Lo sciopero e la vescova
di Stefano Sodaro
Creazione digitale sottostante tramite IA
L’altro ieri, mentre le piazze italiane si riempivano di una folla compatta e determinata, qualcuno avrà storto il naso. “Che senso ha manifestare, se non si va a Gaza in persona?”, avranno pensato i soliti benpensanti, quelli che la solidarietà la misurano in gradi di presunto eroismo e la partecipazione popolare la guardano con lo stesso distacco con cui si osserva un fenomeno meteorologico: interessante, ma non davvero significativo. È lo snobismo di chi crede che la storia la facciano solo i “puri”, i “radicali”, quelli che si espongono fino in fondo, e che il resto — il popolo che scende in strada, che alza la voce, che si ferma dal lavoro — sia solo rumore di fondo, una massa da compatire o, peggio, da educare.
Eppure, quella folla che ha incrociato le braccia per dire “basta” a un blocco navale illegittimo, a una guerra che non si vuole vedere, a un sistema che schiaccia i più deboli, è la stessa che, in altre forme e in altri tempi, ha preteso diritti, giustizia, dignità.
È il popolo che fa la storia, anche quando non indossa l’aureola del martirio.
Ed è la stessa energia — e questo pare davvero significativo — che, in modi diversi, ha condotto una donna come Sarah Mullally a sedere sulla cattedra di Canterbury, rompendo secoli di tradizione maschile e ricordandoci che le istituzioni, anche le più antiche, possono cambiare. Non è un dettaglio, non è un gesto simbolico vuoto: è una rivoluzione silenziosa, che qualcuno già liquida come “scontata” o “tardiva” o “normale, sono anglicani, bastava aspettare”, come se il tempo della giustizia potesse essere misurato con l’orologio della nostra impazienza o delle nostre sicumere.
C’è un filo che lega lo sciopero di venerdì all’elezione di Sarah Mullally, ed è il filo della disobbedienza necessaria: quella che non accetta lo status quo, che non si accontenta delle briciole, che pretenda di essere ascoltata.
È la stessa disobbedienza che Papa Francesco aveva provato a seminare in Vaticano, con i suoi gesti di apertura, con le sue parole sulla donna nella Chiesa, con quel “fare rumore” che avrebbe dovuto scuotere le gerarchie. E invece, quel seme è rimasto sterile a Roma, soffocato da resistenze e compromessi. Mentre a Canterbury, ecco, qualcosa germoglia.
Non è un caso che Mullally sia stata infermiera prima che teologa: sa cosa significa prendersi cura, sa cosa vuol dire stare accanto a chi soffre. Non è un caso che il suo episcopato sia stato segnato da un’attenzione concreta ai poveri, ai migranti, ai marginalizzati. Non è un caso che conosca, per esperienza diretta, la “teologia della disabilità”, totalmente ignota dalle nostre parti cattoliche.
E qui torna lo snobismo, quello che guarda alla sua elezione come a un “passo dovuto” o si rassegna nella disperazione ecclesiastica di considerare perdute per sempre le folli chiese non maschio-centriche della Riforma, come se la storia si muovesse da sola, senza lotte, senza resistenze, senza il coraggio di chi, come lei, la vescova, ha scelto di stare dalla parte sbagliata del potere. È lo stesso snobismo che svaluta chi ha scioperato, come se alzarsi dal divano per dire “no” a un’ingiustizia fosse meno nobile che rischiare la vita in mare. Come se la storia si scrivesse solo con i gesti estremi, e non anche con la fatica quotidiana di chi non si rassegna. E, in particolare, di chi reagisce, si alza, si muove.
Proprio ieri, 4 ottobre, si è celebrato San Francesco. Quello che parlava ai lupi e ai potenti, che scelse gli ultimi invece dei palazzi, che fece della disobbedienza il suo atto d’amore più grande.
Davvero solo una banale coincidenza che, esattamente alla vigilia di questa festa, le piazze italiane si siano riempite di persone bramose, come lui, di non stare immobili a guardare, e che una donna, come lui, abbia scelto di stare nella Chiesa non con il bastone del potere, ma con la forza della testimonianza? Forse no, non è coincidenza, ma Provvidenza, con la P maiuscola, per quanto laica.
Francesco, quello di Assisi, non era un eroe solitario: era un uomo che aveva capito che la storia la cambiano le folle che si muovono insieme, le voci che si uniscono, i gesti che sembrano piccoli ma sono semi.
Forse, allora, la lezione di queste giornate è proprio qui: nella consapevolezza che la storia la fanno anche le piazze piene, anche le voci che si uniscono, anche le donne che rompono i soffitti di cristallo. La fanno quelle e quelli che, come Mullally, scelgono di servire invece di essere serviti, e quelle e quelli che, come i manifestanti di ieri, scelgono di non stare a guardare.
Non è un caso che il nome della nuova Arcivescova di Canterbury, Sarah, echeggi quello di Sara, la matriarca biblica, colei che rideva di fronte all’impossibile, che non si arrese di fronte alla sterilità del deserto. Forse, in fondo, è proprio di questa risata che abbiamo bisogno: quella che sfida il fatalismo, che non si accontenta, che pretenda di più. Per la Palestina, per la Chiesa, per il mondo.
Chissà se, tra cento, trecento, cinquecento anni, qualcuno ricorderà che a Canterbury c’era stata una “Francesca” prima che a Roma. E chissà se, tra solo cent’anni invece — perché i tempi del secolo sono ben altri da quelli della Chiesa —, qualcuno ricorderà che l’altro ieri, in Italia, il popolo ha scelto, finalmente, di non stare zitto o delegare.