Una fede a modo mio
L’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo, con il volume a cura di R. Bianchi e P. Bignardi, Cerco, dunque credo? I giovani e una nuova spiritualità, ci offre uno spaccato prezioso sul rapporto tra le nuove generazioni e la dimensione religiosa. Al centro della ricerca ci sono due domande fondamentali: da un lato, si chiede ai giovani perché si sono allontanati dalla Chiesa; dall’altro, si interpella chi è rimasto, per capire le ragioni della loro permanenza.
Quello che emerge con chiarezza è che l’allontanamento da un quadro religioso istituzionale non significa automaticamente l’abbandono della ricerca interiore. Anzi, molti giovani continuano a interrogarsi, a cercare un senso, a vivere percorsi spirituali, ma lo fanno spesso al di fuori dei confini tradizionali. I religious studies contemporanei usano proprio il termine “spiritualità” per descrivere questa dimensione fluida, non legata necessariamente a pratiche religiose ufficiali. La società attuale è profondamente individualizzata e questo si riflette anche nel modo in cui i giovani costruiscono la loro esperienza del sacro: le credenze si definiscono lungo percorsi personali, in base alla propria storia e sensibilità, e non più attraverso appartenenze collettive prestabilite.
L’indagine si sofferma su due aspetti della partecipazione ecclesiale: da un lato la frequentazione dei riti e delle liturgie, dall’altro l’impegno attivo nei gruppi parrocchiali o oratoriali. Tuttavia, molti ragazzi, dopo aver completato l’iniziazione cristiana, abbandonano la pratica e si allontanano dalla vita comunitaria. Come osserva Paola Bignardi, spesso le attività proposte – catechesi, oratori estivi, incontri formativi – finiscono per essere vissute come semplici momenti organizzativi, senza un reale accompagnamento delle persone. Ci si concentra troppo sulle attività da offrire e poco sulle persone da ascoltare. Il rischio è quello di ridurre l’esperienza ecclesiale a un contenitore di proposte, senza interrogarsi davvero sulle difficoltà, sui bisogni e sui percorsi interiori di chi partecipa.
Tra le storie di allontanamento raccolte, ricorrono alcune critiche molto precise. La più frequente riguarda l’incapacità della Chiesa di entrare in relazione con la dimensione più intima delle persone, quella in cui nascono i dubbi, le domande profonde, le fragilità. Molti giovani faticano anche a riconoscersi negli insegnamenti morali trasmessi dall’istituzione ecclesiale, che spesso percepiscono come distanti o rigidi.
L’analisi individua diverse modalità di allontanamento, che vanno dal distacco graduale legato alla crescita personale, all’incapacità di conciliare fede e ragione, fino a esperienze più dolorose, come quelle di chi si ritira dopo essersi sentito tradito o non compreso in momenti di difficoltà. C’è chi si allontana semplicemente per disinteresse, e chi invece lo fa in modo rabbioso, dopo aver vissuto scontri o contrasti con figure di riferimento nel contesto ecclesiale.
Quello che colpisce è che le attività di socializzazione proposte dalle comunità rischiano spesso di rimanere in superficie. Si organizzano eventi, si propongono incontri, ma si fatica a toccare davvero il vissuto di ciascuno. Così facendo, si perdono di vista le esigenze profonde dei ragazzi, il loro desiderio di legami autentici, la necessità di essere ascoltati e accompagnati nei loro percorsi personali.
Molti giovani, nelle interviste, confessano di provare una certa nostalgia per i momenti vissuti durante l’infanzia o l’adolescenza, quando l’appartenenza ecclesiale era più semplice e naturale. Ma questa nostalgia spesso si scontra con la complessità della vita adulta, con le sue contraddizioni e le sue sfide, davanti alle quali la proposta ecclesiale appare, in molti casi, impreparata o incapace di rispondere.
A questo punto sorge una domanda inevitabile: se l’evangelizzazione crolla davanti alla complessità, che forma di evangelizzazione è? Se la fede proposta è piatta, superficiale, incapace di accogliere le contraddizioni che abitano sia il mondo esterno che l’interiorità di ciascuno, diventa
un’esperienza fragile e insoddisfacente. È una fede che non porta mai a sperimentare un Dio misericordioso, capace di attraversare con noi i dubbi, i fallimenti, le ambiguità della vita.
Di fronte a tutto questo, la domanda “cosa si dovrebbe fare?” rimane aperta. I giovani lanciano un appello, ma non indicano un percorso definito. Forse, però, proprio questo è il punto: non è ancora il momento di trovare soluzioni immediate, ma quello di fermarsi e abitare le domande, di restare in ascolto senza la pretesa di risposte preconfezionate. Forse è il tempo di vivere una dimensione sinodale, di camminare insieme, condividendo le domande e ascoltando le inquietudini come pratica comunitaria. Perché il vero cambiamento non nasce dall’imposizione di un modello, ma dall’incontro autentico con la realtà e con le persone che la abitano. Solo allora sarà possibile costruire insieme.