia.org
Povertà e Melencolia I
È curioso come l’Occidente, nel suo eterno sforzo di affinare l’estetica dell’abbondanza, riesca con altrettanta maestria a rendere invisibile la povertà. La nasconde come si fa con i mobili scompagnati quando arriva una visita imprevista: dietro una tenda, in fondo a un corridoio, nel seminterrato emotivo delle coscienze. La povertà, per l’uomo occidentale beneducato e debitamente fornito di un abbonamento premium a una piattaforma di streaming, ha il sapore di qualcosa di documentaristico, esotico, quasi decorativo nella sua tragedia sterilizzata. Si consuma da lontano, come un film neorealista di De Sica rivisitato da una campagna UNICEF.
Eppure, la povertà non è sempre questione di denaro. O meglio: non è solo questione di denaro. Sarebbe troppo facile identificarla soltanto con l’assenza di mezzi, come se bastasse il denaro a restituire dignità, prospettiva, bellezza, o anche solo una conversazione che non puzzi di pietismo. C’è una povertà di relazioni, ad esempio, che in certi quartieri borghesi rasenta la perfezione stilistica del minimalismo: pochi amici, conversazioni sintetiche, affetti lineari. In certi casi, la solitudine si consuma nella cornice elegante di un loft con parquet a spina di pesce, mentre l’anima si appassisce come un mazzo di peonie dimenticato nel vaso.
Nel 1514, Albrecht Dürer incise la sua celebre Melencolia I, quella figura alata, seduta e afflitta, circondata da strumenti della conoscenza ma incapace di usarli. È l’allegoria di un’intelligenza resa sterile dalla paralisi dell’anima. Una figura che non ha nulla, pur avendo tutto. La povertà qui è spirituale, filosofica, aristotelicamente dolente. Si potrebbe dire che oggi siamo tutti un po’ quella figura: pieni di mezzi e privi di direzione. In un mondo dove si può ordinare una cena stellata dal divano, c’è chi non sa per cosa alzarsi la mattina.
La miseria culturale, d’altra parte, è la più subdola: non si nota al primo sguardo, non fa rumore, non chiede l’elemosina. Si manifesta nel vocabolario che si restringe, nella perdita di curiosità, nella morte lenta della capacità di indignarsi. È una povertà senza polvere né stracci, perciò difficilmente commuove. Ma è ovunque. Anche in certe università dove si insegna più a confezionare un pensiero vendibile che a pensare, e in certi talk show dove le opinioni rimbalzano come palline di ping-pong tra ospiti che sanno tutto, tranne tacere.
Naturalmente, poi c’è la povertà vera, quella che l’Occidente preferisce fingere di vedere su altri continenti, come se si potesse confinare la disperazione con un accordo bilaterale. Ma la realtà è che anche qui, nella vecchia Europa benedetta dal welfare e dal diritto romano, ci sono milioni di persone che vivono con meno di quanto si spenda in un brunch a base di avocado. Eppure non fanno notizia. Sono troppo vicini per essere esotici, troppo familiari per risultare scioccanti. Il loro dramma è discreto, quasi educato: dormono in auto, fanno la fila alla Caritas con un sorriso educato, accettano pacchi alimentari come se fossero regali di Natale. La loro povertà è così integrata nel paesaggio da diventare invisibile come il rumore di fondo in una registrazione.
Il problema è che abbiamo costruito una cultura che preferisce il trauma spettacolarizzato alla sofferenza quotidiana. Un barcone che affonda scuote più coscienze di un vicino che non riesce a pagare il riscaldamento. È il paradosso della compassione teleguidata: più lontana è la miseria, più riesce a emozionarci. Forse perché non ci chiama in causa, non ci chiede nulla se non una lacrima fugace, magari un bonifico una tantum. La povertà distante è una parentesi morale, quella vicina è un interrogativo scomodo.
Ma anche questo, va detto, è un meccanismo difensivo. Perché riconoscere la povertà vicina, quella che ci sfiora sul tram o ci guarda dal fondo della sala d’attesa del medico, significherebbe ammettere che non siamo immuni, che l’idea di “merito” è spesso una narrazione con i buchi. Significherebbe accettare che la linea di confine tra noi e loro è un capello sottile, un licenziamento, una malattia, una separazione. Ed è più rassicurante pensare che la povertà sia il risultato di una colpa, che sia meritata, scelta, quasi cercata. L’alternativa – ammettere che può succedere a chiunque – è troppo inquietante per essere contemplata con serenità.
Anche l’arte, da sempre, mi permetterete, specchio più onesto della società rispetto alla politica, ha saputo cogliere la dignità silenziosa della miseria meglio di mille programmi governativi. Caravaggio, penso a lui, con i suoi mendicanti illuminati da un realismo senza pietà. Lì la povertà non è un accidente, ma una condizione ontologica, una presenza quasi sacrale. Un modo di stare al mondo che non cerca compassione, ma comprensione.
Qual è il punto, o meglio la nuova consapevolezza, che vedo ora da un fatto a me vicino? la povertà non ha bisogno di essere “salvata”, quanto piuttosto vista. Non nel senso pietistico, ma nello sguardo che riconosce, che restituisce esistenza. È accanto a noi, non ci gira neppure intorno: ci cammina di fianco, sale le scale con noi, abita la stessa aria. Solo che abbiamo affinato così tanto l’arte dell’indifferenza da non accorgercene più. Forse, per cominciare, basterebbe rallentare un poco. Smettere di correre da una scadenza all’altra. Fermarsi un attimo. Guardare. Non per compatire, ma per vedere davvero.
Eccomi lì, nel silenzio improvviso tra un pensiero e l’altro, che incontro la povertà nella sua forma più reale e meno spettacolare. Quella che ha il volto della persona dall’altra parte della cornetta, e che non ha nulla da perdere e neanche la capacità di pretendere. Ho negoziato con la povertà: nessun successo, fallimento o compromesso, solo un grande insegnamento.