La crocifissione

Gerusalemme, Israeli Museum : plastico della Gerusalemme erodiana: al centro la spianata del Tempio; a sx, con le 4 torri, il palazzo di Erode; in primo piano, sotto il palazzo, appena fuori delle mura, il Golgota; verso dx, sotto la spianata, con 2 torri diverse (una grande e larga, una più slanciata) la fortezza Antonia. Pilato, quando da Cesarea marittima saliva a Gerusalemme, era ospite nel palazzo di Erode, e non nella fortezza Antonia. Se lì risiedeva, lì era anche il pretorio. Allora Gesù è sceso dal palazzo di Erode al Golgota, una cava in disuso per il terremoto (dal terremoto Matteo ricava l’idea del terremoto al momento della morte). Nella devozione, invece, Gesù sale dalla fortezza Antonia per la via Crucis.

(foto di Dario Culot)

Sappiamo bene che il simbolo centrale del cristianesimo è la croce.

Ma non lo fu da subito. Ai tempi di Gesù, la morte in croce era vista come uno scandalo infamante, sì che era inconcepibile pensare di parlare di un uomo finito sulla croce come di Dio o anche solo come figlio di Dio (Hengel M.). Un uomo inchiodato sulla croce, nella società in cui viveva Gesù, e secondo le leggi e i costumi di allora, non aveva nulla a che vedere né con la religione, né con il sacro, né con la pietà, né con la devozione, e ancor meno con qualunque tipo di sentimenti nobili e umani, quali che fossero (Castillo J.M.). La croce, supplizio degli schiavi e dei rivoltosi (esclusa per i cittadini romani), toglieva ogni onore e dignità ed era la squalifica sociale per eccellenza. Per la comunità religiosa del tempo, poi, chi moriva in croce era un maledetto da Dio (Dt 21, 22-23): quindi, con quella morte era dimostrato alla luce del sole che, alle spalle di Gesù, non ci poteva essere Dio (Lohfink G.). Del resto, se fosse stato veramente il figlio di Dio, non solo Gesù aveva fallito, ma anche Dio sarebbe rimasto coinvolto con lui in quel fallimento miserevole. Impossibile credere allora a un simile Dio. Che fiducia può nascere da un fallimento totale quando tutti si attendevano il trionfo?

Non per niente ancora oggi i musulmani, trovandosi d’accordo con la corrente gnostica da noi invece considerata eretica (cfr. sullo gnosticismo il n. 486 di questo giornale, https://sites.google.com/site/liturgiadelquotidiano/numero-486---6-gennaio-2019/gnosticismo), continuano a sostenere che Gesù non è morto in croce.

Il Corano, sura 4, 156-158 afferma con sicurezza: “Gesù non è stato crocifisso, ma Dio lo elevò a sé”, perché è impossibile che Dio sia stato sconfitto ad opera di uomini malvagi che sono nient’altro che polvere rispetto alla sua onnipotenza.

I primi cristiani dovevano quindi superare questo bel problema, visto che adoravano come Dio e come Salvatore un uomo finito in croce insieme a due kakurgoi (Lc 23, 32) o lestas (Mc 15, 27) o lestai (Mt 27, 38), cioè a due malfattori sovversivi, in seguito ridimensionati dal magistero a semplici ladri. Invece è da tener presente che la pena della crocifissione non era affatto prevista per il furto (Cantarella E., I supplizi capitali in Grecia e a Roma); il che dimostra come da subito la chiesa primitiva si fosse trovata fortemente a disagio di fronte alla brutta fine fatta fare a Gesù e, non avendo il coraggio di dire che solo i nemici dell’Impero romano finivano in croce, non solo ha trasformato un terrorista rivoluzionario in un semplice ladro, ma quel ladro è diventato perfino buono: ‘il buon ladrone’, termine sicuramente più simpatico e non così freddo come ladro. Invece i vangeli non dicono affatto questo; non c’è alcuna connotazione simpaticamente positiva: innanzitutto, nello stesso vangelo il termine ladro viene indicato in greco con la diversa parola kleptes (es. Gv 12, 6). Poi Matteo uso lo stesso identico vocabolo lestai sia al Cap. 21, 13 (spelonca di briganti - nella cacciata dal Tempio) sia al Cap.27, 38 (i due briganti in croce). Nell'incidente del Tempio Gesù associa il termine brigante all’élite che comanda; i capi, invece, associano Gesù ai briganti che attaccano l’élite e le sue risorse, sovvertendo l’ordine costituito.

Questo imbarazzo persiste ancora oggi nella Chiesa cattolica, perché - come è stato fatto notare - tuttora, nella versione CEI più recente di Lc 23, 32, si legge: «Insieme con lui venivano condotti a morte anche altri due, che erano malfattori». Ma se leggiamo il testo greco troviamo letteralmente: «Erano condotti poi anche altri malfattori due con lui per essere giustiziati». Ovviamente è una bella differenza dire: “con me, alla cassa del supermercato, c’erano anche altri due, che erano banditi”, oppure dire: “con me, alla cassa, c’erano anche altri due banditi.” Il testo greco, insomma, a differenza di quello italiano, fa capire che i romani sospettavano Gesù di sedizione antiromana, forse a causa dell'incidente del Tempio che poteva essere interpretato come se Gesù avesse avanzato pretese sul santuario in qualità di re dei giudei. Non fu un caso, allora, se il cartello sulla croce che spiegava il motivo della condanna lo indicava come re dei giudei, e del resto solo una condanna come sovversivo giustificava legalmente la crocifissione, perché solo l’accusa di sedizione permetteva la crocifissione (Stegemann W.).

Di fronte al crudo fatto storico i primi cristiani dovettero lambiccarsi il cervello per giustificare come mai adoravano un tizio giustiziato su una croce, visto che una simile fine difficilmente poteva essere abbinata al Figlio di Dio e accettata come modello da imitare. Lo fa notare lo stesso Paolo: Cristo crocifisso per i giudei è scandalo, per gli stranieri pazzia (1Cor 1, 23). Insomma, nella cultura di allora, era escluso che un condannato alla crocifissione potesse essere accettato come Salvatore, proprio come noi oggi non accetteremmo che un terrorista dell’Isis ci venga presentato come Salvatore del mondo. Se qualcuno lo facesse, grideremmo anche noi allo scandalo e daremmo del pazzo a chi cerca di proporci quel terrorista come salvatore.

Per risolvere questo dilemma, apparentemente irrisolvibile, Paolo ebbe un’intuizione geniale e trasformò un’esecuzione legale in un rituale religioso, niente meno che nel sacrificio del Figlio di Dio al Padre, attraverso il quale noi peccatori veniamo salvati.

Per far questo Paolo ricorse alla teologia della sofferenza e dell’espiazione propria del giudaismo, perché – nella sua mentalità,– il Dio di Gesù era pur sempre il Dio dei propri padri (Rm 4, 2-20; Gal 3, 16-21), il quale aveva deciso che suo Figlio venisse ucciso per la redenzione e la salvezza dei credenti. Perché Dio ha dovuto farsi uomo? Perché l’uomo ha peccato e Gesù è dovuto morire per i nostri peccati (1Cor 15, 3), ha dovuto espiarli perché noi potessimo diventare in Lui giustizia di Dio (2Cor 5, 21) (così ancora il messaggio quaresimale del vescovo di Trieste Crepaldi G., Riconciliati in Cristo, 2019, p. 4). Ecco da allora la centralità del peccato nel cristianesimo.

In Israele vigeva in effetti il sacrificio espiatorio, che, secondo il rituale di Lv 4, 27-35 e Nm 15, 27-29, liberava i partecipanti nel rito dei peccati. San Paolo, educato come ebreo fariseo, fece propria quest’antica tradizione ed ebbe l’intuizione di presentare la morte di Cristo come il «sacrificio espiatorio» di cui Dio aveva avuto bisogno per perdonare i nostri peccati (Rm 3, 25-26; 4, 25; 1Cor 15, 3-5). Il sacrificio espiatorio era conosciuto e accettato dagli ebrei e poteva essere capito anche dai pagani.

Se le cose stanno così, che cosa potevano sapere le prime comunità fondate da Paolo dell’amore di Dio-Padre per tutti o del perdono anticipato per tutti, di cui parlano i vangeli, visto che non avevano conosciuto la Buona Novella dei vangeli? Non potevano certamente conoscere e attualizzare le parole ed i fatti del Gesù terreno, perché all’epoca i vangeli non erano ancora stati scritti. Avevano sentito solo la storia del Gesù crocifisso per i nostri peccati, resuscitato e glorificato perché obbediente al Padre fino alla morte. Logico che le comunità iniziali abbiano tramandato l’insegnamento paolino.

In tal modo la storia, l’insegnamento, la passione e la morte di Gesù risultarono credibili e molta gente aderì a quello che si presentava come un progetto divino.

Nell’articolo I concili imperiali (nel n. 448 di questa rivista, https://sites.google.com/site/numeriarchiviati2/numeri-dal-26-al-68/1999992---aprile-2018/numero-448---15-aprile-2018/i-concili-imperiali) si è parlato della svolta che Costantino diede alla Chiesa. C’è da aggiungere che, da Costantino in poi, la croce fu vista in modo differente, con un significato diverso da quello che ebbe alle origini, perché da segno di fallimento e morte, di ignominia di un sovversivo ribelle giustiziato, vissuto al livello più basso nella scala sociale, fu convertita nel segno della vittoria e del potere. La croce profana, strumento di vergogna e di fallimento, si modificò in croce sacra e cominciò ad essere segno di trionfo e di vittoria sugli avversari. Il cristianesimo cominciò ad essere la religione che trionfa e vince sui suoi avversari, sostituendo alla bontà e mitezza di Gesù la violenza del potere. Il Gesù fallimentare della croce si vide trasformato in un lottatore vittorioso in tutte le battaglie, fino ad arrivare all’assurdo di fare della croce un simbolo di potere e dignità, portato con orgoglio sul petto di imperatori e vescovi. Croci di oro e di pietre preziose. Croci che sono (senza che coloro che le portano se ne rendano conto) beffe al dolore e al fallimento di Gesù, come sono beffe al dolore e al fallimento di quelle persone in cui Gesù continua a soffrire e a fallire in questo preciso momento sulla terra (Castillo J.M.).

Dunque, un cambiamento radicale di rotta: Gesù, che aveva accettato la funzione più bassa che una società può assegnare (quella di delinquente giustiziato), passò improvvisamente «ad assolvere la funzione più eccelsa che possiamo immaginare: la funzione di Dio» (Theissen G.). Avendo accettato questo cambiamento, noi oggi annunciamo tranquillamente un Dio crocifisso.

Però l’interpretazione paolina di quel fatto storico dovrebbe oggi indurci a più di qualche dubbio. Qual è, infatti, l’ovvia conclusione di tutta la teologia paolina sulla croce? Se un Dio, che si sente offeso dai peccati degli uomini, vuole soddisfazione e si appaga solo previo tributo di sangue, Dio stesso vuole la sofferenza e il sacrifico di sangue, come del resto riconosce lo stesso Paolo (Eb 9, 20-22: “senza effusione di sangue non c’è perdono”). In altre parole, se a causa del peccato l’essere umano ha bisogno di essere salvato, questa salvezza dal peccato si può – sì,- ottenere, ma solo a costo di grande sofferenza. Invece stando ai vangeli, Gesù ha creduto sempre in un Padre assolutamente buono con tutti (Mt 5, 45; 9, 13;12, 7; Lc 15, 11-32), e finalmente, dopo il Concilio Vaticano II, si è cominciato a insegnare che Dio è innanzitutto amore.

Papa Benedetto XVI ha confermato che Gesù ha dato la vita per i peccatori e, proprio per questo suo atteggiamento, la croce non è un simbolo macabro perché dimostra quanto è grande l’amore di Dio che ha voluto portare la salvezza. Non è facile però convincerci oggi di questo ‘grande amore’ quando leggiamo in concomitanza che «senza spargimento di sangue non esiste perdono» (Eb 9, 2), e che Gesù è morto in croce perché fu obbediente al Padre fino alla morte (Fil 2, 8). Inevitabilmente sorge infatti una domanda: come si fa a parlare di ‘grande amore di Dio’ quando questo Padre richiede il sangue e la sofferenza di un figlio innocente? Non sentite una nota stonata? Secondo Gesù, Dio è un amorevole papà (abba); ma quale Padre ha bisogno di sangue per perdonare? quale papà offre salvezza solo imponendo di soffrire? Com’è possibile associare l’amore alla violenza? È contraddittorio cercar di armonizzare, in uno stesso atto e in uno stesso Dio, la bontà suprema con la malvagità più ripugnante e sadica (Castillo J.M.). In effetti, finché si continua a sostenere che Gesù è morto a causa dei nostri peccati (Rm 5, 6-8; 8, 32; 14, 15; 1Cor 1, 13; 8, 11; 2Cor 5, 14; Gal 1, 4; 2, 21; Ef 5, 2), volenti o nolenti sosteniamo l’idea che il Dio in cui crediamo è un «Dio vampiro» (proprio come sosteneva Nietzsche), un torturatore sadico e violento, il che dovrebbe suscitare ripugnanza e una paura folle (Spong J.S.) piuttosto che gioioso amore, come invece spera il papa emerito.

Diciamocelo francamente: non è un caso se, per la maggior parte della gente, la croce non viene affatto abbinata all’amore, ma alle malattie, alle sofferenze, ai sacrifici, ai lutti; tutti eventi che lo stesso magistero ci ha insegnato essere la croce che noi tutti dobbiamo portare.

Ma non basta! Se accettiamo che Dio è amore (e questa è l’unica definizione di Dio che si trova in tutto il Nuovo Testamento - 1Gv 4, 8.16), deve per forza volere la felicità dell’uomo già su questa terra, perché quando l’uomo ama qualcuno vuole la felicità dell’amato (Castillo J.M.), e felicità significa gioia, allegria. Questa considerazione del tutto logica non ha fatto ancora breccia nella Chiesa, e non viene comunemente accettata dai credenti più religiosi. Anzi, associando Dio all’allegria e al piacere, sembra alle persone più pie di commettere già peccato. Invece soffrire, fare penitenza in questa valle di lacrime, indossare un cilicio, questo sì che ci permette di essere presi in considerazione da Dio, e di avvicinarci a Lui passo dopo passo. Ma quale padre amorevole chiederebbe a suo figlio di indossare un cilicio per amor suo? Come detto ormai più volte, se arriviamo alla conclusione che l’amore di un genitore (offerto gratuitamente) è migliore dell’amore di Dio (che sembra lo elargisca solo a chi se lo merita, e da giusto qual è non esita neanche a sacrificare il proprio figlio), è scontato che, quando l’uomo si scopre migliore del dio al quale viene invitato a credere, rifiuti questo dio che gli sembra inferiore a tutti noi nella capacità di amare.

Per tirare le fila del lungo discorso, oggi, alla domanda del «perché» della morte violenta di Gesù, ci sono due possibili risposte, come ha ben spiegato il più volte citato prof. Castillo, e non più solo quella paolina:

1) seguendo ancora l’insegnamento ufficiale, la sua morte ha una spiegazione misteriosa, inspiegabile per noi, perché fu Dio stesso che, per salvarci dai nostri peccati (Rm 5, 6.8), decretò che suo Figlio dovesse soffrire e morire. Questo ci fa capire che ciò che importa a Dio è soprattutto il peccato che l’offende. Il Dio prospettatoci da Paolo odia in effetti il peccato. Alla decisione divina (del Padre), corrisponde da parte di Gesù un atto di totale obbedienza alla volontà di Dio, in base alle esigenze che la divinità impone agli uomini.

2) Invece il Dio prospettatoci da Gesù ama indistintamente tutti gli uomini, in particolare i sofferenti e i peccatori (come ben risulta dalle parabole del buon samaritano e del figliol prodigo), per cui ciò che importava a Gesù era ovviare alla sofferenza che opprimeva gli uomini, anche se peccatori. Il Dio di Paolo salva sacrificando una vittima innocente. Quello di Gesù salva guarendo chi soffre. Gesù è morto sulla croce perché fu lui stesso, con la sua costante condotta terrena, a creare i presupposti per finire così. Fu una decisione umana (di Gesù) che ebbe la sua origine nella libertà di fronte al potere religioso e politico di questo mondo; e la morte fu conseguenza della sua scelta di vita tesa a fare il bene e risanare gli oppressi (At 10, 38), per liberarci dalla sofferenza qui, sulla terra. Però questo suo comportamento andava incautamente contro l’ordine costituito disturbando i detentori del potere, per cui finì presto e male.

Evidente che da qui nascono e si sviluppano due teologie radicalmente distinte (cfr. I binari della Chiesa al n. 428 di questo giornale, https://sites.google.com/site/numeriprecedenti/numeri-dal-26-al-68/199996---novembre-2017/numero-428---26-novembre-2017/i-binari-della-chiesa), e, com’è logico, anche due modi diversi d’intendere Dio, Gesù, la Chiesa e la stessa spiritualità cristiana.

Ora, se partiamo dall’idea che Dio è Amore, Dio non può essere un nemico della condizione umana, anzi vuole che gli amati siano ogni giorno più felici. Allora dobbiamo logicamente concludere che Dio non può volere la nostra sofferenza. E, se lo permette, è perché in questo mondo la lotta contro la sofferenza, che dovrebbe essere un obiettivo di noi tutti, non si può portare avanti se non mediante la decisione di essere anche disposti personalmente a soffrire per alleviare la sofferenza degli altri. Qui sta la chiave della spiegazione della sofferenza di Gesù sulla croce. La croce non fu decisione di Dio, ma di uomini disumani (cfr. l’articolo Chi ha causato la morte di Gesù, al n. 446 di questo giornale). E la morte di Gesù, conseguenza della sua condotta di vita, è la dimostrazione chiara che si può portare salvezza a questo mondo solo lottando per umanizzarlo, contro tutte le sofferenze e le umiliazioni che patiscono gli uomini, quindi contro tutte le forme di disumanizzazione (Castillo J.M.).

Ancor di più: di fronte alla crocifissione, dobbiamo sottolineare che siamo davanti a un Dio impotente (altro che: ‘Credo in Dio Padre onnipotente’), apparentemente sconfitto; siamo davanti all’antipotere, sì che nessuno (neanche nella Chiesa) può brandire il crocifisso per dominare e controllare gli altri.

In altre parole, se Dio rivela il suo amore nella debolezza della morte in croce, chi nella Chiesa ha un carisma più prestigioso non ha il diritto di dominare gli altri esercitando il suo potere servendosi della croce, ma ha solo il dovere di servire ed aiutare i più deboli, perché se un membro soffre, tutte le membra soffrono con lui (1Cor 12, 24-27). Quanti vescovi, che ostentano la croce d’oro, pensate siano oggi d’accordo su questo punto? Papa Francesco lo è, e per questo chi non accetta la sua visione ritiene che questo papa stia distruggendo la Chiesa (che lui vuole diversa da prima), mentre questo papa applica semplicemente il vangelo troppo a lungo dimenticato.

È stato anche ben detto che quando vediamo leader politici agitare come vessillo della loro fazione il Vangelo e la croce, quando vediamo i loro seguaci che si professano cattolici diffondere astio e offendere chi non la pensa come loro, innalzando cartelli inneggianti - in nome del Crocifisso - ai respingimenti degli stranieri che seguono un’altra religione, delle persone omosessuali o degli zingari, dovremmo ricordarci che Gesù fu crocifisso duemila anni fa, appunto, per gli stessi motivi di rifiuto di un amore fraterno più umano e universale. Insomma, questa gente, che nel nome di Cristo fa di tutto per mandare definitivamente in crisi dei poveracci, sta deformando il Vangelo perché, in fondo in fondo, pensa di essere migliore delle persone che sta rifiutando, mentre in realtà è lontana mille miglia dal messaggio di Gesù, il quale pensava a una comunità di persone che si accolgono per quello che sono, che hanno il coraggio dei propri limiti, che non hanno bisogno di umiliare gli altri per sentirsi migliori (Curtaz P.).

In realtà, tanti fra coloro che si dicono cristiani seguono ancora in tutto e per tutto uno schema antico di credenze che fondava la sua religiosità sui prodigi, sul clamore di un Dio che doveva entrare in scena in modo esplicito e trionfale, com’era accaduto nell’esodo dall’Egitto (Ravasi G.): se Dio fa passare gli ebrei e poi chiude il mare sull’esercito del faraone che li insegue, beh!... chi non crederebbe se vedesse di persona questi segni portentosi? Tutti chiedono dunque segni di onnipotenza e, aspettando un Dio di potere, quasi nessuno riesce a vedere un Dio di amore. Quelli che avevano Gesù sotto gli occhi erano quasi sempre incapaci di percepire i segni dell’amore. Gli stessi fratelli non credevano in lui, perché si presentava come servitore e non come re potente, perché mostrava un Dio capace solo di offrire amore e non d’imporre con pugno di ferro le sue regole divine. Noi oggi siamo ancora nella stessa situazione perché, insomma, Volete mettere un Dio che castiga i cattivi col fuoco eterno e gliela fa pagare cara? Un Dio che ferma il sole affinché i suoi adoratori possano sterminare i nemici? Questo sì che è un Dio al quale si può credere con facilità. Invece un Dio che ama tutti e non castiga nessuno è un Dio debole, che pochi sono disposti ad accettare. Il vero problema allora è: ma lo vogliamo davvero un Dio così come ce lo ha raccontato Gesù? Come ce lo raccontano i Vangeli? Un Dio debole che sta dalla parte degli ultimi? Un Dio indifeso, mite e fragile, che chiede ospitalità e non vana devozione? Che bussa fiduciosamente alla nostra porta (Ap 3, 20), e non la butta giù a pedate? È questo, davvero, il Dio che vorremmo? Di quale Dio vogliamo essere discepoli? O di quale re vogliamo essere sudditi? (Curtaz P.).

Se Gesù avesse seguito le seduzioni del diavolo forse oggi avrebbe molti più seguaci, perché dopo duemila anni noi ancora preferiamo un Dio che interviene in questo mondo con miracoli (Lc 4, 3) ed esercitando un forte potere (Lc 4, 5-7); invece della libertà e dell’amore che ci viene offerto non sappiamo che farcene. Ancora oggi la maggior parte di noi preferisce un Dio forte e onnipotente perché, sotto sotto, la pensiamo proprio come la pensava la maggior parte della gente di allora: se Gesù era veramente figlio di Dio, come mai suo Padre non è intervenuto col famoso “arrivano i nostri?” Dopo tutto Dio era già intervenuto all’ultimo momento per salvare Isacco (Gn 22, 12), o i tre giovani già gettati nel fuoco (Dn 3, 15ss.), o lo stesso Daniele gettato nella fossa dei leoni (Dn 6, 16-24). Se non l’ha fatto, onnipotente com’è, vuol dire allora che proprio Lui, per motivi per noi inspiegabili, ha voluto la morte del Figlio, e allora Paolo ha colto nel segno. Questo è l’unico modo per salvare l’idea che abbiamo, da sempre, di un Dio onnipotente, anche se poi quest’idea va necessariamente a braccetto con quella di un Dio terribile e violento fino alla crudeltà, mentre è in contraddizione con un Dio buono e amorevole. Ma allora aveva ragione Nietzsche quando obiettava che l’idea di un Dio amorevole fa a pugni con la teoria del sacrificio, della espiazione e della soddisfazione, e anzi mette in evidenza un Dio orientaleggiante, incapace di dominare il proprio altissimo senso dell’onore e l’impulso alla vendetta, capace di accettare l’umanità peccatrice solo quando gli è stato pagato un congruo contributo di sangue.

A questo punto dovremmo porci però anche un’ulteriore domanda, come suggerisce sempre il prof. Castillo: quand’anche avessimo beneficiato di questo dramma divino (questo regolamento di conti fra Dio e Dio, Dio-Padre che fa uccidere Dio-Figlio), quand’anche sostenessimo che la suprema crudeltà (la morte atroce in croce del figlio) sfocia nella suprema bontà (la salvezza degli uomini), dove sta per noi la Buona Novella? Perché se il Vangelo deve essere sempre e solo Buona Novella, e non un pacchetto di verità da credere, dobbiamo trovare un aspetto positivo anche nella fine del Gesù terreno, e questa nota positiva deve essere valida per tutti noi oggi. È forse una Buona Novella sapere che la nostra salvezza è costata il sangue di un innocente? Chi sarebbe lieto di essere salvato da un simile sacrificio e dalla sofferenza di un uomo innocente?

Certamente la Buona Notizia non può stare nella spiegazione tradizionale secondo cui Gesù, in quanto Dio, ha espiato per noi i peccati, mentre nessun intervento umano avrebbe avuto pari efficacia salvifica, non potendo noi uomini essere riscattati dalla sofferenza di un semplice uomo (così ancora fa intendere il citato messaggio quaresimale del vescovo di Trieste Crepaldi G., del 2019, p.6). Ma dove sta scritto? Come ha ben detto Rahner Karl, qualunque altra azione morale del Cristo ci avrebbe potuto redimere ugualmente, se così fosse piaciuto a Dio; perfino una lacrima o un sospiro di Gesù bambino sarebbe potuto essere sufficiente. Se Dio vuole sangue è perché è un dio violento e vampiro e non si può credere a una simile immagine di Dio.

La Buona Novella va allora cercata altrove. Visto dal di fuori, nel racconto dell’ultima cena sembra che la missione di Gesù si stia concludendo con un totale e clamoroso disastro: la sua atroce morte fisica, la dispersione dei suoi discepoli e la vittoria del potere costituito. Chi gliel’ha fatto fare ad andare in giro per il mondo e annunciare la Buona Novella se, come sempre, saranno i potenti a vincere con la loro violenza? Non gli resta che un’ultima possibilità: regalare la sua vita, accettando fedelmente di andare fino in fondo alla missione che il Padre gli aveva affidato. Costi quello che costi.

È questo il nocciolo della questione: la rinuncia alla logica del successo per la logica del dono, l’affermazione che la vita non vale per quanto realizziamo od otteniamo nel mondo esterno, per la fetta di potere o di ricchezza che conquistiamo, ma per la misura di dono di cui siamo diventati capaci. Proprio nel racconto delle tentazioni cui si è accennato sopra, si legge: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria perché a me è stata data e io la do a chi voglio»”. La denuncia dell’evangelista è drammatica, perché non è Dio, ma è il diavolo colui che conferisce il potere e la ricchezza (Maggi A.). Potere e gloria sono del diavolo e lui le dà a chi vuole (Lc 4, 6). Invece la piena libertà con cui si muove Gesù affranca gli uomini da questa prigionia (forse è meglio dire schiavitù) che cattura le loro vite e li spinge a diventare qualcuno, a credere che la vita abbia senso solo quando è piena di successi. Gesù non è in quel momento immune dalla delusione, dalla paura. È un uomo solo. Sa che non può liberarsi dai nemici. Può solo mettere la sua vita, che sembra ormai priva di senso, nelle mani del Padre con un atto di fiducia così completo, che rovescia la storia del mondo (Chiesa S.).

Decisione difficilissima da prendere e da mantenere: ma Gesù resta coerente con la missione che ha iniziato e portato avanti con vigore. Facile per noi oggi, nel nostro mondo occidentale, andare contro corrente, criticare, dire pane al pane, perché in Occidente non abbiamo paura di chi detiene il potere ufficiale: senza che ce ne rendiamo conto, oggi siamo protetti da una schiera di giornalisti, avvocati, giudici e anche da tanti politici. Oggi abbiamo più paura del potere mafioso che può ammazzarci subito se ci opponiamo, ma sappiamo che il potere legale deve seguire le lungaggini processuali, e comunque non ci ammazza. Ci sembra tutto così naturale che ci è difficile capire quale coraggio occorreva allora (e anche oggi in altre parti del mondo dove il potere ufficiale ancora ammazza) per comportarsi e parlare da uomo libero, in un regime dove il singolo privo di potere non contava niente, ed era sempre soggetto a misure repressive drastiche, compresa l'eliminazione fisica, com’è effettivamente successo a Gesù.

Eppure quella sera, con la sua scelta, le due strade, la strada del potere dell’uomo e la strada dell’amore gratuito di Dio si dividono per sempre. Appare chiaro che le vecchie Scritture, persino loro, quando avevano cantato l’onnipotenza di Dio con le logore immagini della potenza umana, avevano sbagliato. Sulla croce non muore il sogno di un uomo, ma muore per l’appunto il dio onnipotente, quello che garantisce sempre la vittoria e il successo dei suoi adoratori (Chiesa S.). Anche Bonhoeffer (richiamato in “Famiglia Cristiana”, n.41/2013), scrive che Dio non ci salva in virtù della sua onnipotenza, ma in virtù dell’impotenza che ha vissuto in Cristo, fattosi uomo uguale a noi. O, detto in altro modo, sulla croce non morì Dio, come tante volte si è detto, bensì morì la religione che esalta il potere, che rinchiude Dio nel Tempio e lo mette nelle mani dei sacerdoti, i quali poi si presentano con la pretesa di essere essi, e solo essi, la voce di Dio e gli amministratori sacri del suo potere immenso. Quando muore la religione del sacro, del potere, sorge la religione che visse e insegnò Gesù (Castillo J.M.).

Nel Vangelo non c’è traccia di vittoria secondo la visione comune del mondo. Nessun trionfo, nessun innalzamento su un trono, nessun acuto di tromba: neanche nelle pagine della Trasfigurazione, che per un attimo danno l’impressione di un trionfo di Gesù (tanto che gli apostoli dicono: “stiamo così bene, restiamo qui”). Anche la Trasfigurazione ha il segno della sofferenza e del fallimento. Ma proprio nella Trasfigurazione si vede come andrà a finire; si vede che questo candidato alla sofferenza, alla morte sulla croce, è stato scelto da Dio per dare inizio a un progetto che va oltre la sua vita. La sua vita, allora, nonostante la sua morte raccapricciante decisa dagli uomini e non da Dio, non sarà un fallimento, perché niente di esterno può togliere il senso della vita di ciascuno di noi. La vita ha un senso perché è nelle mani di Dio, e nessuno – qualunque cosa ci facciano o ci capiti - può rubarci questo senso. È questa la speranza, la Buona notizia da cogliere nel Vangelo (Chiesa S.). Noi ci siamo focalizzati troppo sulla croce, ma non è la croce a dare un senso alla vita di Gesù; la croce è un incidente di percorso come lo può essere una grave malattia, ma questo non significa fallimento se abbiamo avuto il coraggio di affidare la nostra vita a Dio.

Invece ci hanno insegnato che la morte in croce di Gesù è stata un sacrificio che Dio ha molto gradito. L’idea classica di sacrificio esprime simbolicamente che una vita vive a spese di un’altra, perché distruggendo un’altra vita, si assicura e s’incrementa la propria. Seguendo Paolo, abbiamo reso Gesù vittima, l’agnello pasquale. Il Dio di Paolo salva sacrificando una vittima (innocente). Quello di Gesù salva guarendo chi soffre. Il sacrificio vien fatto in vista di uno scambio (“io ti do questa vittima cui tolgo la vita, ma tu Dio mi dai in cambio…”), mentre il Vangelo è per la gratuità, e viene a indicare un cambio radicale nella «lotta per la vita», che non si realizza più sacrificando altre vite bensì, al contrario, lottando in favore di queste altre vite, soprattutto di quelle più minacciate e a rischio, ancorché questo possa portare con sé il rischio di mettere in pericolo la propria vita, la propria sicurezza, il proprio onore e il proprio potere. Proprio così è avvenuto con Gesù (Theissen G.). Così, da una parte, si può spiegare la sofferenza di Gesù sulla croce, decisa da uomini disumani. Dall’altra, la morte di Gesù è la dimostrazione migliore che solo lottando per umanizzare questo mondo, contro tutte le sofferenze e le umiliazioni che patiscono gli uomini, è possibile apportargli salvezza. Seguire Gesù vuol dire allora farsi carico delle dure conseguenze che può portare con sé la chiara presa di posizione in favore delle vittime di questo mondo. Ma solo così la religione smette di essere un rito inumano e si converte in un’appassionata difesa di ciò che è umano (Castillo J.M.). E solo così Dio smette di essere quel vampiro che si acquieta con un sacrificio di sangue umano, ben descritto da Nietzsche.

Dunque, realisticamente, il Vangelo ci dice che la lotta contro la sofferenza non si può portare avanti se non mediante la decisione di essere, a nostra volta, disposti anche a soffrire, se realmente vogliamo alleviare la sofferenza degli altri. Non basta pregare in chiesa perché Dio risolva i problemi di questo mondo. Quando io non muovo un dito per gli altri che stanno soffrendo, forse non soffro standomene tranquillo nel mio guscio, però mi sto lentamente e sempre più disumanizzando. Dio ci chiede invece di essere sempre più umani. Con Gesù cambia tutto il rapporto tra uomo e Dio, cambia perciò la religione, si passa dal Dio onnipotente che impedisce la sconfitta al Dio che ci rivela che l’unica sconfitta è non essere stati capaci di amare gratuitamente i nostri simili; dal Dio che garantisce la vita tranquilla, al Dio che ci dice che non è vita un’esistenza non inquietata dall’amore per gli altri (Chiesa S.).

Dario Culot