Lamento per Roiano

C’era una volta una Comunità Cristiana di semi-periferia, a ridosso del Carso, nella Diocesi di Trieste.

Questa Comunità viveva in un luogo geografico alquanto particolare, un semi-paese, o simil-paese, che, pur integrato nel contesto urbano, conservava caratteristiche di unicità ambientale non sempre riscontrabili altrove.

Era animata da tre giovani preti e un saggio parroco, pieni, tutti e quattro, di premura, di attenzione, di quella che si chiama – o dovrebbe chiamarsi – “cura pastorale” verso i fratelli e le sorelle della sottoporzione di Popolo di Dio che è una parrocchia.

Li contraddistinguevano l’umiltà e la generosità. Ma non solo: anche la capacità di ascoltare, di scrutare i segni dei tempi, e di incoraggiare e perdonare e rimanere discretamente quasi a lato delle esistenze per contemplarle e consolarle, mai per condannarle.

La gente li sentiva vicini, parte della stessa storia, cuore pulsante del rione.

Qualche funzionario di banca ad esempio, tornando di notte da una giornata lavorativa trascorsa, sempre ad esempio, a Milano, prendendo l’aereo all’alba, quando passava un po’ più giù della canonica, volgeva sguardo e pensiero con intenso affetto a quelle presenze sacerdotali tanto rasserenanti, confortanti. Una speranza di una vita bella e sempre ricca di novità pulite veicolata da un servizio di presidenza nella comunità dei credenti intesa come diaconia della gioia, di quel “verum gaudium” che, insegna Seneca, “res severa est”.

La messa domenicale delle 10 vedeva al centro i bambini – non i bambini come categoria d’età da evangelizzare devotamente ma come protagonisti veri e propri della vita, della nostra vita, unico nostro futuro – ed era una festa.

Una comunità viva, partecipe, sonoramente lieta del vangelo che, se è tale, eu/anghelion, non può che essere una parola “buona” e non “imperativa”, che comprende la complessità della concretezza quotidiana o non ne elimina le contraddizioni come quisquilie secolari prive di rilevanza religiosa, la sola importante.

Chi scrive ricorda un vespro di Pasqua quando i tre giovani reverendi, simili ad angeli protettori, si intrattenevano con una cordialità che diventava tutt’uno semplicemente con l’amore, tra le navate ed i banchi della chiesa di Roiano, vecchia di più di 150 anni ormai.

E sempre chi scrive ebbe la netta sensazione che quell’immagine di cielo avrebbe potuto non ripresentarsi più, ma preferì scacciare il brutto pensiero.

Perché, appunto, stiamo parlando di Roiano, popolarissimo rione di Trieste dove ha sede anche questo modestissimo giornale.

E parliamo di migliaia e migliaia di persone, tra adulti, anziani, bambini, giovani, operai, impiegati, professionisti, commercianti, pensionati, agricoltori, disoccupati.

Il primo prete se n’è andato già qualche anno fa: ufficialmente per diventare amministratore parrocchiale di un’altra Comunità. Ma anche in quella Comunità ormai non c’è più e ci risulta che sia andato a studiare a Roma. Eventualmente buon per lui, ipotizziamo, e di chi potrà giovarsi dei suoi studi, mal per noi, siamo sicuri, almeno sino a che non lo rivedremo qui nel pieno esercizio del suo ministero.

Sul foglio notizie della parrocchia del numero di Pentecoste si può leggere poi che anche un altro presbitero cesserà ad ottobre il proprio ministero roianese.

E due.

Venerdì scorso è giunta la notizia, sul settimanale diocesano di Trieste “Vita Nuova”, a pag. 7, che pure il parroco, per decreto vescovile, se ne dovrà andare da Roiano.

Tot capita, tot sententiae?

Le parole sono semplici.

Ecco distrutta una Comunità Cristiana.

Intendiamo oggettivamente distrutta, completamente cioè “de-strutturata”.

Quasi in un batter d’occhi viene smantellata un’intera linea pastorale.

L’impressione è allo stesso tempo di sbigottimento e di sconcerto.

Che accadrebbe se ad una moglie o ad un bambino venisse tolto lo sposo o il papà con la motivazione che è tempo di cambiare?

Ma non era il loro un legame d’amore? Che succede? Che si tratta di “amori intercambiabili”?

Obiezione: il parroco e i preti uno non se li sceglie, se li trova.

Contro obiezione: anche il padre uno non se lo sceglie e il marito lo sceglie dentro un contesto, all’interno di conoscenze, di frequentazioni consolidate, non lo ordina per telefono o per decreto o non passa la vita intera a cercarlo per contrade e villaggi sconosciuti. Ad un certo punto sceglie tra chi conosce e conosce chi desidera conoscere.

Qualcuno potrebbe pensare ad una specie di attacco alla conquista di Roiano. Ma no! Normali avvicendamenti.

Tuttavia Roiano, anche se contrada in apparenza dal vigore così rude e maschio, potrà cedere e schiantarsi, perché è fragile, debole.

Se, nel caso specifico, ci fossero veramente, e calcisticamente, attaccanti e punte di sfondamento, certo non troveranno difensori e portieri.

Roiano non vuole lottare, vuole amare.

E questa non è, per una volta, la battuta di Crozza che fa le imitazioni nel “Renzi Show”: davvero a Roiano c’è una concentrazione di passionalità, di gusto per la vita che diventa partecipazione popolare, anche chiassosa, a momenti polemica, ma che fa fronte davanti alla durezza, alla bruttura di quella stessa vita pur gustosa, del potere che su di essa manifesti i propri compiaciuti esercizi, e per questo il nostro rione subisce scacco matto, soccombendo pressoché esanime, davanti a quegli episodi di violenza, financo di omicidio, che pure le cronache hanno registrato in questi anni.

Chissà se sia perché a Roiano si vive come addossati l’uno all’altro, ma certo qui le sorti di ciascuno sono sentite, avvertite, vissute come le sorti di tutti.

Il senso del privato politically correct è molto ma molto relativo da noi.

Si dice: abbiamo i preti che ci meritiamo.

Forse Roiano, in questi anni, ha molto demeritato per perdere in un sol colpo quasi tutti e quattro i suoi presbiteri. Può essere.

Ovviamente nulla ci permettiamo di dire su chi verrà, quando verrà. Certo, se dopo la linea conciliare tracciata dal clero parrocchiale dovesse comparire uno stile centrato sul sacro, sul rito, sull’ammonimento del peccato e sulla riesumazione dei celeberrimi “valori non negoziabili”, l’opposizione a quella linea sarebbe netta e cocente. Ma non è questione di compensazioni o consolazioni.

Osiamo invece qualche domanda: chi ha deciso ha pensato ai nostri bambini e ai nostri anziani? Li è venuti mai a trovare e a chiedere cosa pensassero di un simile cambiamento? Ha passato qualche intero pomeriggio, fino a sera, in oratorio? Si è interessato perché l’Eucarestia domenicale delle 10 continui ad essere un momento centrale per loro e le loro famiglie nelle stesse modalità con cui è oggi celebrata? Si è preoccupato di garantire che la danza notturna dei bimbi nella Veglia Pasquale – che rimane dentro di loro, negli anni, come una memoria di liturgia esistenziale - venga preservata? Sono solo domande, per nulla retoriche. La risposta a tutte potrebbe essere ampiamente positiva, non lo sappiamo.

Che il Vescovo abbia il canonico diritto di provvedere alle parrocchie secondo la sua propria determinazione non ci sono dubbi, ci mancherebbe altro (la Chiesa non è una democrazia, è il ritornello rimbombante che ormai conosciamo per penetrazione vorremmo dire epidermica tanto è ancora assillante, nonostante a Roma sieda un nuovo vescovo abbastanza lontano, ci sembra, dal martellamento sul principio d’autorità), ma appare eccessivo domandarsi se siano stati coinvolti i laici di tutte le Comunità interessate? Non certo perché lo richiede il diritto, ma perché sembrava opportuno, a chi doveva decidere, una consultazione amichevole, sincera, fraterna, profonda. Chissà se ciò sia accaduto, sarebbe bello almeno saperlo.

Si predica avvertenza contro il pericolo estremo, il male assoluto, che corrisponderebbe al disfacimento delle famiglie.

Ma le famiglie hanno pur bisogno di punti di riferimento stabili, di persone conosciute da tempo, di cui si sono fidate per la loro esperienza, umiltà, consapevolezza del grado di complessità della vita, disponibilità al cambiamento quando necessario, capacità di lettura dei segni dei tempi, animo misericordioso e non spirito, o piglio, di condanna.

Questi punti di riferimento da Roiano ora se ne vanno. Che succederà?

Se anche viene distrutta, destrutturata, una Comunità e se anche difensori e portieri non ci sono, resta però la sua capacità di resistenza culturale.

La Comunità non è solo quella che si raccoglie in un edificio di pietra, lo sappiamo, non fosse altro che per la continua ed assolutamente corretta, nonché doverosa, catechesi al riguardo. La Chiesa siamo noi. E siccome siamo noi, non dipendiamo da un edificio determinato.

Storicamente, a nordest, questa riappropriazione di ecclesialità in occasione dell’avvicendarsi del clero parrocchiale ha avuto momenti singolari, drammatici, persino sbalorditivi, come lo scisma di Montaner, nella diocesi di Vittorio Veneto mentre era Vescovo Albino Luciani (si può rinviare, ad esempio, al link http://montaner.sarmede.free.fr/modules.php?name=News&file=article&sid=56), quando la popolazione del paese non accettò la designazione del nuovo parroco e aderì massivamente alla Chiesa Ortodossa.

In quell’occasione venne coniata, si narra, la oggi ilare distinzione tra i cosiddetti “topi”, ovvero “topi di sacrestia”, coloro che difendevano i diritti sovrani dell’Autorità e che rimasero cattolici, e i “gatti”, coloro che invece a quella linea obbediente si opposero, quasi volessero “mangiarsi” norme e direttive ritenute ingiuste, e che diventarono ortodossi.

In effetti oggi Roiano si sente in balia di decisioni piovute addosso come una grandinata che, tuttavia, non avrà la durata temporanea di un temporale estivo, ma piuttosto la verosimile permanenza di un abbuiamento invernale.

La gente non comprende, non ha compreso il perché della distruzione, destrutturazione, di una Comunità.

Ed è questo il problema più grave.

Festa degli Apostoli Pietro e Paolo, quest’oggi, che non si confrontavano a suon di decreti, bensì a viso aperto, segno di una parresia evangelica che è ancora di là da venire.

Ricordava padre Turoldo le parole di Giovanni Battista Montini il quale, riflettendo su quanto stava accadendo a Jacques Maritain nella Chiesa degli anni Cinquanta, ebbe a dire che bisogna soffrire non solo “pour l’église” ma anche “par l’église”, non solo cioè per la Chiesa ma anche a causa delle sofferenze generate dagli stessi uomini di Chiesa.

La Chiesa però siamo noi. Noi, con singoli nomi e cognomi, con singole storie, con vite singole e comuni.

Noi siamo Chiesa. Anche a Roiano.

Forse sarà giunto il momento di far conoscere la storia di Roiano anche a Francesco Vescovo di Roma, che ha il primato della potestà ordinaria su tutte le Chiese Particolari, come recita il can. 333, § 1, del codice di diritto canonico.

Siccome noi siamo Chiesa, quel diritto, così misterioso e forse temibile, è in realtà disciplina di casa nostra, della nostra famiglia ed è doveroso conoscerlo sempre meglio e vedere cosa preveda e disponga.

Ci venne raccontato che in una facoltà teologica, superato l’esame di diritto canonico, estremamente impegnativo, lo studente ebbe ad esclamare: «non immaginavo ci fosse così tanta libertà nella Chiesa».

Questa libertà continuiamo a cercare, nonostante qualsiasi cosa in contrario.

Salus animarum suprema lex esto. A Roiano come dappertutto.

Buona domenica.

E facciamoci reciprocamente coraggio.

Stefano Sodaro