DIRITTO ECCLESIALE E LIBERTÀ
Rubrica a cura di Maria Giovanna Titone
Il Sinodo che non decide: perché la Chiesa italiana ha rinviato il documento finale
Si è conclusa con un nulla di fatto – o meglio, con un rinvio – la seconda Assemblea sinodale della Chiesa italiana, svoltasi in Vaticano dal 31 marzo al 3 aprile 2025. Il documento finale, che doveva tirare le somme di un cammino durato tre anni, non è stato votato. Una scelta che ha sorpreso molti osservatori e che lascia sul tavolo interrogativi aperti: la Chiesa è pronta a parlare davvero al mondo contemporaneo? E, soprattutto, ha ancora il coraggio di farlo?
Il documento conclusivo, intitolato “Perché la gioia sia piena”, è stato al centro di quattro giorni di dibattito acceso. I 28 gruppi di lavoro presenti hanno presentato una valanga di emendamenti, segno che qualcosa – o forse molto – non funzionava. Alla fine, è arrivata la decisione: niente voto finale. La CEI rimanda tutto alla prossima assemblea, prevista per ottobre.
“Il testo non è maturo”, ha dichiarato Monsignor Erio Castellucci, vicepresidente della CEI. Una formula diplomatica che cela fratture più profonde.
Le divisioni non sono solo di forma. Sono sostanziali. Alcuni dei temi più delicati della contemporaneità sono stati discussi – e contestati – all’interno dell’assemblea:
Il ruolo delle donne nella Chiesa, ancora lontano da un riconoscimento reale di corresponsabilità e leadership; l’accoglienza delle persone LGBTQ+, che divide le diocesi tra chi chiede apertura e chi resta fermo su posizioni dottrinali rigide; la partecipazione dei laici alle scelte economiche e pastorali, che apre la questione dell'autorità e della trasparenza.
La sensazione è che, di fronte a questi nodi, abbia prevalso la prudenza. O, più brutalmente, la paura del dissenso interno.
Le implicazioni canoniche
Il rinvio della votazione non è solo una scelta tattica. Ha ricadute anche sul piano del diritto canonico. Una delle indicazioni emerse dal Sinodo dei vescovi dello scorso ottobre, voluto da papa Francesco, riguarda proprio la necessità di rivedere le norme ecclesiali in chiave più sinodale. Cosa significa? Che bisognerà chiarire chi decide cosa, se il voto dei vescovi sia consultivo o deliberativo, e che tipo di partecipazione potranno avere i laici – e, soprattutto, le donne – nei processi decisionali della Chiesa.
Ma tutto questo resta sospeso, come se mancasse ancora il coraggio di tradurre in norma ciò che da anni si ripete a parole: “camminare insieme”.
Un’occasione mancata?
Il rischio, però, è che l’ennesima occasione di riforma si trasformi in un’occasione mancata. Il mondo fuori dalla Chiesa si muove, cambia, interroga. Temi come il genere, le relazioni, la giustizia affettiva, la spiritualità maschile e femminile, sono già oggetto di dibattito pubblico. In questo scenario, la Chiesa italiana sembra invece tentennare, chiudersi, rimandare.
In mancanza di una parola chiara, il vuoto viene colmato da altri. Spesso da voci estreme, polarizzate, come quelle della manosphere, che propongono modelli virilisti, anti-femministi e pseudo-religiosi a giovani uomini in cerca di senso. Ecco perché la posta in gioco non è solo ecclesiale, ma culturale.
La decisione della CEI di non votare il documento finale del Sinodo non è un semplice tecnicismo. È un segnale. Di incertezza, forse. Di cautela, sicuramente. Ma anche di una crescente difficoltà a prendere posizione su temi che toccano la carne viva della società.
La sinodalità, se non porta a scelte concrete, rischia di restare solo una parola bella. E la Chiesa, se vuole davvero “camminare insieme” al suo tempo, dovrà prima o poi trovare il coraggio di parlare. Perché il silenzio, soprattutto oggi, fa più rumore di qualunque discorso.