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Lingue diverse, lingua comune: la sfida di Babele per il dialogo tra culture
di Claudia Mezzabotta
Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso,
e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco,
che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati
di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue,
nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi.
(At 2,2-4)
Ma è proprio vero che la costruzione della torre di Babele sia da interpretare come hybris della creatura nei confronti del proprio Creatore?
Tutti, nell’ambito di una cultura che si riconosce fondamentalmente ebraico-cristiana, conoscono il racconto genesiaco relativo alle vicende collegate alla costruzione e alla distruzione della «torre di Babele» (Gn 11, 1-9), indipendentemente dal fatto che ci credano o meno, che siano sinceramente religiosi, agnostici o addirittura atei. Non riteniamo che questa sia un’affermazione peregrina, astratta, irragionevole.
E la stragrande maggioranza di coloro che conoscono questo racconto, se ci pensiamo bene, fa affidamento, per comprenderlo, su un’interpretazione esegetica «classica», che si fonda, in estrema sintesi, su una visione «punitiva» dell’azione distruttrice posta in essere dal Dio dell’Antico Testamento contro gli uomini, rei di avere peccato di presunzione nell’avere tentato di costruire una torre così alta e maestosa, per metterne in luce numerosi e rilevanti punti di debolezza. Un’interpretazione di cui hanno sentito parlare almeno una volta nella loro vita in famiglia, in chiesa, a scuola, in televisione o di cui hanno letto su un giornale, un libro o persino in qualche social, volutamente o casualmente.
Eppure questa interpretazione, su cui si basa una ben nota visione moralistica «classica», a nostro avviso può e deve essere confrontata con altre interpretazioni esegetiche[1] che di fatto arrivano a un superamento della stessa, proponendo un radicale capovolgimento dell’idea di punizione divina associata alla nascita della molteplicità delle lingue umane, contrapposta a una presunta «età dell’innocenza» collegata, invece, all’esistenza di una lingua unica, parlata da tutti gli uomini, e giungendo piuttosto a un concetto di dispersione delle genti e di differenziazione linguistica come «benedizione divina», quale liberazione da qualunque rischio di «totalitarismo omologante» e valorizzazione delle differenze culturali.
Un filone interpretativo del racconto che si oppone all’idea di punizione dell’hybris, in particolare, riconduce l’immagine della torre alla velleità di potenza di un regime totalitario, da intendere nel senso più strettamente politico del termine[2]. Una ulteriore elaborazione esegetica, che pure non accetta l’interpretazione moralistica classica, è parimenti richiamata da Jean Louis Ska[3], il quale più approfonditamente si concentra sull’idea della torre di Babele come simbolo del potere totalitario e uniformante dell’autorità statale, giungendo a conclusioni che vanno persino oltre. La lingua unica, dunque, non sarebbe solo indicativa di un assenso collettivo dovuto dai sudditi al proprio sovrano, contro il quale si sarebbe scagliato l’autore genesiaco, ma anche di una sorta di «perdita di identità» da parte degli individui e delle nazioni sottomesse. Babele e la sua lingua unica, dunque, sarebbero da intendere come una maledizione, mentre l’azione di Dio che scende a disperdere gli uomini sulla terra, ponendo fine al loro progetto di costruzione della città fortificata e totalizzante, in realtà sarebbe da interpretare come una benedizione, o, meglio ancora, come un prendersi cura da parte del Creatore delle proprie creature, salvaguardandone la diversità e la disomogeneità, intese come ricchezza e non come impoverimento. La torre e la città stessa di Babele, dunque, non sarebbero un «peccato», meritevole di punizione divina, bensì il simbolo di un «pericolo» corso dall’umanità, la quale, in cerca di false sicurezze e di una impossibile «immortalità», scegliendo di vivere in essa o in qualunque altra grande città a questa paragonabile, sembrerebbe disposta a rinunciare alla propria identità «particolare» (simboleggiata, nel racconto genesiaco, dalla diversità di lingue) e si finirebbe con il sottomettersi a un totalitarismo del pensiero, dello stile di vita, delle aspirazioni personali e sociali. L’intervento di Dio sarebbe dunque un modo di mettere in guardia l’umanità dai rischi dell’omologazione culturale, prima ancora che politica e sociale.
Se poi ci si basa sui principali studi di linguistica che si sono occupati della molteplicità delle lingue parlate dagli esseri umani, nello spazio e nel tempo, indagandone le possibili origini, si troveranno molte congetture sulla plausibilità o meno dell’esistenza di una lingua unica originaria, che hanno ottenuto e continuano a ottenere risultati anche contradditori tra loro.
Lo stesso Paul Ricoeur (1913-1998), considerato uno dei massimi interpreti del metodo ermeneutico con cui ha proposto una rilettura della fenomenologia di matrice husserliana e in fin dei conti un suo ridimensionamento, si è esplicitamente occupato del linguaggio umano e della sua naturale molteplicità[4]. Tra le altre cose, Ricoeur ha posto anche particolare attenzione a ciò che egli stesso ha definito come «necessità della traduzione» in qualunque processo comunicativo, sia nel caso in cui si utilizzino idiomi differenti, sia qualora il parlante e l’ascoltatore parlino la stessa lingua, ritenendo la traduzione un vero e proprio «paradigma» di quella azione umana profondamente etica che egli giunge a definire come una chiara manifestazione di «ospitalità linguistica», da collocarsi nell’ambito di una idea più vasta e generale di solidarietà umana, diretta non solo verso coloro che sono a noi simili, ma anche e con maggiore intensità verso coloro che sono da noi diversi.
Con l’aiuto della strumentazione ermeneutica delineata da Ricoeur e tenendo altresì conto dei percorsi esegetici «alternativi» all’interpretazione moralistica «classica», si può proporre a nostro avviso una rilettura del mito della «torre di Babele» e della presunta «maledizione» delle lingue, trasformandola in un obiettivo di profonda valenza antropologica ed etica: l’accoglienza del «diverso da noi», dell’altro, in un’ottica di tolleranza e di pacifica convivenza tra culture la cui eterogeneità linguistica può essere assunta a paradigma di altri elementi di diversità. Una diversità profondamente «umana», una diversità che, invece di allontanarci gli uni dagli altri, avendo un solido e innegabile fondamento antropologico, ci rende tutti radicalmente «uguali». L’accoglienza del «diverso» come imperativo morale, la traduzione come strumento di comunicazione, la solidarietà come segno concreto di convivenza pacifica tra uomini: un esercizio concreto per allenarsi alla accoglienza dell’Altro. In questa chiave, a pensarci bene, si può proporre anche una lettura del racconto della Pentecoste negli Atti, partendo dalla eterogeneità linguistica da esso posta in rilievo per giungere poi ad intenderla come ricchezza antropologica, da rispettare e da valorizzare anche nella condivisione del Vangelo di Cristo.
Scritto in memoria del professor Giancarlo Gori, latinista di vaglia e indimenticato maestro, non solo di belle lettere, ma di vita (1939-2025).
NOTE
[1] Tra i testi che si sono esplicitamente occupati di questo tema e che si sono espressi contro una interpretazione punitiva del racconto genesiaco in parola, vale qui la pena ricordare J.L. Ska, «Una città e una torre (Gn 11,1-9)», in Ricomporre Babele. Educare al cosmopolitismo, Atti del Convegno, Fondazione Intercultura, Milano 7-9 aprile 2011. Nel testo citato, l’Autore richiama esplicitamente, tra gli esegeti che hanno appoggiato questa interpretazione punitiva, G.Von Rad, e richiama all’attenzione del lettori il contributo essenziale di T.Hiebert, che ricostruisce una storia della ricerca esegetica proprio sul tema della torre di Babele intesa come maledizione divina e che ricorda come questa interpretazione fosse stata già sottintesa nel libro apocrifo dei Giubilei, x.18-27, risalente al 200 a.C. circa, dove la torre viene definita come «un cattivo progetto», e si ritrovi pure nelle Antichità giudaiche di Giuseppe Flavio (1,113-117), ricordando come quest’ultimo autore sia vissuto nel primo secolo dell’era cristiana (37 circa – 100 circa). I contributi bibliografici richiamati da Ska a p.19 e a p.24 del testo in parola, quanto ai due autori testé citati, sono i seguenti: T.Hiebert, The Tower of Babel and the Origin of the World’s Cultures, JBL 127 (2008); G. Von Rad, Das erste Buch Mose. Genesis, Gȍttingen 1976. Più recente e da collocare piuttosto in una posizione più tradizionale rispetto a quella della tesi di J. L. Ska, è il testo di F. Giuntoli, Genesi 1-11. Introduzione, traduzione e commento, Cinisello Balsamo (MI) 2013.
[2] Questa interpretazione riprende il costume dei sovrani assiri di costruire città fortificate non solo a scopo di difesa, ma anche dimostrativo del proprio potere nei confronti dei popoli assoggettati, per “costruirsi un nome”. Lo stesso J.L. Ska cita utilmente, a suffragio di questa lettura, quanto asserito da C.Uehlinger, Weltreich und eine Rede. Eine neue Deutung der sogenannten Turmbauerzählung (Gen 11,1-9), Göttingen 1990.
[3] Oltre al contributo di J.L. Ska di cui alla nota 1, supra, si faccia altresì riferimento a J.L.Ska, «La benedizione di Babele», in: R. Fabris, J.L.Ska, M. Cacciari, D-R Moser, Bibbia, popoli e lingue, Casale Monferrato (AL) 1988, pp.47-62. Questo volume raccoglie gli interventi dei relatori al convegno internazionale «Bibbia, popoli e lingue», che si è tenuto a Udine il 16 e 17 gennaio 1998 in occasione della pubblicazione della Bibbia in lingua friulana, approvata dalla CEI.
[4] «La molteplicità delle lingue viene infatti assunta come una differenziazione naturale, come mostra anche Umberto Eco, citato da Ricoeur a proposito», cfr. M. Oliva, «La differenza linguistica, tra etica e ontologia», in: P. Ricoeur, Tradurre l’intraducibile. Sulla traduzione, Roma 2008, p. 77.