L’amore non si può condividere - relazione di Stefano Sodaro - 6 ottobre 2018, Villanova di Castenaso (Bologna)

Questa mattina è stato fatto il nome di Ernesto Balducci (ma lo ha fatto, Pietro Piro, anche nella sua intervista di introduzione all’odierno incontro, http://www.vita.it/it/article/2018/09/27/condividere-pensare-la-comunita-futura/149173/), Balducci interprete dei tempi che viviamo, il quale, analizzando gli esiti verificatisi, ben concreti, della nostra cultura – di una cultura, cioè, per capirci subito, di cui anche il nazifascismo è frutto –, ha indicato inedite possibilità di reagire, di disegnare altre strade ed altri percorsi, proprio a partire, però, dalla nostra stessa cultura, in cui sono presenti anticorpi, pur nascosti, in grado di contrastare le possibili degenerazioni più terribili, più oscene.

Chiediamoci allora: che cosa possiamo condividere e che cosa invece non possiamo assolutamente condividere?

Perché in culture altre dalla nostra c’è una quasi esatta inversione di ambiti esplicativi, di spazi espressivi.

In altre culture ciò che per noi è privato – ad esempio il momento del lutto – appartiene a dimensioni primariamente e totalmente pubbliche e ciò che è per noi pubblico – andare al mare in costume, tanto per fare un esempio – è dimensione totalmente privata.

Dunque?

Scrive l’autore della Lettera a Diogneto, II secolo, al capitolo V, numero 7, descrivendo i Cristiani: “Mettono in comune la mensa, ma non il letto.”

E però scrive Teresa d’Avila, in una lettera alle consorelle: “O Dio, concedete anche a me di essere così amata da molti!” (in E. Ronchi, I baci non dati, Paoline 2017, p. 51).

Come ne usciamo?

Chi è più “avanzato”, in termini di grossolana vicinanza alla nostra attualità culturale? L’autore del II secolo o la mistica del XVI?

Perché non pare esservi dubbio che uno dei momenti fondativi, più intensi, più coinvolgenti, davvero decisivi della nostra esperienza di vita, non può essere condiviso.

Lo sappiamo, ce lo dicono, ce lo hanno insegnato.

A 50 anni dal Sessantotto una “comunità erotica” – chiamiamola così – non è più né trasgressione, né, tanto meno, alternativa, è soltanto perversione.

Ma non è che abbiamo dunque, così, pervertito l’amore?

Noi che cosa desideriamo nel più profondo di noi stessi? Di essere da soli o al massimo – ma proprio al massimo – in due e tutto il mondo fuori? Davvero questo desideriamo?

Il matrimonio è cancello che fa entrare in un recinto o porta che apre al mondo?

Sembra davvero che l’amore non si possa condividere.

Bisogna restare dentro il recinto.

Conosciamo bene l’affermazione per cui l’amore è ben altro dall’amicizia, è di più, è ultra, oltre.

Il rapporto di coppia mica è solo amicizia, giusto?

E che cos’altro allora dovrebbe essere però?

C’è forse qualcosa di più importante dell’amicizia? Il discrimine dove sta? Nell’esercizio, inibito dall’amicizia ed invece necessitato dall’amore, della sessualità?

Sessualità che, appunto, non si può certo condividere. Così almeno ci ammaestra un’intera cultura. Sessualità che fa la differenza, essa sola. Potentissima. Una gigantografia del sesso che incombe su ogni scenario d’amore.

Siamo sicuri che eros (che non è proprio la stessa cosa del sesso ma qui lasciamo andare ora) non si possa condividere?

Vangelo di Luca, cap. 7.

Capelli femminili che asciugano piedi maschili dopo averli profumati, baci, carezze, pianti, visi che le mani alzano a dignità, ad altezza di un altro volto che non giudica, che non afferra, che non uccide, né con le parole, né con i gesti, né con le emozioni, i pensieri ed i sentimenti.

Poi l’uso, ripetuto, quasi a mo’ di antifona, del verbo greco “agapáo”, verbo misteriosissimo, umile, quasi discosto rispetto all’impeto sfavillante di lessico e linguaggio comuni. Amore non comune dunque. Ma neppure alieno o alienante.

Amore come di vita, amore come una vita.

Eros purtroppo può degenerarsi, sino ad essere, perversamente appunto ma qui si comprende bene, imparentato con violenza, omicidio, distruzione.

Agápe no, mai.

Eppure, se eros senza agápe muore e fa morire, anche agápe senza eros sparisce, svanisce, neppure compare, è una pura astrazione intellettuale, un ideale niveo e persino pericoloso, perché annega in un indistinto, insipido, “volersi bene” le esigenze di giustizia che il desiderio pone, formula, pretende siano ascoltate.

Ma nel Vangelo di Luca, al cap. 8, c’è poi uno stupefacente personaggio che corrisponde a Giovanna, moglie di Cusa.

Come può anche solo tollerarsi che di fronte ad un diverso uomo maschio il testo evangelico faccia riferimento al marito di una donna che a quell’altro si accompagna? Giovanna, moglie di Cusa, sta con il rabbi di Nazaret, va con lui. Siamo ai limiti del puro scandalo. Della sconvenienza da manuale, dell’illecito da caso di scuola.

Molti interpreti, e non solo nel passato, si sono affannati a cercare di spiegare come Cusa sia nome di defunto o sia stato insopportabile sposo da cui doverosamente separarsi per non incorrere in pericoli vari.

E se invece simili spiegazioni – che non trovano alcun fondamento scritturistico – fossero semplice appannaggio culturale dell’impossibilità di far uscire il Vangelo dalla morale corrente?

Cusa era vivo e vegeto, altrimenti Giovanna sarebbe stata tratteggiata come sua vedova. Forse non approvava la scelta della moglie, forse sì.

Forse Cusa era un discepolo benché – o già nel passato – amministratore di Erode.

Poveri amministratori, funzionari, impiegati, che sembrano non dover mai trovare una propria collocazione nel Regno di Dio in forza della propria condizione lavorativa, ma dover essere sempre giustificati per ben altre ragioni, dovendo cioè attingere altrove il senso ultimo della propria vita davanti a Dio.

Perché dobbiamo necessariamente supporre che il voler bene – l’agápe – fosse stato compromesso, rovinato, fessurato, con la separazione tra Giovanna e Cusa, dovuta a morte o a incompatibilità di vita, onde rendere lecito l’accompagnarsi di una donna sposata a Gesù di Nazaret? Perché amore non si può condividere?

Nel secondo Libro di Samuele pure compare una donna sposa di un uomo e sposata da un altro.

Davide sposa la moglie di Urìa l’Ittìta.

Ma qui il volersi bene è stato effettivamente distrutto da un omicidio.

Urìa è morto secondo un piano preciso di Davide che ha voluto toglierlo di mezzo.

Allora il tradimento – così duramente sanzionato da tutti i codici matrimoniali di ogni tempo e latitudine – non starà nel sopprimere più che nell’aggiungere, nel restringere più che nel moltiplicare, nello smorzare più che nell’accendere altre luci?

È peccato uccidere, sopprimere, spegnere. Ma potenziare il chiarore?

Certo, l’obiezione è scontata, semplice, persino elementare: così si giustifica tutto, così non ci sono più limiti, così tutto diventa lecito.

La contro-obiezione può basarsi su parole pure del tutto destabilizzanti nel medesimo capitolo 7 di Luca: “Sono perdonati i peccati di lei, che sono molti, perché ha molto amato. Colui cui si perdona poco, ama poco.”

Quasi ci fosse un’inammissibile convergenza tra amore e peccato d’amore. Il che risulta in benefica, evangelica, contraddizione. E ci è di scandalo.

Nel senso cioè che, in fondo, alla fine di tutto, un “peccato d’amore” proprio non può esistere, benché le norme etiche lo additino come colpa d’eccesso, come cedimento al vizio, come smarrimento nei labirinti della passione, come emergere di un’animalità intollerabile – che tuttavia (merita un momento osservarlo quasi tra parentesi) risulta del tutto conforme al tanto decantato ordine naturale -.

E non solo non può esistere, ma paradossalmente è esso, quel peccato, la prova dell’amore vero.

Dunque agápe non è affatto un modo blando, scipito, incolore di amare.

Agápe, ad esempio, è l’amore di una madre e di un padre per il proprio figlio e la propria figlia.

Un amore in cui c’è molto, moltissimo, eros, ma che parla lingue di dedizione assoluta, infinita, totalizzante, eppure povera, precaria, persino frammentata, quasi sempre incerta, dubbiosa, mendicante comprensione d’altri.

L’eros agapico – ossimoro inquietante, sarebbe come dire “amicizia amorosa” - non vuole togliere di mezzo proprio nessuno, mai.

È forse un altro modo di nominare la “carità”, che tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.

La famiglia non basta affatto a se stessa.

La coppia non basta a se stessa.

Le genitorialità non basta a se stessa.

“La tua fede ti ha salvato” che significa?

In greco “fede” è “pístis”, fiducia. E fiducia in che?

Fiducia nell’Altro.

Fiducia che c’è Altro.

Che noi – io, te e la nostra casa – non esauriamo il Mondo, non siamo la chiave di comprensione dell’Universo, ma abbiamo bisogno di Altro, di Altri, di Lui, di Lei, di Dio.

Questa confidenza nell’alterità salva dal sentirsi referenti unici ed esclusivi.

Questa fiducia guarisce, è terapeutica.

Insegna a giocare invece che a controllare le previsioni di legge.

Porta a scoprire che, per amare, si deve giocare e soffrire. Rendersi responsabili dell’amore giocando.

Se si pecca molto, vuol dire che si ama molto e solo per questo molto sarà perdonato.

Ma perché sia perdonato ciò che è perdonabile – e dunque perché svanisca la sovrapposizione tra amore illecito e peccato – c’è bisogno di fiducia, di abbandono confidente, che è l’esatto contrario del senso di colpa, del sentirsi schiacciati dalla propria inadeguatezza e rimanervi assoggettati.

Scrive il vescovo domenicano Jean-Paul Vesco: «In questa fraternità cristiana, plasmata dall’amicizia, ciò che è donato ad uno non è sottratto all’altro» (in Il dono dell’amicizia, Queriniana 2018, p. 66).

Ciò che è donato ad uno non è sottratto all’altro.

Aggiungo io: senza nessuna esclusione di ambiti in cui questo possa avvenire o non possa avvenire.

Pensiamo al desiderio sessuale di chi ha un handicap. Quel desiderio di condivisione va represso o comunque deve restare inascoltato, perché da nessuno condivisibile fuorché in un legame di coppia?

La strada dell’Uno non è mai, mai, la strada dell’esclusione.

Linguaggi sconosciuti, impervi, scomodi. Certo.

Vangelo di Matteo, capitolo 22: “Infatti, nella resurrezione non ci si sposa né si viene sposati, ma si è come angeli del cielo”.

Il matrimonio che impedisce dunque la libertà dell’angelo, il suo volo? Che addirittura non fa cogliere appieno la radicale diversità della risurrezione?

La risurrezione si condivide.

E la risurrezione o è amore o non è niente.

Ma che cosa ci può stare dentro, che cosa troveremo, nella risurrezione?

Tutto, tutto. Nulla vi sarà escluso.

La condivisione sarà totale.

Questo significa non sposarsi e non venire sposati.

Fare del matrimonio una profezia escatologica e fare dell’éschaton una totalità matrimoniale, nuziale, sponsale.

Allora, se da una parte è verissimo – ce lo dice l’universo mondo in cui viviamo – che l’amore non si può condividere, dall’altra sappiamo, avvertiamo, intuiamo che solo se assurdamente, pazzescamente, verrà condiviso, l’amore stesso si salverà. E non finirà.