Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

Donazione di Namo di Baviera - 1605, opera di Antonio Gandino - Duomo Vecchio di Brescia - immagine tratta da commons.wikimedia.org

Merita eius quae multa corda tangit



di Stefano Sodaro


Il latino del titolo non invita alla lettura. Lo abbiamo fatto apposta.

Lettori e lettrici non perdano tempo, ci son cose assolutamente più importanti, salvo non credano al valore dell’inutile.

Nell’astruso gergo rodafiano (“lessico” sarebbe osare troppo) ritorna spesso il termine di onnigamia, ampiamente equivocato e assai misterioso, benché forse un po’ intrigante.

Che significa? Sposare tutti? Probabilmente l’inventore del neologismo, il socialista utopista Charles Fuorier, ideatore anche del più celebre “falansterio”, pensava a qualcosa del genere, ma per l’eroe eponimo del nostro settimanale il significato è altro ed è necessario partire dalla serena consapevolezza che l’indefinibilità è una possibile risposta a troppo precisi tentativi di schematizzazione e sistematizzazione. Non è sempre detto che ogni parola debba essere sempre e comunque tradotta in una equivalente dal senso chiaro e indubitabile.

Intanto quel “onni” non designa l’attitudine sponsale verso “chiunque”, bensì – piuttosto – verso “tutti, tutte, coloro che stanno a cuore”.

Forse si ricorderà la querelle del “pro multis” di qualche anno fa sulle parole della consacrazione eucaristica nel rito cattolico, in cui si sarebbe voluta trasformare l’espressione “versato per voi e per tutti”, di normale uso chiesastico, in un “versato per voi e per molti” ritenuto molto più raffinato e fedele all’originale evangelico greco.

Si è poi compreso che quel “per tutti” non era in contrapposizione al “per molti”, ma intendeva significare, molto più semplicemente, che i molti possono diventare tutti, nulla lo impedisce.

E però come si fa a stare a cuore a qualcuno o qualcuna? Vuol dire che quel qualcuno o quella qualcuna – sempre per sensibilità rodafian/femminista, noi scegliamo di virare verso quella qualcuna – è riuscito a toccare il cuore.

E qui la faccenda è seria ma anche leggera, la questione grave e gioiosa al tempo stesso, profonda e ilare nello stesso momento. Come un passo di danza, come un canto, come un accordo, un soffio d’aria fresca nell’afa.

Toccare il cuore significa entrare in comunicazione essenziale, addirittura al di là dei gesti e delle parole.

Compare una dimensione altra, anch’essa indefinibile, ma non confusa e indistinta, piuttosto capace di trasmettere una verità talmente bella da far innamorare nel senso più oblativo e meno reciproco possibile.

Proviamo a spiegare.

La nostra cultura è la sagra del contratto. Ogni relazione sembra dover essere ricondotta ad una reciprocità di parte e controparte, con prestazione e controprestazione, tutto un intrico di crediti e debiti reciproci. E, duole riconoscerlo, anche il matrimonio sembra vivere dentro simili dinamiche.

Ma “sposare” chi tocca il cuore è ben altro. È uno “sposare” del tutto simile allo “sposare una causa”, “sposare un ideale”, “sposare un progetto”. Però si tratta di persona concreta, con nome e cognome, non di entità astratta, di idea pur affascinante. Volto e corpo.

Fine dunque del contratto? Abolizione di ogni caratteristica pattizia del nostro vivere? Esclusione definitiva, quasi violenta, di ogni dimensione negoziale delle nostre scelte?

Ecco, no.

Il diritto ha risorse impensate e, ad esempio, nel nostro codice civile la donazione è un contratto. Se ci pensiamo, pare un ossimoro. Se dono, non stipulo alcun contratto, non cerco alcun contraccambio, nemmeno lo prevedo. Eppure l’ossimoro è solo parvenza, la contraddizione svanisce, svapora. Perché tra chi dona e chi riceve il dono si crea un intensissimo rapporto, a tal punto intenso che il destinatario del dono potrebbe anche rifiutarlo.

Ebbene l’art. 770, sempre del nostro codice civile, tipizza la cosiddetta “donazione rimuneratoria”. Ne abbiamo mai sentito parlare? Recita l’articolo di legge, al suo primo comma: “È donazione anche la liberalità fatta per riconoscenza o in considerazione dei meriti del donatario o per speciale rimunerazione.”

La riconoscenza acquista dunque valore giuridico. Viene sancita in un codice. E non soltanto essa, ma pure la “considerazione dei meriti” di chi riceve il dono.

Si apre un universo antropologico – sia lecito dir così, senza enfasi – ancora per nulla scandagliato. Una relazionalità non mielosamente gratuita – come un pressante, battente, moralismo continua ad additare -, ma complessa e semplice e per questo bisognosa di parole nuove, ancora non sfornate.

Il dono come “patto” – di un contratto pur sempre si tratta, s’è osservato - che apre ad una inedita nuzialità verso chi ci ha toccato il cuore.

Senza esagerare: le implicazioni sono davvero un po’ da capogiro.

Chi più di colei, o colui, che ci tocca il cuore acquisisce “meriti da considerare”, per restare nel freddo linguaggio della norma?

Fermiamoci qui.

L’onnigamia, alla fine sempre inspiegabile, trema di luce aurorale davanti a inaspettate, sconosciute, originali modalità di tessere la scoperta dell’alterità lungo la trama dei giorni.

C’è n’è di cui essere riconoscenti.